Attenzione: la morte del Pd non c’è
stata ieri, con il segretario che getta la spugna dinanzi alle lobby interne,
grida al tradimento e se ne va. C’è stata con la diretta streaming dell’incontro
con i Cinquestelle. Pochi minuti in cui è andato in scena il pietoso spettacolo
del partito tradizionale che si dissolve e della democrazia di sorveglianza che
avanza. Perché quello di Grillo non è un partito personale come è stato
scritto. L’ex comico è solo il rappresentante momentaneo di ciò che i sociologi
chiamano “democrazia della sfiducia organizzata” il cui fine è dare voce al
popolo-controllore, al popolo-giudice, al popolo-sorvegliante (si veda, sul
tema, il bel saggio di Pierre Rosanvallon, Controdemocrazia,
Castelvecchi). Ma torniamo a Bersani: dunque il partito-apparato se ne va in fumo
con la complicità dello streaming, il partito decisore si dissolve nel
confronto estenuante, il partito che dovrebbe puntare all’egemonia si piega al
giudizio degli infanti del Parlamento. E solo dopo, solo dopo che il re è
apparso nudo e in qualche modo simbolicamente ghigliottinato (e per re
ovviamente non si intende Bersani ma una certa visione della politica), parte l’assalto
di Matteo Renzi, cominciano le rivendicazioni di D’Alema, le cinquanta cartelle
di Fabrizio Barca (uno che neanche aveva la tessera) sui destini del partito, i
malumori ribollenti degli ex popolari. Quello è il passaggio dalla politica che
legge La psicologie delle folle di Le
Bon e L’Arte della guerra di Sun Zu
alla politica che si perde nei mille rivoli dei tweet che diventano livoroso cinguettìo,
orgia di disappunto, dissacrazione, veleno, resistenza, botta e risposta,
paranza del giornalismo vip. E pensare che solo vent’anni fa Ciriaco De Mita
regalava in Parlamento un libricino che si chiamava L’arte del silenzio. E come può resistere un partito in questa morsa?
Come può resistere un partito (al di là degli innegabili, pervicaci errori di
Bersani) quando le sue correnti pur di farsi la guerra mettono a repentaglio l’esistenza
stessa della casa cui appartengono? E le correnti non sono più a loro volta
portatrici di una sintesi di cultura politica, di un’idea di società e del modo
di affrontare le trasformazioni economiche ma sono cordate che cercano più
potere e più poltrone.
Mai come in queste ore è apparso
evidente il dramma del Pd: in parte erede dell’antica serietà del partito
comunista, in parte, in larga parte divenuto partito contenitore senza più
alcun addentellato nella vivacità del Novecento che aveva dato i natali ai
partiti fondati su una causa nobile, su un ideale, su un idea di rivoluzione. E
il partito contenitore, lo sappiamo perché lo si vede anche sul fronte opposto,
quello del Pdl, è solo insieme di interessi, convergenza di apparati che
sopravvivono a se stessi, meccanismo senza alcuna ventata di energia e di
spirito. Resta da vedere se il saluto all’ultimo dei partiti sia qualcosa da
festeggiare o di cui rammaricarsi. Bè, per l’incapacità dimostrata dai suoi
dirigenti (compreso l’arrembante Matteo Renzi) la fine del Pd appare come
epilogo più che giusto. Non lo è per chi è cresciuto ripetendo a se stesso una
famosa frase di Adriano Romualdi, uno dei pochissimi intellettuali transitati per
il Msi: “Sogno un partito come la Compagnia di Gesù o come il Partito comunista”.
Una frase dietro la quale c’era l’idea, molto vintage, molto anni Settanta, per
cui se si faceva politica doveva esistere qualcosa di superiore al singolo
individuo, qualcosa per la quale valesse la pena perdere e disperdere energie.
Un partito, appunto. Il tramonto definitivo di questo concetto, lo sappiamo,
lascia spazio ai partiti-contorno (Pdl), ai partiti tematici, ai partiti di
nuovo conio buoni al massimo per una-due tornate elettorali, alle sigle che
nascondono solo gruppi di potere e di interesse (si veda la candidatura di
Alfio Marchini a Roma). Si dirà che con il Pd muore la sinistra e dunque chi
sta dall’altra parte deve esserne contento. E perché mai? Senza avversari muore
anche la politica. E del resto anche la destra è morta da un pezzo, e anche in
quel caso per colpa dei colonnelli che hanno a un certo punto scaricato il vecchio
leader per diventare loro stessi interlocutori del nuovo e più ricco e più
potente capo. E anche allora i segnali di disfacimento non vennero colti. Anche
allora si brindava e si cantava, come ha fatto ieri sera Berlusconi alla cena
elettorale di Alemanno, per un Fini cacciato via. Ora si canta e si balla per
un Prodi affondato, per una Bindi dimissionaria, per un Bersani KO. Finché la
gigantesca onda anomala che sta seppellendo la politica non finirà il suo
percorso, lasciando tra i detriti anche i brindisi frettolosi e le canzoncine
allegre. Brindisi e canzoncine, peraltro, che hanno avuto come scenario una
cena elettorale del sindaco di Roma uscente Gianni Alemanno il quale forse ha
dimenticato, nell’ebbrezza dei festeggiamenti, che anche i suoi elettori hanno
visto Report.
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