Luciano Lanna
Qualche anno fa
Pierluigi Battista ha saputo squarciare quel velo di censura e rimozione che
per troppi anni ha impedito agli italiani di raccontarsi la loro più vera e
profonda storia personale, familiare e generazionale. Una storia che, nella sua
complessità, si pone oggettivamente al di là di tutte le narrazioni ideologiche e
strutturali che hanno egemonizzato per decenni il nostro racconto collettivo. E
veniamo al punto: Battista annotava il fatto che, finalmente, i figli dei
fascisti non si vergognavano più e potevano tirare fuori senza più reticenze la
propria vera vicenda familiare. “Da qualche tempo – scriveva Battista – i figli
dei fascisti hanno imparato a dire di essere figli di fascisti, senza i penosi
balbettii dell’imbarazzo e le remore psicologiche del passato”. Il giornalista
citava, tra i tanti, oltre al suo caso personale, quelli di Vincenzo Cerami,
Paolo Rossi, Giampiero Mughini e Darwin Pastorin. E tanti altri, guardando ai
padri o ai nonni o agli zii, se ne potevano aggiungere: da Antonio Padellaro a Dario Franceschini, da
Nicola Emiliano a Marco Lodoli, da Enrico Vaime a Massimo Cacciari, da Giacomo
Marramao a Lorenzo Pavolini… Riuscire a fare i conti – e far la pace – con il
fascismo in casa o in famiglia, ha coinciso quindi con una nuova memorialistica
che scalzando le vecchie letture astratte e ideologiche ha cominciato a
pacificarci con la nostra più autentica memoria collettiva. E così, tanto per
dire, abbiamo iniziato a far riaffiorare molti rimossi e a reintrodurre l’imprescindibile
(e spesso sorprendente) “fattore umano” nella ricomprensione del nostro
passato. Una aspetto che vale, ad esempio, per il nucleo centrale del bel libro Parole di giorni un po’ meno lontani (il
Mulino, pp. 190, euro, 15,00), scritto dal filosofo del linguaggio
ed ex ministro Tullio De Mauro.
“Mio fratello – si
legge a un certo punto – non aveva più dubbi: aveva deciso di aderire alla Rsi
e di ripresentarsi in armi. Anche i miei genitori condivisero la scelta e, per
quel che era possibile a un ragazzo di undici anni, la condivisi anche io…”. E
De Mauro definisce infatti il sé stesso di quegli anni proprio come un “ragazzo
fascista”: lo stesso Mauro che, nel dopoguerra, si avvicinerà agli ambienti radicali che
gravitavano attorno alla rivista Il Mondo,
che negli anni Settanta sarà consigliere regionale e assessore alla Cultura
alla Regione Lazio in quota Pci e che, tra l’aprile del 2000 e il giugno 2001,
sarà ministro dell’Istruzione di un governo di centrosinistra. Eppure, suo
fratello Franco, aviatore volontario e fascista, era morto eroicamente in volo
il 3 marzo del 1943. L’altro suo fratello, il giornalista Mauro (di cui si
parlerà nel 1970 per la tragica scomparsa dopo alcune sue inchieste sul caso
Mattei), si era arruolato volontario nella Decima Mas, fera stato fatto prigioniero a
Coltano e fu anche latitante fino all’assoluzione nel 1948… E per finirla,
anche il maestro di studi linguistici di De Mauro, il grande glottologo
Antonino Pagliaro, era stato fascista ed epurato.
Ma l’episodio secondo
noi più sintomatico dello scoperchiamento di complessità da cui siamo partiti è
quello sul tema che Tullio De Mauro scrive in quarta ginnasio. Siamo al liceo “Giulio
Cesare che l'attuale filosofo del linguaggio frequentò da adolescente a Roma, e dove ebbe per compagno di classe Mario
Gionfrida. “In quell’autunno del 1945 – racconta De Mauro – tra i nostri
compagni, chi aveva opinioni o appartenenze politiche precise non le
manifestava. Con due sole eccezioni: io e il ragazzo seduto al primo banco, il
mingherlino, allora, minuto, capelli a spazzola e occhialini tondi, Mario
Gionfrida. Io ero il fascista della classe. Mario ereditava invece dalla
famiglia la convinzione opposta, era il comunista della classe…”. Un giorno il
professore di lettere dà un tema non banale, e non così frequente all’epoca:
come vedete l’Italia contemporanea. “La guerra era finita – scrive oggi De
Mauro – da pochi mesi, la sconfitta del fascismo archiviata, la scelta di
combattere insieme ai tedeschi ‘per l’onore d’Italia’ si era conclusa con la
dissoluzione della Rsi. Nel mio tema ripercorrevo le ragioni di quella scelta e
la difendevo con passione…”. Quando il professore riporta i temi, disse che
quello di De Mauro era controcorrente e non condivisibile, sosteneva una tesi
“sbagliata”, ma era ben argomentato e davvero ben scritto.
Passarono alcuni
anni, e tanta acqua sotto i ponti. “Il mio guscio fascista si era incrinato e
poi rotto”, spiega De Mauro: “Nel 1951, sedotti da Marco Pannella, Gabriele
Giannantoni e io c’eravamo frettolosamente iscritti al Partito liberale per
sostenere la sinistra liberale vicina a quelli del Mondo…”. Poi, la sua militanza nella laica Unione Goliardica che si
contrapponeva ai neofascisti del Fuan, l’organizzazione universitaria missina:
“Fu in quel contesto – leggiamo – che incontrai di nuovo, dopo anni, Mario
Gionfrida. Di nuovo tuttavia simpatizzammo, e ironizzammo sul fatto che ci
eravamo mossi in direzioni opposte senza però incontrarci, ma per ritrovarci di
nuovo su fronti avversi”. E lì Gionfrida – noto anche col soprannome de “il
Gatto” – si lasciò andare a due confidenze: “La prima, di cui gli fui grato era
– ricorda De Mauro – che quando si organizzava qualche squadra per una
spedizione punitiva contro qualcuno di noi laici di sinistra, se veniva fatto
il mio nome, lui interveniva per dirottare altrove l’impresa. E la seconda era
che faceva questo perché si sentiva in debito con me”. Perché? “Mi spiegò Mario
– conclude la sua confessione il linguista – che ero stato io, col mio tema, a
colpirlo, a commuoverlo, a spingerlo sulla via della rivalutazione del fascismo
e, quindi, dell’avvicinamento alle organizzazioni giovanili neofasciste…”.
Gionfrida d’altronde si impegnerà a tempo pieno in politica, scalando il Msi a
Roma, e avendo un momento di notorietà quando, guidando con Vittorio Sbardella
e altri, un corteo di giovani missini, arrivato presso la sede del Pci in via delle
Botteghe Oscure si avvicinò alla libreria Rinascita per lanciare una bomba
carta che, però, gli esplose mentre la teneva ancora in mano. La mano gli venne
dilaniata senza possibilità di recupero e Gionfrida visse sempre con una
protesi ricoperta da un guanto nero montato sul moncherino. Fu fino al 1993,
consigliere comunale a Roma, e nel partito era vicino alla componente di Pino
Ronualdi. Di lui parla anche il suo coetaneo milanese Tomaso Staiti nel recente
libro “on line” Il suicidio della destra.
Non una schianto ma una lagna: “Erano
anni di ragazze, osterie, libri mal capiti ma letti, famiglie preoccupate,
spesso politicamente divise, come quella di Mario Gionfrida, ‘il Gatto’ il
quale ci aveva rimesso un braccio nell’assalto con bomba carta a via Botteghe
Oscure e la cui sorella era una decorata della Resistenza”. Una vera e complessa
scelta di campo, insomma, quella che Gionfrida, forse, tenne segreta sino alla
sua scomparsa nel 2001. E che oggi il “comunista” (?) Tullio De Mauro ricorda
con affetto e nostalgia. Aiutandoci, tutti, a fare i conti (e a pacificarci) con
l’eredità del Novecento.
Nessun commento:
Posta un commento