giovedì 18 aprile 2013

Il filosofo e "il Gatto": quando Tullio De Mauro era fascista e Mario Gionfrida comunista


Luciano Lanna

Qualche anno fa Pierluigi Battista ha saputo squarciare quel velo di censura e rimozione che per troppi anni ha impedito agli italiani di raccontarsi la loro più vera e profonda storia personale, familiare e generazionale. Una storia che, nella sua complessità, si pone oggettivamente al di là di tutte le narrazioni ideologiche e strutturali che hanno egemonizzato per decenni il nostro racconto collettivo. E veniamo al punto: Battista annotava il fatto che, finalmente, i figli dei fascisti non si vergognavano più e potevano tirare fuori senza più reticenze la propria vera vicenda familiare. “Da qualche tempo – scriveva Battista – i figli dei fascisti hanno imparato a dire di essere figli di fascisti, senza i penosi balbettii dell’imbarazzo e le remore psicologiche del passato”. Il giornalista citava, tra i tanti, oltre al suo caso personale, quelli di Vincenzo Cerami, Paolo Rossi, Giampiero Mughini e Darwin Pastorin. E tanti altri, guardando ai padri o ai nonni o agli zii, se ne potevano aggiungere: da Antonio Padellaro a Dario Franceschini, da Nicola Emiliano a Marco Lodoli, da Enrico Vaime a Massimo Cacciari, da Giacomo Marramao a Lorenzo Pavolini… Riuscire a fare i conti – e far la pace – con il fascismo in casa o in famiglia, ha coinciso quindi con una nuova memorialistica che scalzando le vecchie letture astratte e ideologiche ha cominciato a pacificarci con la nostra più autentica memoria collettiva. E così, tanto per dire, abbiamo iniziato a far riaffiorare molti rimossi e a reintrodurre l’imprescindibile (e spesso sorprendente) “fattore umano” nella ricomprensione del nostro passato. Una aspetto che vale, ad esempio, per il nucleo centrale del bel libro Parole di giorni un po’ meno lontani (il Mulino, pp. 190, euro, 15,00), scritto dal filosofo del linguaggio ed ex ministro Tullio De Mauro.



“Mio fratello – si legge a un certo punto – non aveva più dubbi: aveva deciso di aderire alla Rsi e di ripresentarsi in armi. Anche i miei genitori condivisero la scelta e, per quel che era possibile a un ragazzo di undici anni, la condivisi anche io…”. E De Mauro definisce infatti il sé stesso di quegli anni proprio come un “ragazzo fascista”: lo stesso Mauro che, nel dopoguerra, si avvicinerà agli ambienti radicali che gravitavano attorno alla rivista Il Mondo, che negli anni Settanta sarà consigliere regionale e assessore alla Cultura alla Regione Lazio in quota Pci e che, tra l’aprile del 2000 e il giugno 2001, sarà ministro dell’Istruzione di un governo di centrosinistra. Eppure, suo fratello Franco, aviatore volontario e fascista, era morto eroicamente in volo il 3 marzo del 1943. L’altro suo fratello, il giornalista Mauro (di cui si parlerà nel 1970 per la tragica scomparsa dopo alcune sue inchieste sul caso Mattei), si era arruolato volontario nella Decima Mas, fera stato fatto prigioniero a Coltano e fu anche latitante fino all’assoluzione nel 1948… E per finirla, anche il maestro di studi linguistici di De Mauro, il grande glottologo Antonino Pagliaro, era stato fascista ed epurato.
Ma l’episodio secondo noi più sintomatico dello scoperchiamento di complessità da cui siamo partiti è quello sul tema che Tullio De Mauro scrive in quarta ginnasio. Siamo al liceo “Giulio Cesare che l'attuale filosofo del linguaggio frequentò da adolescente a Roma, e dove ebbe per compagno di classe Mario Gionfrida. “In quell’autunno del 1945 – racconta De Mauro – tra i nostri compagni, chi aveva opinioni o appartenenze politiche precise non le manifestava. Con due sole eccezioni: io e il ragazzo seduto al primo banco, il mingherlino, allora, minuto, capelli a spazzola e occhialini tondi, Mario Gionfrida. Io ero il fascista della classe. Mario ereditava invece dalla famiglia la convinzione opposta, era il comunista della classe…”. Un giorno il professore di lettere dà un tema non banale, e non così frequente all’epoca: come vedete l’Italia contemporanea. “La guerra era finita – scrive oggi De Mauro – da pochi mesi, la sconfitta del fascismo archiviata, la scelta di combattere insieme ai tedeschi ‘per l’onore d’Italia’ si era conclusa con la dissoluzione della Rsi. Nel mio tema ripercorrevo le ragioni di quella scelta e la difendevo con passione…”. Quando il professore riporta i temi, disse che quello di De Mauro era controcorrente e non condivisibile, sosteneva una tesi “sbagliata”, ma era ben argomentato e davvero ben scritto.



Passarono alcuni anni, e tanta acqua sotto i ponti. “Il mio guscio fascista si era incrinato e poi rotto”, spiega De Mauro: “Nel 1951, sedotti da Marco Pannella, Gabriele Giannantoni e io c’eravamo frettolosamente iscritti al Partito liberale per sostenere la sinistra liberale vicina a quelli del Mondo…”. Poi, la sua militanza nella laica Unione Goliardica che si contrapponeva ai neofascisti del Fuan, l’organizzazione universitaria missina: “Fu in quel contesto – leggiamo – che incontrai di nuovo, dopo anni, Mario Gionfrida. Di nuovo tuttavia simpatizzammo, e ironizzammo sul fatto che ci eravamo mossi in direzioni opposte senza però incontrarci, ma per ritrovarci di nuovo su fronti avversi”. E lì Gionfrida – noto anche col soprannome de “il Gatto” – si lasciò andare a due confidenze: “La prima, di cui gli fui grato era – ricorda De Mauro – che quando si organizzava qualche squadra per una spedizione punitiva contro qualcuno di noi laici di sinistra, se veniva fatto il mio nome, lui interveniva per dirottare altrove l’impresa. E la seconda era che faceva questo perché si sentiva in debito con me”. Perché? “Mi spiegò Mario – conclude la sua confessione il linguista – che ero stato io, col mio tema, a colpirlo, a commuoverlo, a spingerlo sulla via della rivalutazione del fascismo e, quindi, dell’avvicinamento alle organizzazioni giovanili neofasciste…”. Gionfrida d’altronde si impegnerà a tempo pieno in politica, scalando il Msi a Roma, e avendo un momento di notorietà quando, guidando con Vittorio Sbardella e altri, un corteo di giovani missini, arrivato presso la sede del Pci in via delle Botteghe Oscure si avvicinò alla libreria Rinascita per lanciare una bomba carta che, però, gli esplose mentre la teneva ancora in mano. La mano gli venne dilaniata senza possibilità di recupero e Gionfrida visse sempre con una protesi ricoperta da un guanto nero montato sul moncherino. Fu fino al 1993, consigliere comunale a Roma, e nel partito era vicino alla componente di Pino Ronualdi. Di lui parla anche il suo coetaneo milanese Tomaso Staiti nel recente libro “on line” Il suicidio della destra. Non una schianto ma una lagna: “Erano anni di ragazze, osterie, libri mal capiti ma letti, famiglie preoccupate, spesso politicamente divise, come quella di Mario Gionfrida, ‘il Gatto’ il quale ci aveva rimesso un braccio nell’assalto con bomba carta a via Botteghe Oscure e la cui sorella era una decorata della Resistenza”. Una vera e complessa scelta di campo, insomma, quella che Gionfrida, forse, tenne segreta sino alla sua scomparsa nel 2001. E che oggi il “comunista” (?) Tullio De Mauro ricorda con affetto e nostalgia. Aiutandoci, tutti, a fare i conti (e a pacificarci) con l’eredità del Novecento.


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