Annalisa Terranova
E dunque è morto Teodoro Buontempo.
Una notizia per tutti inaspettata perché l’immagine di Teodoro è appunto, per tutti,
legata alla vitalità di quelli che non invecchiano male. Di quelli sempre in
gamba. E a pensarci ora stupisce il fatto che alla sua enorme popolarità, anche
tra gli avversari, non abbia corrisposto nell’ambiente di provenienza un ruolo
adeguato. Teodoro non era un colonnello (e meno male) pur essendosi guadagnato
sul campo il curriculum per poter aspirare a entrare nel gotha di quelli che avrebbero
distrutto la destra (una medaglia che per fortuna non è a lui ascrivibile).
Comincio allora con un ricordo
personale, non posso farne a meno, visto che mi torna in mente da quando mi
hanno detto che se ne stava andando. Era il 1979 e Teodoro, con Ruggero Bianchi
e con la moglie Marina portava avanti il sogno di Radio Alternativa. Io fui
cacciata dalla mia sezione, Colle Oppio, perché avevo osato vendere con altri
ragazzini la rivista Linea in via Frattina. A nulla servì dire che lo avevamo
fatto solo per procurarci i soldi della colla per i manifesti, a nulla servì
spiegare che Pino Rauti a malapena sapevamo chi fosse. La sezione, ci dissero,
era di fedeltà almirantiana. Fuori tutti. Così andai a bussare alla radio di
Teodoro. Gli raccontai tutto e poi con la disarmante sincerità che solo i
ragazzini sanno avere gli chiesi: “Non ho più la mia sezione, non so dove
andare, posso stare qui?”. Certo non potevo fare la speaker. Avevo 17 anni. Teodoro
non si perse d’animo e mi affidò l’archivio, dove io passai parecchi polverosi pomeriggi
ascoltando i conduttori che si alternavano ai microfoni a parlare di disagio
sociale, di nuove povertà, di ecologia, di politica femminile.
Ma Teodoro non era solo aneddotica
personale. E' stato, e più di altri, personaggio che ha fatto la storia, anche
a livello d’immaginario, del mondo neofascista o di destra o come lo volete
chiamare. Un pezzo di storia da studiare più di altri perché su Teodoro, da
Teodoro, non è possibile estrarre alcuna icona caricaturale, non è possibile
fare ironia, non è permesso parlare di destra rozza e incolta. Pure, è stato
attivista generoso. Consapevole tuttavia che il massacro generazionale era da
evitare. Pure, è stato un missino irriducibile. Pure, se ne è andato alla fine
con la Destra di Storace, formazione oscillante a mio giudizio tra nostalgia e
lepenismo. Però Teodoro aveva una cosa che lo rendeva in qualche modo speciale,
e cioè una sensibilità sincera per i problemi degli ultimi, la caratteristica
migliore di un’anima sociale che il Msi avrebbe a poco a poco soffocato e che
era destinata a scomparire del tutto nel calderone della destra berlusconiana.
Lo dimostra la preoccupazione con cui la sinistra accolse la notizia, nel 1997,
della sua candidatura a vicesindaco di Roma in coppia con quel bellimbusto inutile
di Pierluigi Borghini. Ho notizie dirette di quest’ansia: il Pds era
allarmatissimo perché, dicevano i dirigenti romani di quel partito, Buontempo è
il “fascio” che prende i voti nelle borgate, Buontempo è il “fascio” che ci
ricorda che la sinistra deve stare nelle periferie e non nei salotti. Si tentò
di disegnare su Teodoro l’immagine del razzista che non vuole i campi Rom. Ma
nei dibattiti se la cavava benissimo: era informato, non usava slogan, cercava
con pacatezza di spiegare che i campi di grandi dimensioni determinano le
condizioni per una guerra tra poveri che canalizza energie cattive sul
territorio. Non vibravano in quei suoi discorsi accenti di intolleranza ma di
umanità.
Teodoro amava il Movimento sociale e
solo lì si sentiva a suo agio. Quello è stato, secondo me, il suo unico e vero
partito. Era contrario allo scioglimento del Msi e alla fondazione di An. Al
congresso di Fiuggi, ma anche successivamente, ripeteva una tesi troppo presto
dimenticata: nel 1993 l’exploit del Msi alle comunali (a Roma con Fini e a
Napoli con Alessandra Mussolini) era dovuto al fatto che la destra era apparsa
durante la prima Repubblica come forza antisistema e antipartitocratica. Non c’era
bisogno di diventare qualcosa di diverso, diceva. Non c’entrava nulla lo
sdoganamento di Berlusconi, diceva. Anche per quella sua convinzione, il suo
ricordo mi è caro. Alla fine si piegò come tutti al diktat del vertice. An
nacque senza la possibilità dell’esistenza di una corrente di opposizione
interna. Una scelta di Gianfranco Fini ma garantita anche da quelli che poi
avrebbero con lui governato il partito, i colonnelli sopra citati, garanti di
un patto che avrebbe condotto An all’inerzia, alla pigrizia più impolitica e
infine all’abbraccio con il Cavaliere.
Teodoro concepiva i partiti alla
vecchia maniera: c’era la base, c’era la classe dirigente, c’era la formazione,
c’erano le iniziative parallele. Negli anni Settanta segretario romano del Fronte, si oppose alle inutili e distruttive derive estremiste. Non approvava la cooptazione dei portaborse e
neanche il silenzio compiacente verso il leader. Questa la sua lezione più
importante. Non libri, non discorsi memorabili (ne ho ascoltati così tanti, ne
abbiamo ascoltati così tanti), ma presenza, presenza assidua, presenza
costante. E generosa. E coraggiosa. E quel suo essere uomo libero, cui infatti va il rispetto degli avversari oltre i luoghi comuni. E quel suo essere destra vera ma presentabilissima (mentre oggi in giro di presentabili ce ne sono davvero pochi, e se ne vantano pure). Ora l’auspicio è che il suo mondo ricambi
degnamente l’impegno di Teodoro, che anziché farne un’icona da commemorare si
approfondiscano le tante cose che Teodoro è stato, tra cui l'appoggio alla moglie Marina che organizzò i gruppi femminili delle Api (storia che quasi nessuno ricorda più) di modo che se non può più
accogliere ragazzini sbandati nella “sua” radio possa per loro rappresentare quella
scuola di politica che né il web né l’ambizione né il carrierismo possono
sostituire.
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