venerdì 26 aprile 2013

“Il grande freddo”, quel film di trent’anni fa che fu subito una metafora

Marco Iacona

In parte ha ragione lui, Jeff Goldblum. Cioè Michael, il giornalista. Uno degli otto protagonisti del film Il grande freddo, pellicola culto uscita giusto trent’anni fa e il cui titolo divenne una metafora degli interi anni Ottanta. Tutto finisce col sesso, dice a un certo punto Michael, pratico fino al cinismo. Chiave di lettura originale, ma non molto dibattuta, di scuola freudiana e in linea con quanto si pensava nei bei dì passati. Cioè negli anni Sessanta, quando il sesso più o meno libero era una delle più alte forme di libertà. Di vera libertà. Questo film, bello non agli eccessi, è però un labirinto. Sette ex giovani di cultura sessantottina si rincontrano dopo un po’ di tempo – giusto lo spazio di una generazione – per ritrovarsi uguali ma profondamente diversi. Alex protagonista occulto si è tagliato le vene, nessuno sa perché, neppure la sua amante Sarah (Glenn Close) lo sa, neppure la giovane compagna Chloe, vuota in apparenza, sa dare risposte precise. Cominciamo da qui: la morte di Alex è la sconfitta di quegli ideali nei quali credevano i giovani. Sconfitta senza ragioni apparenti, orfana di quei nemici sui quali addossare ogni responsabilità: Il grande freddo non è un film politico e come tutti i lavori che bypassano i temi politici alla fine lo diventa più degli altri.


Eppure quando gli ex compagni d’università si ritrovano, a nessuno viene voglia di metter su un processo: non c’è spazio né tempo né voglia. Il privato si è preso le sue rivincite: anche le piccole ferite sanguinano, eccome. Harold (Kevin Kline) e Sarah formano una coppia quasi perfetta. Ma lei ha i sensi di colpa per averlo tradito e lo spinge tra le braccia di Karen, avvocato ma soprattutto donna insoddisfatta alla ricerca di un volontario che le faccia avere un figlio. La terza donna del gruppo è Meg con un matrimonio alla frutta, che ritroverà due spasimanti Sam (Tom Berenger) e Nick (William Hurt). Due tipi poco normali. Il primo è un attore di successo, una specie di 007 americano, che non sa quel che vuole e che alla fine cederà alle avances di Meg; il secondo è un depresso cocainomane, reduce dal Vietnam, che ha fatto lo psicologo radiofonico e che deciderà di restare con la compagna del defunto. La cornice è shakespeariana, la tela apparentemente crepuscolare. Insoddisfazioni, abitudini, lavoro, danaro, sentimenti repressi e sesso. Dialoghi serrati ma senza un filo conduttore. È il banale quotidiano di un pugno di ex sognatori, passati dalla parentesi ribelle a un trantran (un po’ orgoglioso) medio/borghese che non transita per il giardino dell’assurdo. Passaggio tipico, quasi obbligatorio (quasi), per gli irriducibili in disarmo.
Lawrence Kasdan regista e sceneggiatore (Il ritorno dello Jedi e Guardia del corpo), poco più che trentenne, coglie l’attimo nel quale sogni, amarezze, speranze e delusioni si combinano tra loro, lasciando spazio a qualsiasi soluzione. È questo il vero labirinto del film. Non le relazioni tra i personaggi – attori tutti bravi e lì lì per iniziare una carriera ricca di successi, compreso Kevin Costner che interpreta Alex anche se non si vede mai – ma la realtà che si muove alle loro spalle. Il cambiamento: quel “grande freddo” che si suppone sia il contesto nel quale gli otto si muovono con tatto e paura. 
Tre esempi, come minuscole chiavi di lettura. Harold, padrone di casa della villa che ospita i protagonisti. Harold, amico del poliziotto che insegue Nick. Harold, che considera le forze dell’ordine degli angeli custodi a difesa della proprietà privata. Michael, disincantato giornalista che rileggendo un vecchio articolo, da narciso e carrierista commenta a voce alta lo stile e l’incisività. Sam, attore certamente sopravvalutato che per imitare la scena di un vecchio telefilm si ferisce al braccio. Ecco: tre esempi di un mondo, quello degli Ottanta, popolato da antieroi. Da personaggi che quindici anni prima avrebbero visto il loro futuro popolato da eroi. Cioè da loro stessi. Il film però è originale, perché non indugia nella facile lamentela né nell’analisi della sconfitta e dei torti di una generazione. L’elemento che permette di equilibrare il sistema è uno e soltanto uno: l’amicizia. Il grande freddo è prima di tutto un film sull’amicizia. Sul peso e sul ruolo insostituibile dell’amicizia. Di quel legame impossibile da spezzare – che coinvolge i protagonisti, e che al di là degli episodi unisce il presente al futuro. L’amicizia è quel calore capace di bilanciare il grande freddo che viene dall’esterno. È l’amicizia a recare conforto ai deboli.
I protagonisti sono inconcludenti, insoddisfatti, disadattati, depressi, insicuri. Alcuni così diversi da essere incompatibili con gli altri. La generazione del grande rifiuto non ha dato quel che prometteva. La generazione Woodstock, quella che immaginava che visioni e stili di vita fossero materia di una stessa forma, quella che pensò di essere figlia di un’arte che ribaltava certezze secolari (e nel film di musica anni Sessanta ne abbiamo a sufficienza: da Marvin Gaye ai Procol Harum con l’indimenticabile e nostalgica A Whiter Shade of Pale, la Senza luce dei nostri Dik Dik), quella che sognò a occhi aperti più di qualunque altra generazione, si ritrova adesso attorno a un tavolo, nel salotto di una villa americana con una sola certezza. Il valore degli affetti. Ma è una lezione senza tempo: l’amicizia è un potente farmaco contro le sconfitte, le frustrazioni e i fallimenti. Non vince la morte, ma educa ad accettarla. La morte di un amico, la morte di un sogno. La morte di un’avventura che si pensava eterna. Buon compleanno “Grande freddo”: trent’anni ma non dimostrarli affatto.




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