Annalisa Terranova
Tra le conseguenze delle larghe
intese ce n’è una che non va sottovalutata: la fine del mito della “base” a
sinistra e la marginalizzazione della “folla” o della “piazza” come soggetto
politico. Ora, se in un paese le cose vanno molto male, il fatto che i
principali partiti si mettano d’accordo non è necessariamente una sciagura. Si
tratta anzi di una soluzione ragionevole anche se si pagheranno alcuni prezzi
politici: la sinistra dovrà rinunciare ad alcuni cavalli di battaglia dell’antiberlusconismo
(conflitto di interessi e norme severe contro la corruzione) e la destra dovrà
frenare su tutte quelle riforme che storicamente infastidiscono i progressisti
e i sindacati (la Costituzione non si tocca e le norme sul lavoro nemmeno). La
fase che si è aperta però sul piano puramente politico comporterà anche ciò che
si diceva all’inizio: basta con gli indignati, con quelli che gridano sempre
no, sana diffidenza contro la folla, recupero di credibilità delle classi
dirigenti a scapito di quella che un tempo si chiamava, appunto, la “base”. I
capi, anche se non legittimati dalle primarie, ricominceranno a decidere. I
partiti, anche se sui social network
soffia il venticello della protesta, si riprenderanno il loro spazio, la
rottamazione diventerà un concetto cui dà risposte l’anagrafe e non una vera
selezione degli eletti. La “casta” respinge così ogni delegittimazione e non
perché intenda perpetuare i propri privilegi ma perché torna ad occupare lo
spazio della politica ricacciando nell’angolo del tumulto inconcludente lo
strillonaggio popolare che tanta fortuna ha portato finora al Movimento dei
grillini.
Alcuni articoli degni di riflessione
negli ultimi giorni hanno mostrato che la rotta che si vorrebbe seguire è
proprio questa. Uno lo ha scritto Ritanna Armeni, giornalista vicina a
personaggi come Vendola e Bertinotti, e il titolo già dice tutto: “Quella base
brutta gente”. Non le è andato giù quello che lei chiama “assalto” a Dario
Franceschini. Oggi – scrive Armeni – la base “appare grillinizzata, come
qualche mese fa appariva dipietrizzata, vogliosa di galera, sconvolta,
imbarbarita, livorosa”. Armeni denuncia un cambiamento antropologico della base
della sinistra che non si sente di assecondare. Opporre Rodotà a Napolitano,
afferma, dimostra scarsa preparazione. Una tigna ingiustificabile e
ingiustificata. L’altro articolo è di Pietrangelo Buttafuoco ed è ancora più
impietoso contro la folla, che “è femmina e cerca il bastone”. Non si va lontano,
scrive Buttafuoco, con l’arroganza della plebe. E pare qui di intravedere
quella sfiducia abissale nelle masse che famosi pensatori di destra, da Evola a
Spengler, hanno predicato mettendo in guardia contro l’elemento demoniaco e
irrazionale delle moltitudini in movimento.
Ora tutti sappiamo però che i partiti
senza una “base” sono solo apparati e agglomerati di interesse. E quando la
base contesta i vertici non necessariamente è un brutto segnale: di cos’altro
vivono i partiti se non della dialettica tra i militanti e i capi? La base è
quella cui si chiede l’adesione fideistica in campagna elettorale e che poi si
ripudia quando viene il momento delle decisioni importanti. Allora non ci si
lamenti del disimpegno, del voto di scambio, del prosperare delle clientele a
svantaggio dei militanti, della supremazia del carrierismo, dei riciclati e
degli sgomitoni che non hanno alcuna storia alle spalle. La base sarà anche
brutta, ma serve o dovrebbe servire come antidoto alle degenerazioni che tutti
i partiti stanno vivendo.
E veniamo alla folla. La plebaglia
urlante è una azzeccata metafora ma poco c’entra con le manifestazioni di
protesta, cui prendono parte ormai persone alfabetizzate, informate, che
leggono e si appassionano di politica. Non c’è il demos che assalta la
Bastiglia. Non ci sono le orde di sbandati carichi di odio che vogliono mettere
la testa di Napolitano sulla picca e issarla come trofeo davanti al Quirinale.
Non è il caso di dare l’impressione che la democrazia sia riconducibile alla
ferrea e crudele legge dei numeri. La maggioranza ha ragione e la minoranza ha
torto. Guai se fosse così. E’ più civile, più consolatoria, più moderna la
teoria di Tocqueville secondo cui la democrazia è riuscire ad abbassare il
proprio punto di vista alla pari con quello degli altri. La democrazia è anche
condivisione, non si fa solo con l’addizione e non si legittima solo con la
quantità. E poi, un paese dove nessuno più sente il bisogno di manifestare, che
paese sarebbe? Non si può chiedere a tutti, proprio a tutti, di accontentarsi di una politica dove la partecipazione si
riduce a mettere una croce su un simbolo di partito. Facciamo in modo che al
bipolarismo muscolare che è stata la cifra italiana per tanto tempo non si
sostituisca un’altra assurda dicotomia, quella tra la folla malpensante e i
benpensanti rassegnati. Tra la plebe urlante e la nostalgia di Bava Beccaris
dovrà pur esserci una via di mezzo.
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