Gennaro Malgieri
La crisi economica ci ha costretti a fare i conti con ciò che è
essenziale e con ciò che non lo è. È pur vero che alcune rinunce sono state, e
sempre più lo saranno, dolorose in termini di appagamento individuale e di
gratificazione collettiva. Ma pensarci come fruitori e non più soltanto come
consumatori, non è detto che sia un male. Beninteso, nessuno è talmente folle
da scambiare la sobrietà con la povertà: chi intende muoversi su questa strada
si esercita in una ignobile demagogia i cui effetti non è difficile individuare
in una depressione generale con l’inevitabile conseguenza di far regredire la
società a uno stadio quasi barbaro. È possibile muoversi, però, in tempi di
magra lungo il percorso dell’austerità dei costumi e dei consumi, dello stile
di vita insomma, dopo aver a lungo indugiato attorno a un narcisistico
compiacimento di noi stessi nutrito dalla certezza di poter contare su
inesauribili risorse, fosse pure a scapito dell’ambiente e dei rapporti umani.
Sono quasi tutti concordi – economisti, sociologi, studiosi dei
mutamenti sociali e individuali, osservatori delle tendenze – che il consumismo
e gli effetti a esso legati siano da considerarsi relegati in un’epoca che
difficilmente rivivrà. Aggiungono che è bene attrezzarsi psicologicamente,
soprattutto, ai tempi nuovi se non si vuole restare prigionieri di un passato
che, a dirla con un minimo di onestà intellettuale, è stato attraversato più da
ombre che da luci. E, forse, proprio per questo siamo finiti così male.
Mi ha colpito un dato nelle analisi sugli effetti della crisi:
quello alimentare. Dal 2007 fino al 2011, quando la crisi si è fatta più acuta,
il 13% del cibo che finiva nel carrello della spesa e intasava il frigorifero
veniva puntualmente gettato nel secchio dell’immondizia. La percentuale poi si
è ridotta al 4%. Effetto della necessaria autoregolamentazione? Non vedo altra
spiegazione. E lo stesso dicasi per ciò che concerne l’abbigliamento, i gadget
elettronici, i prodotti di bellezza e via seguitando. La materialità, insomma,
ha subito una contrazione le cui conseguenze sul piano della resistenza delle
abitudini va ovviamente accertato con il passare del tempo. Infatti, è giusto
porsi domande “cruciali” al riguardo.
Può, per esempio, non essere un bene in termini macroeconomici
soprattutto per le ricadute sull’occupazione. Ma questo problema potrebbe
essere affrontato e magari risolto immaginando l’avviamento a mestieri desueti
per giovani che attendono un primo impiego, per esempio nell’agricoltura, nella
cura del paesaggio,nell’incentivazione dell’artigianato che in Italia è
praticamente morto. Sicuramente non è un male se l’eccesso di materialismo
pratico, rappresentato dal consumismo compulsivo, ci mette davanti al nostro
destino di sperperatori di risorse e di avidi distruttori della natura e della
nostra stessa anima in rapporto con la bellezza, la cultura, la riflessione sul
tempo, la caducità di ciò che come surrogato dovrebbe riempire le nostre
esistenze non avendo altro a cui rivolgerci se non alla devastante abbondanza
del superfluo tanto per immergerci in qualcosa che dia un senso
all’attraversamento della nostra vita.
Indipendentemente dalle considerazioni che pur sarebbero (e sono)
legittime sul divario insanabile tra aree del Pianeta ricchissime e altre
(assai più vaste) poverissime, immagino che sia venuto il tempo di regolare i
conti con noi stessi riscoprendo il piacere di vivere senza strafare e di non
morire ricoperti delle inutilità agghiaccianti di cui sono ricolmi i nostri
armadi e le nostre case le quali, lungi dall’essere oggettivamente belle e
confortevoli, sono perlopiù magazzini in cui ammassiamo di tutto soltanto
perché sollecitati da un impulso insano al possesso.
La riscoperta del piacere delle piccole cose, delle cose cioè che
danno gioia autentica, è perfino possibile che contribuisca a riconnetterci a
una visione austera, ma non per questo grigia o mortifera, dell’esistenza.
Consapevole di far parte di una minoranza e di attirarmi le critiche degli
“sviluppisti”, ritengo che la cultura del condizionamento abbia devastato
individui, famiglie e comunità. L’invidia sociale, ampiamente analizzata anche
dai morfologi della storia del secolo scorso, ha il suo fondamento nella
corruzione del sentimento di solidarietà che è stato a fondamento della civiltà
occidentale almeno fino all’avvento della rivoluzione industriale. Da questa
sono scaturite le guerricciole che, assumendo dimensioni imponenti, hanno
legittimato teorie come quelle formulate da Marx e dai suoi epigoni. Ma questo
è un altro discorso.
Ciò che mi preme sottolineare nelle circostanze attuali è lo
smarrimento di fronte alle oscene cattedrali del consumo dove si trova di tutto
e si scopre, tornando a casa, che si è acquistato l’irrilevante, l’inutile,
l’inessenziale. La gioia di poter finalmente scegliere, limitandosi a
incursioni dove si sa che cosa trovare, e non essere scelti dall’ammiccante
offerta, dovrebbe rendere il consumatore nuovamente arbitro di se stesso,
responsabile dei suoi gusti e delle sue tendenze, protagonista di un mercato che
nessuno dovrebbe condizionare e soprattutto invogliarlo a preferire la qualità
piuttosto che la quantità. Tutti abbiamo provato a girovagare nei freddi
ipermercati dove dagli scaffali vengono sollecitazioni che muovono la mano
dell’acquirente quasi mai cosciente del gesto compiuto. Che cosa si porta via
se non un’illusione di abbondanza il più delle volte non necessaria?
Non vorrei si confondesse la recessione con l’austerità,
naturalmente. La prima, incide non soltanto sui consumi superflui, ma soprattutto
sulla vita pubblica di ciascuno di noi e sulla mercede di cui abbiamo bisogno
oltre che sui servizi essenziali e irrinunciabili. La seconda è uno stile di
vita che, per quanto sollecitata dalle contingenze, non soltanto non fa male,
ma produce una piccola rivoluzione interiore che se coincide con la decrescita
delle illusioni consumistiche non credo sia un male. L’austerità, in altri
termini, se correttamente intesa, dovrebbe farci riscoprire la semplicità delle
piccole cose ed immetterci in una dimensione più naturale e comunitaria, nella
quale perfino la lentezza diventa un valore mentre finora è stata vista come un
handicap. E, soprattutto, lo spreco delle risorse spirituali dovrebbe essere
limitato a vantaggio di una maggiore consapevolezza di se stessi nell’ambito di
un universo complesso che è stato maledettamente ingiusto e crudele ridurre a
una semplice “cosa” dalla suggere il massimo del piacere effimero, cedendo alle
lusinghe delle agenzie di consumo e alle culture della materialità e del relativismo
per le quali il massimo delle passioni a cui votarsi dovrebbe essere
l’accaparramento dei beni.
Dalla “produzione” di avidità a quella di prodigalità e di
frugalità il passo è indubbiamente molto lungo. Ma non è detto che non lo si
possa fare. Se non si è capito, dalla crisi si esce abbracciando una
rivoluzione sottile destinata a durare e a cambiare il nostro modo di vita che
nessuno può immaginare peggiore di quello che abbiamo conosciuto, venerato,
santificato negli ultimi trent’anni.
Il solo fatto di riappropriarci del nostro destino è un fattore di
crescita. La sola crescita alla quale dovremmo essere sensibili.
Nessun commento:
Posta un commento