lunedì 22 aprile 2013

Mino Milani, il Pratt della scrittura: l'avventura come vocazione




Alberto Pezzini
Ha da non molto superato gli ottantacinque anni d’età e in libreria è apparso il libro a fumetti Capitan Cormorant e altre storie (edizioni Rizzoli Lizard), firmato da Hugo Pratt per i disegni e da lui e Alberto Ongaro per i testi e le sceneggiature. Si tratta del ritorno di un classico del fumetto a cinquant’anni dalla pubblicazione a puntate sul Corriere dei Piccoli: dopo Sandokan  e L'isola del tesoro, un nuovo omaggio, non solo al genio del creatore di Corto Maltese, Hugo Pratt, e al genere da lui prediletto, l’avventura, ma anche al nostro Mino Milani, uno scrittore per il quale l’avventura ha a sua volta coinciso col suo specifico angolo visuale dell’intera storia umana.
Guglielmo Milani, detto Mino, conosciuto anche con gli pseudonimi di Stelio Martelli, Eugenio Ventura e Piero Selva, nasce a Pavia il 3 febbraio del 1928, di segno zodiacale Acquario, si laurea in Lettere nel 1950 e comincia a scrivere per il Corriere dei Piccoli. Quando si butta nel mondo dei giornali è un giovane sconosciuto. Gli brucia addosso una voglia terribile di scrivere storie, e avventure. Fa una scorta di prammatica dei rifiuti delle case editrici. In cima ci tiene a ricordare quello della Rizzoli: una lettera che apre con le mani un po’ tremolanti, piena di insulti (!). Soltanto nel 1990 ne parla con Edmondo Araldi, direttore della narrativa italiana Rizzoli, e gli racconta di quelle parole che lo avevano fatto piangere di rabbia. Gli avevano detto che la Rizzoli era una casa editrice con la C maiuscola e di smetterla di scrivere. Milani conclude dicendo che gli fece più bene che male. Ma sarebbe stato un insulto per tutti noi se non avesse più scritto. Ci saremmo persi Tommy River, un cow-boy malinconico e riflessivo, un personaggio alla Clint Eastwood, oppure Efrem, contadino che diventa cavaliere sotto Giovanni Acuto, oppure Sir Crispino, un inglese nobile con l’avventura  nelle vene.


Come si legge nell’introduzione che gli scrisse Gianni Rodari a Efrem, Soldato di ventura (Mursia), i suoi finali non sono mai ottimistici, ma problematici. “Dopo la parola fine il lettore non può sentirsi del tutto tranquillizzato…Un problema si risolve solo per far posto a un nuovo problema”. Questo è il motivo per cui i ragazzi si innamorarono delle storie d’avventura di Milani. Era il fatto che non usava pastelli per le sue storie, non adoperava silenziatori linguistici per una narrativa da ragazzi. Li trattava alla pari, senza fronzoli e se li faceva amici con un tono sempre asciutto, molto teso, senza inganni. Leggere Efrem – oggi – significa per un ragazzo riuscire ancora una volta a percepire cosa è veramente una storia. Milani riesce a fare in modo che la realtà – fuori dal libro – scompaia. Non si ha bisogno di iPod, di televisioni, o di Sky quando si legge un suo romanzo d’avventura e di vita spiattellata nella sua versione più disincantata. Questo perché – e anche qui Gianni Rodari ci aveva reso lungo grazie a quella sensibilità percettiva di cui era dotato come un mago di Oz – Milani si forma dentro una realtà narrativa già in presa diretta con la televisione, la radio ed il cinema. Sapeva già che – se avesse voluto lasciare un’eredità alla parola scritta  – avrebbe dovuto corazzarla contro la forza visiva delle immagini. Ecco perché Milani è un creatore di immagini con le parole. E’ un maledetto vasaio che impasta storie alle quali ci si abbandona come dentro un labirinto senza  pietà.Del resto, la sua stessa vita è emblematica e malinconica, in qualche modo. Due sono i libri che la raccontano oggi, quasi una sorta di liberazione. Il primo è L’autore si racconta (Franco Angeli, pagg. 104, euro 14,00) e l’altro è Piccolo destino (Mursia, pagg. 182, euro 14,00). Con Mursia, con Ugo Mursia, Milani ebbe un rapporto amicale molto profondo, in cui ci si beccava anche da lasciarsi addosso i segni, perché si era diversi. Ma che bei tempi, però. Mursia gli pubblicò tutto il ciclo di Tommy River, quel cow – boy così problematico, così pallido dentro un West selvaggio e arido come soltanto saprà essere quello di Tex Willer. Fu un’intuizione esplosa una sera, con la febbre addosso, dentro un cinema di città, quando la voglia di andare a casa proprio non riesci a fartela montare nelle gambe.Mino s’era i ritrovato a guardare Ombre rosse, a restare annichilito dentro il buio e a guardarsi quella pellicola, anzi a bruciarla con gli occhi per due volte. Di lì nacque Tommy River, da un film storico, dalla febbre, dalla capacità di emozionarsi di Mino Milani. La sua cifra è infatti questa, il suo segreto più vittorioso: la capacità di trovare le emozioni, prima per sé, e poi per gli altri. Il segreto dei bambini, delle puttane, e dei marinai che guardano il mare.



D’altro canto Milani è sincerissimo in questo. Ci lascia la pagina sullo scrivere più diretta  che uno scrittore possa dare: “Cerco di capire se scrivano (gli aspiranti scrittori che gli si presentano, NdR) per loro intima necessità, ma non lo chiedo più, da quando uno di loro mi rispose: ‘Sì, perché sono andato in pensione e devo pur fare qualcosa, no? C’è molta fretta, spesso poca voglia di faticare e di attendere. Quasi nessuna accettazione di una critica negativa. Nella maggior parte dei casi, una mancanza di talento, irrimediabile come la persuasione d’esserne dotati. Il libro a tutti i costi, il libro come vittoria. Quanta amarezza a venire… Ci sono però anche veri e bravissimi scrittori in nuce;  ne ho conosciuti e…  mi glorio d’averli spinti a tener duro a lavorare a non badare ai rifiuti…Mi è molto bello”. In queste frasi c’è tutto Milani. Non un maestro bacchettone, o arcigno come alcune vicende della sua vita potrebbero far presagire sotto pelle. Milani vive le vicissitudini della vita in un pensiero sempre alla ricerca di una chiave:tenta di  capire la vita nella sua forza d’impatto, non cerca il destino per i suoi sotterranei più oscuri, ma cerca di accettarlo, si lascia condurre da lui. Armato, però. Non si fa mai trovare senza almeno un colpo in canna da sparare.
Nel 1986, il 30 luglio, Milani si pose una pistola al cuore e quella sparò. Questa è la parentesi scura della sua vita. Non aveva più voglia, o forse gli premeva addosso quel “male oscuro” di cui Giuseppe Berto ha offerto un ritratto tanto vero quanto senza punteggiatura. La depressione e la malinconia hanno bisogno di punti e virgola ? La pallottola non lo uccise e venne deviata quasi per un miracolo, o per il destino. Milani si trovò dentro la morte e ne uscì poi dopo. Quanto avrà pesato su quella decisione – sarà stata una decisione poi – la letteratura, è da vedere. In questo caso non va dimenticato quale uomo di letture sia Mino, e del fatto che la sua laurea fu in storia, e che anch’egli fu bibliotecario. Quanto peso ebbe sulla sua mente Martin Eden di Jack London ce lo dice Milani, direttamente. Il più grande romanzo sul suicidio, scritto da chi conobbe da vicino la gloria letteraria alla massima espressione, la dice lunga. E’ lo stesso spleen che forse ci rivela Tullio Pironti nell’ultimo suoi libro Il Paradiso al primo piano dove in fondo ci dice che ci vuole una vita per capire che – vincere o perdere – non significa niente. E’ quel senso di dismissione dalla vita ad assalire Mino quando la vita si fa più sotto e le avventure magari non gli parlano più come un tempo ? Non sappiamo.
Di certo è che Milani vive ancora oggi in una maniera vitale come gabbiano di mare nelle menti e nei cuori di tutti coloro ai quali i suoi libri arrivano. Rodari ha scritto che Milani non aveva preso in giro i ragazzi e – per questo – lo amarono. Non gli aveva ammannito una letteratura fatta di dolcezze. In Efrem, soldato di ventura, esistono passaggi capaci di far indugiare anche il cuore più inesorabile su alcune verità indicibili e che si ha difficoltà a confessarci. Efrem dice che gli animali – quando muoiono – si nascondono per farlo. E’ una frase molto semplice con un potere detonante terribile. Sono parole antiche, fatte di timori arcani, e vere di una realtà che sappiamo esistere in qualche modo. Oscura, ma presente. Milani ha saputo rendere le proprie storie partecipi di un destino che è quello dell’uomo. Ma quello di un uomo che sa dire di no e per questo riesce a farsi condurre da un destino pietoso, alla fine, anche se inflessibile. A costo della vita, a costo di farsi scuoiare. Efrem è un soldato di ventura, ma è stato un contadino, che diventa consapevole della sua ignoranza, e per questo impara a leggere e scrivere. Sa che non potrà più tornare indietro, e perde anche la memoria dei suoi genitori per poter andare avanti. Piange alla prima battaglia, perché un vero soldato e cavaliere non potrà più farlo. Sa che essere soldato di ventura significa vendere la propria spada per uccidere. Conserva un cuore cosciente, però, ed è quello che lo salva dagli altri, da quei soldati induriti che lui non diventerà MAI! Sa dire di no, quando vogliono fargli uccidere una donna anziana ed un ragazzo, a costo di farsi uccidere. E’ quel no! così imperativo e determinato, senza neanche un punto esclamativo, l’arma più forte di Efrem, la spada più pericolosa che Milani fa brandire al suo contadino nato per la guerra, un no che fa intuire l’esistenza – sopra tutto – di un “anima”.

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