Giovanni
Tarantino
C’erano
una volta le utopie, o forse, dopo tutto, ci sono ancora oggi. «C’è un mondo
reale che diventa favola», diceva Nietzsche. Spesso l’utopia coincide con
un’idea di polis, di città. Utopia,
per Tommaso Moro, era d’altronde una città. Tommaso Campanella, nel 1602,
immaginò La città del Sole: «Sorge
nell’alta campagna un colle, sopra il quale sta la maggior parte della città;
ma arrivano i suoi giri molto spazio fuor delle radici del monte dentro vi sono
tutte l’arti, e l’inventori loro, e li diversi modi, come s’usano in diverse
regioni del mondo».
La
“città del sole” ha stimolato anche l’interesse di Ernst Jünger, nato a Heidelberg nel 1895, morto nel 1998, che ha attraversato un secolo, il
Novecento, tempo di ideologie e di utopie. Jünger è stato nichilista, poi
spiritualista libertario (dirigendo per anni con Mircea Eliade la rivista Antaios) ma è morto cattolico, a
seguito di una conversione profond maturata nel 1996, a 101 anni. Il
progressivo ripudio della tecnica e della globalizzazione, predominanti nella
società occidentale, porta Jünger ad assumere la posizione dell’“anarca, e del Waldganger,
che alla lettera sta per l’“uomo che si dà alla macchia”, impropriamente presentato
nelle traduzioni italiane come il “ribelle” («è il singolo, l’uomo concreto che
agisce nel caso concreto. Per sapere che cosa sia giusto, non gli servono
teorie, né leggi escogitate da qualche giurista di partito. Il ribelle attinge
alle fonti della moralità non ancora disperse nei canali delle istituzioni.
Qui, purché in lui sopravviva qualche purezza, tutto diventa semplice». In
Jünger il singolo libero è colui che passa al bosco, che migra e che almeno
metaforicamente si allontana consapevolmente e spiritualmente dalla tecnica e
dal potere. Eppure lungo tutto il suo corso e la sua vasta produzione
bibliografica, Jünger ha inventato
città, in una trilogia inauguratasi nel 1939 da Sulle scogliere di marmo, proseguita dieci anni dopo con Heliopolis, conclusasi nel 1977 con Eumeswil.
Se
perfino questo grande intellettuale e testimone del Novecento ha reso la città
un luogo immaginario, immateriale, dove la “città del sole” corrisponde a una
dimensione dell’anima, è stato invece l’italiano Adriano Olivetti che, partendo
da presupposti ontologicamente diversi, ha provato a dare struttura concreta e
reale a quella che ha definito “città dell’uomo”. Unico caso, tra quelli
menzionati, di utopia realizzabile.
Michele
Mornese, nel suo L’eresia politica di
Adriano Olivetti, ha spiegato: «A differenza della Repubblica di Platone, dell’Utopia
di Moro e della Città del Sole di
Campanella, l’utopia di Adriano Olivetti si è dimostrata, almeno parzialmente,
possibile. L’azienda Olivetti apportò contributi di modernità nel territorio,
nei limiti della propria potenza economica, dando vita ad un capitalismo
sociale, dal volto umano. Il concetto di utopia assume, alla luce di queste
realizzazioni, segno positivo di intervento concreto che può aiutare a
collocare nel giusto orizzonte culturale la sintesi di mondo materiale e mondo
spirituale tentata da Olivetti. Ovvero la convinzione che il primo celi in sé
forze latenti di autosuperamento, le quali ispirano un pensiero e un’etica
dell’azione definibili come “forza vitale”». Ivrea, la fabbrica a dimensione di
operaio, con biblioteche, con vetri a giorno, luogo ideale per lavorare e
vivere. Esempio tangibile di come dovrebbe agire un imprenditore illuminato,
quale Olivetti è stato.
Scrive
Laura Olivetti, figlia di Adriano, nella presentazione al volume Costruire la città dell’uomo. Adriano
Olivetti e l’urbanistica: «Sembrerebbe quasi che la parola utopista venga
adoperata per storicizzare la sua figura con una modalità che tende a rimuovere
e cancellare molto di quello che è stato fatto. È strano perché, tranne
rarissimi casi, quando viene spiegato perché fosse un utopista si elencano
automaticamente molte cose invece portate a termine e la parola utopia si
dissolve».
Scomparso
nel 1960, quando ne vengono rievocate le gesta in dibattiti, tavole rotonde,
c’è sempre un pizzico di rimpianto. Olivetti è stato magistralmente raccontato
in una storia a fumetti (edita da Becco Giallo) scritta da Marco Peroni (che è
originario di Ivrea proprio come Olivetti) e disegnata da Riccardo Cecchetti. Un secolo troppo presto è il sottotitolo
non casuale del libro: «Adriano credeva in una società di tipo nuovo, al di là
del capitalismo e del socialismo. Attorno alla sua Ivrea, “l’Atene degli anni
Cinquanta”, costruì il prototipo di un nuovo ordine, una comunità concreta in
cui industria e cultura, profitto e solidarietà, produzione e bellezza si
tenevano per mano». Basta poco per capire che fu un vero precursore, uno che
aveva anticipato di gran lunga i tempi. Che, forse, per i suoi di tempi era
troppo avanti: ai giovani del Movimento Comunità, da lui fondato nel 1948, che gli rimasero
attorno dopo le lacerazioni provocate dall’esito infruttuoso delle elezioni
politiche del 1958, egli diceva, senza rimpianti e senza crucci per le
sconfitte subite, che occorrevano ancora dieci anni di lavoro in “solitudine”.
Poi la Comunità avrebbe proseguito il lavoro con le proprie forze.
Questa
utopia andata comunque al potere è oggi raccontata, nuovamente, con grande
merito dalle Edizioni di Comunità: il marchio della casa editrice, fondata
dall’imprenditore nel ’46, è tornato a vivere. Grazie alla cura del direttore
editoriale Beniamino de’ Liguori Carino, tornano in libreria le più importanti
opere di Olivetti, non più disponibili da anni. Un modo concreto per
riscontrare l’attualità del pensiero olivettiano, a partire da Ai lavoratori, primo di cinque scritti
della collana Humana Civitas.
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