Annalisa Terranova
Il concetto di decrescita sta
subendo, in virtù dell’ostilità della vecchia politica nei confronti dei
grillini, una sorta di manipolazione lessicale: lo si guarda con sufficienza,
lo si deride, lo si indica come un rimedio che finirebbe con l’aggravare la
crisi globale e si conclude, con quell’ignoranza che caratterizza molti
politici ospiti fissi dei talk show, che la decrescita è contro il progresso.
La destra berlusconizzata non è ovviamente immune da queste tentazioni. E del
resto chi non ricorda i risolini che accoglievano già nei congressi del Msi i
discorsi di Pino Rauti quando parlava di deforestazione e di critica al
consumismo?
Il punto è questo: perché mai quella
destra che ha nel suo dna la critica al capitalismo e l’avversione al consumo
illimitato delle risorse e dei beni dovrebbe guardare con rimprovero a Serge
Latouche quando predica la decolonizzazione dell’immaginario e trova assurda la
tecno-idolatria postmoderna?
Sull’argomento esiste un bel saggio di Alain de
Benoist (Comunità e decrescita,
Arianna 2006) che addirittura ricollega i postulati teorici della decrescita
alla morale degli antichi, con citazioni da Seneca e da Cicerone. Ma la
questione non si esaurisce certo in una buona performance letteraria. De
Benoist cita anche l’economista Mauro Bonaiuti il quale parla di “differente
distribuzione delle preferenze” per trasformare i meccanismi di produzione e
rimettere in discussione il volume degli spostamenti di uomini e merci sul
pianeta. Convincente è poi la critica del Pil come unico e solo indicatore di
ricchezza, un indicatore che non tiene conto della qualità della vita e
dell’impoverimento risultante dall’esaurimento delle risorse naturali. La
decrescita ci rende infelici? Perché non domandarsi piuttosto se la crescita ci
rende benestanti: “Le società attuali – scrive de Benoist – non sono più
società dove le ricchezze acquisite al vertice finiscono con il ridiscendere
lungo la piramide sociale, ma società a clessidra, dove i poveri sono sempre
più poveri e i ricchi sempre più ricchi”.
Una comprensione più efficace del
dibattito sulla decrescita è possibile se questa tendenza viene interpretata
non come un modello economico ma come una differente mentalità, come una
diversa cultura, che implica consapevolezza del consumo, dello sfruttamento,
dell’ambiente, dell’equilibrio tra tempo libero e tempo lavorativo. Senza
entrare in questa logica, la decrescita può in effetti apparire solo la parola
d’ordine salottiera di una cerchia di intellettuali snob e antiprogressisti. Ma
attenzione: questo è proprio ciò che si vuol far credere per spacciare come
vera la teoria secondo cui gli antidecrescisti sono i soli dalla parte del
popolo mentre essi sono, come sempre, dalla parte del profitto. “Nell’attuale
stato delle cose – scrive de Benoist – l’imperativo della decrescita deve
essere in primo luogo una parola d’ordine di igiene mentale: l’ecologismo inizia
con l’ecologia della mente. Bisogna lottare contro la de simbolizzazione
dell’immaginario, che mira a sopprimere tutto ciò che potrebbe ostacolare il
desiderio e il consumo. Non si tratta di negare la relativa utilità del
mercato, né la funzione stimolante della ricerca del profitto, ma di uscire
mentalmente da un sistema di cui mercato e profitto sono gli unici fondamenti.
Si tratta di smettere di considerare la crescita come un fine in sé. Si tratta
di rimettere l’economico al suo posto e, con esso, lo scambio mercantile, il
lavoro salariato e la logica del profitto. Latouche dice, molto giustamente: Per concepire la società della decrescita
serena e accedervi bisogna letteralmente uscire dall’economia. Questo significa
rimettere il discussione il suo dominio sul resto della vita, in teoria e in
pratica, ma soprattutto nelle nostre teste”.
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