giovedì 4 aprile 2013

Perché in Italia l'unica rivoluzione l'ha fatta l'Adelphi





Luciano Lanna

Intanto, facciamo parlare i suoi ricordi: “Di quando Bobi Bazlen mi parlò per la prima volta di quella nuova casa editrice che sarebbe stata Adelphi posso dire il giorno e il luogo, perché era il mio ventunesimo compleanno, maggio 1962, nella villa di Ernst Bernhardt a Bracciano. E Bazlen accennò subito all’edizione critica di Nietzsche e alla futura collana dei Classici”. A scriverlo è Roberto Calasso, l’uomo che dal 1971 diverrà il direttore editoriale della casa editrice, nel suo bel saggio L’impronta dell’editore (Adelphi, pp. 164, euro 12,00), un vero e proprio omaggio al marchio e al logo che hanno cambiato la faccia (e la geografia) delle librerie e delle biblioteche italiane. Se l’egemonia illuminista e neomarxista, che aveva imperato in Italia dall’immediato secondo dopoguerra sino a quel momento, era dovuta soprattutto all’entourage culturale che faceva riferimento alla torinese Einaudi, per una strana eterogenesi dei fini l’alternativa arrivava proprio da una costola della stessa casa editrice di Vittorini e Pavese. Luciano Foà, l’ideatore dell’Adelphi, lavorava infatti all’Einaudi a fianco del filosofo Giorgio Colli e del letterato Roberto “Bobi” Bazlen. E già allora, Foà aveva un progetto ambizioso: la pubblicazione integrale dell’opera di Nietzsche, riprendendo tutto il materiale  allora conservato nella Germania Est. Ma per quelli della Einaudi era un progetto impossibile, sulfureo, pericoloso. Una chiusura ideologica che è stata raccontata tra gli altri anche da Pierluigi Battista nel suo saggio Il partito degli intellettuali: “L’opportunità di pubblicare le opere complete di Nietzsche fu all’origine di una spaccatura dentro Einaudi e della nascita dell’Adelphi. Che l’edizione critica di Nietzsche a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, destinata a diventare, completa, testo di riferimento universale e canone consacrato della lettura nietzschiana in tutto il mondo non fosse riuscita a infrangere il veto di chi, come lo storico Delio Cantimori, aveva dichiarato di non sopportare l’idea che nello stesso scaffale si allineassero volumi di Nietzsche accanto a quelli di Gramsci e Salvemini, questa circostanza offre un ritratto eloquente del groviglio di timori e di tabù che dettavano ancora alla metà degli anni ’60 i comportamenti editoriale del ceto intellettuale italiano”.
E così, nel 1962, l’Adelphi nasceva come atto di ribellione contro la dittatura egemomica gramsciana, post-togliattiana e neoilluminista. E s’impone subito, dopo una conversazione tra Bazlen e Cristina Campo, l’idea dei “libri unici”, libri “che molto avevano rischiato di non diventare mai libri”. Già allora – spiegava Calasso, illustrando l’impianto di quella particolare casa editrice – balzava in primo piano “l’idea di far attenzione ai singoli libri, non al genere, alle mode o al mercato, che era poi l’idea di pubblicare libri unici, libri che durino nel tempo, ben tradotti, ben curati e stampati senza refusi, ognuno dei quali contribuisse a creare un catalogo stabile”. E nell’arco di un ventennio, lo si volesse o no, la Adelphi riuscirà a disegnare un vero e proprio nuovo paesaggio culturale e mentale. “In questo paesaggio – ha detto Calasso – sono essenziali Heidegger come Wittgenstein, Carl Schmitt come Herzen, René Guénon come Valéry, Gottfried Benn come Marina Cvetaeva, Cioran come Kraus…”. Un paesaggio mentale disegnato soprattutto con tanti autori decentrati ed eccentrici rispetto alle culture egemoni: da Céline a Juenger, da Konrad Lorenz a Joseph Roth, da Gurdjieff a Pirsig, da Langendorf a Dimitrijevic, da James Hillman a Geminello Alvi. Per non dimenticare René Daumal e Cristina Campo, J.R.R. Tolkien e Bruce Chatwin, Milan Kundera e Ceronetti, Franco Volpi e Antonio Gnoli, Cacciari e Knut Hamsun… 
“Già verso la metà degli anni Settanta – raccontava Laura Barbiani su Pagina in occasione del ventennale della casa editrice – giovani di ogni età, magari in apparenza lontani in quanto a interessi e formazione, andavano in libreria non solo per comperare un libro determinato, ma anche per guardare, tenere in mano e poi possedere un libro di quel particolare scaffale”. Che l’Adelphi – “l’editore più attento ai grandi scrittori difficili e rimossi del nostro tempo”, secondo Ugo Volli – viaggiasse da subito in una dimensione diversa rispetto all’editoria che si muoveva sull’asse Torino-Bari, cioè tra Einaudi e Laterza, era possibile del resto intuirlo dall’aspetto stesso di quei libri, dalla particolare veste grafica: copertine color pastello, in tinta unica, di cartoncino leggermente ruvido. Caratteristiche comuni sia alle collane maggiori che alla Piccola Biblioteca, la collana economica che ha senza dubbio contribuito a cambiare la cultura in Italia. E poi quel logo: così deliziosamente arcaicizzante e misterioso che sembra alludere a significati reconditi, con quelle due figure umane essenziali e quella base semicircolare che richiama più o meno velatamente a una sorta di confraternita spirituale sempre in viaggio, evocazione precisa di una dimensione culturale non illuminista e dal sapore arcano e sacrale. “Sospettavo – confesserà un giornalista di formazione laica e democratica come Antonio Carioti – che si trattasse di qualche misterioso simbolo runico. Il primo libro Adelphi che lessi era un volumetto smilzo, dalla copertina color rosso cupo: Gli otto peccati capitali della nostra civiltà di Konrad Lorenz. E ne avevano parlato certi compagni di scuola, i ‘fascisti’ del mio liceo, con i quali intrattenevo buoni rapporti personali, nonostante le baruffe ideologiche. Ero curioso di capire come un Nobel potesse essere rivendicato come ‘uno dei loro’…”. Diffidenze, equivoci, strumentalizzazioni e perplessità che aleggeranno per anni attorno alla Adelphi.
“E la politica? Come si inquadrava Adelphi?”, si domanda infatti Calasso nel suo nuovo libro. Per rispondere: “Non si inquadrava, semplicemente. Nulla di più tedioso e sfibrante delle dispute sull’egemonia culturale (o dittatura o regno illuminato) della Sinistra negli anni ’50 in Italia…”. E poi, aggiunge: “Gli antipatizzanti, non pochi, semplicemente non riuscivano a orientarsi. La stessa casa editrice che veniva accusata di essere di élite sarebbe stata accusata pochi anni dopo, sempre dalle stesse persone, di essere troppo commerciale”. Nel 1979 arrivò addirittura un articolo demonizzante su Controinformazione, rivista vicina alle Brigate Rosse: “La produzione Adelphi – si denunciava su quelle colonne – è colta, la sua proposta avvincente, la sua penetrazione sottile. Sconcerta la sua capacità di recupero totale che spazia in autori eccellenti, per profondità letteraria e filosofica, al cui fascino si piegano devotamente i rivoluzionari stessi…”.
Fatto sta che quella della Adelphi è stata, in realtà, l’unica rivoluzione (culturale e metapolitica) riuscita in Italia, arrivando a trasformare il paesaggio mentale e la sensibilità generale. In fondo è grazie a quei libri che siamo arrivati a uno scenario in cui Nietzsche sta al posto di Marx, Geminello Alvi al posto di Gramsci e Hillman al posto di Freud. Qualcosa di sostanzialmente più incisivo e percepibile di quei banali sommovimenti di ceto politico che qualcuno ha pure spacciato per cambiamento. Fenomeni, in realtà manifestatisi all’interno dello stesso identico piano culturale, dentro un orizzonte in cui economicismo, strumentalismo, orizzontalismo sono  il piano comune. Cosa significano infatti destra e sinistra rispetto a un ribaltamento totale, a un “non inquadramento”, dell’orizzonte mentale e culturale e all’apertura di nuove dimensioni e nuovi orizzonti? Ecco perché, lo ripetiamo, quella targata Adelphi ci sembra davvero l’unica rivoluzione culturale avvenuta in Italia.

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