Luciano Lanna
Intanto, facciamo parlare i
suoi ricordi: “Di quando Bobi Bazlen mi parlò per la prima volta di quella
nuova casa editrice che sarebbe stata Adelphi posso dire il giorno e il luogo,
perché era il mio ventunesimo compleanno, maggio 1962, nella villa di Ernst
Bernhardt a Bracciano. E Bazlen accennò subito all’edizione critica di
Nietzsche e alla futura collana dei Classici”. A scriverlo è Roberto Calasso,
l’uomo che dal 1971 diverrà il direttore editoriale della casa editrice, nel
suo bel saggio L’impronta dell’editore
(Adelphi, pp. 164, euro 12,00), un vero e proprio omaggio al marchio e al logo
che hanno cambiato la faccia (e la geografia) delle librerie e delle
biblioteche italiane. Se l’egemonia illuminista e neomarxista, che aveva
imperato in Italia dall’immediato secondo dopoguerra sino a quel momento, era dovuta
soprattutto all’entourage culturale
che faceva riferimento alla torinese Einaudi, per una strana eterogenesi dei
fini l’alternativa arrivava proprio da una costola della stessa casa editrice di
Vittorini e Pavese. Luciano Foà, l’ideatore dell’Adelphi, lavorava infatti
all’Einaudi a fianco del filosofo Giorgio Colli e del letterato Roberto “Bobi”
Bazlen. E già allora, Foà aveva un progetto ambizioso: la pubblicazione
integrale dell’opera di Nietzsche, riprendendo tutto il materiale allora conservato nella Germania Est. Ma per
quelli della Einaudi era un progetto impossibile, sulfureo, pericoloso. Una
chiusura ideologica che è stata raccontata tra gli altri anche da Pierluigi
Battista nel suo saggio Il partito degli
intellettuali: “L’opportunità di pubblicare le opere complete di Nietzsche
fu all’origine di una spaccatura dentro Einaudi e della nascita dell’Adelphi.
Che l’edizione critica di Nietzsche a cura di Giorgio Colli e Mazzino
Montinari, destinata a diventare, completa, testo di riferimento universale e
canone consacrato della lettura nietzschiana in tutto il mondo non fosse
riuscita a infrangere il veto di chi, come lo storico Delio Cantimori, aveva
dichiarato di non sopportare l’idea che nello stesso scaffale si allineassero
volumi di Nietzsche accanto a quelli di Gramsci e Salvemini, questa circostanza
offre un ritratto eloquente del groviglio di timori e di tabù che dettavano
ancora alla metà degli anni ’60 i comportamenti editoriale del ceto
intellettuale italiano”.
E così, nel 1962, l’Adelphi nasceva
come atto di ribellione contro la dittatura egemomica gramsciana,
post-togliattiana e neoilluminista. E s’impone subito, dopo una conversazione
tra Bazlen e Cristina Campo, l’idea dei “libri unici”, libri “che molto avevano
rischiato di non diventare mai libri”. Già allora – spiegava Calasso,
illustrando l’impianto di quella particolare casa editrice – balzava in primo
piano “l’idea di far attenzione ai singoli libri, non al genere, alle mode o al
mercato, che era poi l’idea di pubblicare libri unici, libri che durino nel
tempo, ben tradotti, ben curati e stampati senza refusi, ognuno dei quali
contribuisse a creare un catalogo stabile”. E nell’arco di un ventennio, lo si
volesse o no, la Adelphi riuscirà a disegnare un vero e proprio nuovo paesaggio
culturale e mentale. “In questo paesaggio – ha detto Calasso – sono essenziali
Heidegger come Wittgenstein, Carl Schmitt come Herzen, René Guénon come Valéry,
Gottfried Benn come Marina Cvetaeva, Cioran come Kraus…”. Un paesaggio mentale
disegnato soprattutto con tanti autori decentrati ed eccentrici rispetto alle
culture egemoni: da Céline a Juenger, da Konrad Lorenz a Joseph Roth, da
Gurdjieff a Pirsig, da Langendorf a Dimitrijevic, da James Hillman a Geminello
Alvi. Per non dimenticare René Daumal e Cristina Campo, J.R.R. Tolkien e Bruce Chatwin,
Milan Kundera e Ceronetti, Franco Volpi e Antonio Gnoli, Cacciari e Knut Hamsun…
“Già verso la metà degli
anni Settanta – raccontava Laura Barbiani su Pagina in occasione del ventennale della casa editrice – giovani di
ogni età, magari in apparenza lontani in quanto a interessi e formazione,
andavano in libreria non solo per comperare un libro determinato, ma anche per
guardare, tenere in mano e poi possedere un libro di quel particolare
scaffale”. Che l’Adelphi – “l’editore più attento ai grandi scrittori difficili
e rimossi del nostro tempo”, secondo Ugo Volli – viaggiasse da subito in una
dimensione diversa rispetto all’editoria che si muoveva sull’asse Torino-Bari,
cioè tra Einaudi e Laterza, era possibile del resto intuirlo dall’aspetto
stesso di quei libri, dalla particolare veste grafica: copertine color pastello, in
tinta unica, di cartoncino leggermente ruvido. Caratteristiche comuni sia alle
collane maggiori che alla Piccola Biblioteca, la collana economica che ha senza
dubbio contribuito a cambiare la cultura in Italia. E poi quel logo: così
deliziosamente arcaicizzante e misterioso che sembra alludere a significati
reconditi, con quelle due figure umane essenziali e quella base semicircolare
che richiama più o meno velatamente a una sorta di confraternita spirituale sempre in viaggio, evocazione precisa di una dimensione culturale non
illuminista e dal sapore arcano e sacrale. “Sospettavo – confesserà un
giornalista di formazione laica e democratica come Antonio Carioti – che si
trattasse di qualche misterioso simbolo runico. Il primo libro Adelphi che
lessi era un volumetto smilzo, dalla copertina color rosso cupo: Gli otto peccati capitali della nostra
civiltà di Konrad Lorenz. E ne avevano parlato certi compagni di scuola, i
‘fascisti’ del mio liceo, con i quali intrattenevo buoni rapporti personali,
nonostante le baruffe ideologiche. Ero curioso di capire come un Nobel potesse
essere rivendicato come ‘uno dei loro’…”. Diffidenze, equivoci,
strumentalizzazioni e perplessità che aleggeranno per anni attorno alla
Adelphi.
“E la politica? Come si
inquadrava Adelphi?”, si domanda infatti Calasso nel suo nuovo libro. Per rispondere: “Non
si inquadrava, semplicemente. Nulla di più tedioso e sfibrante delle dispute
sull’egemonia culturale (o dittatura o regno illuminato) della Sinistra negli
anni ’50 in Italia…”. E poi, aggiunge: “Gli antipatizzanti, non pochi,
semplicemente non riuscivano a orientarsi. La stessa casa editrice che veniva
accusata di essere di élite sarebbe stata accusata pochi anni dopo, sempre
dalle stesse persone, di essere troppo commerciale”. Nel 1979 arrivò
addirittura un articolo demonizzante su Controinformazione,
rivista vicina alle Brigate Rosse: “La produzione Adelphi – si denunciava su
quelle colonne – è colta, la sua proposta avvincente, la sua penetrazione
sottile. Sconcerta la sua capacità di recupero totale che spazia in autori
eccellenti, per profondità letteraria e filosofica, al cui fascino si piegano
devotamente i rivoluzionari stessi…”.
Fatto sta che quella della
Adelphi è stata, in realtà, l’unica rivoluzione (culturale e metapolitica)
riuscita in Italia, arrivando a trasformare il paesaggio mentale e la
sensibilità generale. In fondo è grazie a quei libri che siamo arrivati a uno
scenario in cui Nietzsche sta al posto di Marx, Geminello Alvi al posto di
Gramsci e Hillman al posto di Freud. Qualcosa di sostanzialmente più incisivo e
percepibile di quei banali sommovimenti di ceto politico che qualcuno ha pure
spacciato per cambiamento. Fenomeni, in realtà manifestatisi all’interno
dello stesso identico piano culturale, dentro un orizzonte in cui economicismo, strumentalismo, orizzontalismo sono il piano comune. Cosa significano infatti destra e
sinistra rispetto a un ribaltamento totale, a un “non inquadramento”, dell’orizzonte
mentale e culturale e all’apertura di nuove dimensioni e nuovi orizzonti? Ecco
perché, lo ripetiamo, quella targata Adelphi ci sembra davvero l’unica
rivoluzione culturale avvenuta in Italia.
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