Luciano Lanna
La discussione sulla
formazione del possibile nuovo “governo di convergenza” (tra forze idealmente e
programmaticamente contrapposte) così come anche quella che precedette il varo dell’ultimo
esecutivo tecnico esprimono con chiarezza che in Italia si sta manifestando con
drammaticità un evidente deficit di politica tout court. Sulla scena pubblica sembra prevalere più che altro la logica elementare
dell’emergenza, si opera attraverso commissariamenti (sia pur necessari,
imposti dall’urgenza, imprescindibili dato il contesto) e quadrature del
cerchio d’ordine numerico, si punta – un po’ come storicamente fu con i governi
“tecnici” del periodo 1943-45 – soprattutto a salvare il salvabile, a mantenere
un riferimento istituzionale per le relazioni internazionali e a tenere in
ordine i conti pubblici. Ciò che è scomparso dall’orizzonte, almeno dal nostro
personale punto di vista, è soprattutto il
riferimento alla natura “costituente” (e partecipata e propositiva) dell’attività
politica. È come se non si riuscisse oggettivamente a mettere in forma il “nuovo”
per aver forse dimenticato che non c’è politica senza l’ancoraggio teorico e
pratico a una cultura costituente e costituzionale. Da questo punto di vista, l’impressione
è come se si fosse perduta – e da tempo – la guerra delle parole e degli stessi
princìpi…
Soprattutto in Italia, d’altronde,
in particolare a partire dagli anni Settanta, sul termine “costituzione” aleggia
una confusione che ha progressivamente trasformato il suo significato in una
specie di feticcio ideologico teso a proporre come immutabile e addirittura
irriformabile l’assetto politico-istituzionale scaturito dal processo costituente
del periodo 1946-1948. Quasi nessuno ha infatti rilevato, come si sarebbe
dovuto fare, che qualsiasi costituzione è soprattutto l’enunciazione di
principi che salvaguardano la libertà dei cittadini più che un assetto dato
come indiscutibile una volta per tutte. L’ultimo paradosso è che, nello
scenario dei nostri giorni, se alcune forze politiche – quelle per lo più di
centrosinistra (ma non solo) oppure quelle caratterizzate da un giacobinismo di
fondo – si appellano al testo della costituzione repubblicana concependolo come
una sorta di riferimento assoluto e indiscutibile rispetto alla presunta impossibilità
di cambiare alcunché, dal centrodestra Berlusconi e i suoi, a intermittenza, reclamano
invece la necessità di una ri-scrittura della Costituzione al fine di fornire
maggiore potere all’esecutivo, tradendo così anche loro quel presupposto di
qualsiasi processo costituzionale che è poi la limitazione di qualsiasi eccesso
(e abuso) di potere.
Per rimettere i puntini
sulle “i”, riferiamoci, correttamente, alla sfera della teoria politica e
citiamo allora Giovanni Sartori: “Il termine costituzione, che pertiene al
costituzionalismo, è – sostiene il decano dei nostro politologi – esclusivamente
moderno, e deve essere inteso in un preciso significato garantistico”. Siamo
d’accordo, ma nel corso del Novecento il positivismo giuridico e una concezione
“formale” di costituzione ne hanno via via deformato il significato e distrutta
addirittura la ragion d’essere originaria del principio.
Cerchiamo quindi di capire
questo concetto attraverso un evidente paradosso politologico: la patria del
costituzionalismo, l’Inghilterra, è il paese che non ha e non ha mai avuto
una costituzione scritta e cristallizzata. Eppure, come è stato più volte sottolineato
da tutti gli studiosi, nonostante la Gran Bretagna non abbia una costituzione
scritta essa è sin dal Medio Evo il luogo politico in cui è stata sancita
teoricamente e prevista praticamente la
protezione integrale dei diritti fondamentali di libertà dei cittadini. Certo,
storicamente, i britannici hanno di volta in volta fatto anche ricorso a
documenti scritti che hanno definito rigorosamente i diritti di libertà dei
cittadini: le Petizioni dei Diritti
del 1610-1628, l’Habeas Corpus Act del
1679, il Bill of Rights e il Toleration Act del 1689. Ma il fatto che
questi atti solenni non siano mai stati fusi in un singolo testo scritto e
organico non significa affatto che nella prassi politica concreta gli stessi
non abbiano definito e inverato una costituzione materiale efficace e operativa.
La parola “costituzione” d’altronde
viene dal latino constitutio, che a
sua volta deriva dal verbo constituere:
istituire, fondare, iniziare, cominciare… Che, stando almeno a Machiavelli,
coincide con l’avvio, con l’originarsi della stessa prassi politica. Va detto
che nell’età di Oliver Cromwell – che sono, va ricordato, gli anni della
dittatura del Lord Protettore – in Gran Bretagna si verificarono pure tentativi
(non riusciti) di formulare una carta fondamentale scritta, eppure nonostante
ciò nessuno dei documenti in questione venne mai chiamato costituzione, semmai covenant, instrument, agreement. Ma
quando più avanti si cominciò a parlare di costituzione nel contesto del
costituzionalismo teorico , non ci si riferì mai, comunque, alla necessità di
un “testo feticcio”.
Chi cerca le origini del
costituzionalismo deve infatti rifarsi alla Magna Charta del 1215 e alle
dinamiche scaturite dai suoi principi in senso di costituzione materiale. Quando
nell’Ottocento si diffuse ovunque il movimento d’opinione che chiedeva “la
costituzione”, questo non significava altro che la richiesta di un assetto il
quale, come nella consuetudine inglese, garantiva “libertà protette” per ogni
singolo cittadino, ovvero un “sistema costituzionale”. Vale la pena leggere
ancora Sartori: “Sia come sia, una costituzione tutta codificata in un unico
documento è soltanto un mezzo. Ciò
che realmente importa è il fine, il telos,
lo scopo originario del costituzionalismo. E questo scopo comune potrebbe
essere espresso e sintetizzato da una sola parola: garantismo”. Ovvero, definire una serie di principi costituenti per
i quali si delimita qualsiasi tentazione di arbitrarietà del potere e si
assicura un governo limitato e controllato: “S’intende che le tecniche del
garantismo sono diverse (carte dei diritti o no, controllo giudiziario o meno,
separazione dei poteri), ma in ogni caso l’intento e la ragion d’essere sono di
assicurare che i cittadini siano protetti e garantiti dall’abuso di potere”.
D’altronde, è vero: nel
corso del Novecento, come abbiamo già accennato, si opera un processo di deriva
e confusione ideologica e ideologizzante. Dal costituzionalismo quale contenuto
“costituzionale” di garanzie di libertà e di limitazione del potere s’è passati
all’idea di costituzione intesa come un qualsiasi ordine istituzionale e
statuale dato. Soprattutto in Italia, il significato formale e derivato ha via
via fagocitato l’originaria ed essenziale dimensione garantistica di qualsiasi
processo costituzionale e costituente. Lo ripetiamo: in senso proprio e
politologicamente corretto, una “costituzione” non è altro che un assetto della
società politica tale da essere organizzato tramite e mediante la legge, allo
scopo di limitare qualsiasi arbitrarietà del potere e di sottometterlo alla sua
divisione (o tripartizione) e al primato del diritto.
A Berlusconi e a quelli che
la pensano come lui va ricordato, a proposito della polemica sui limiti di una
costituzione fissa e rigida, che da sempre è stato l’inevitabile (e spesso
automatico) cadere in desuetudine di taluni disposti costituzionali a causa del
loro anacronismo oppure il caso di certe norme che non sono mai state attuate
per carenza di volontà, o inerzia, del potere legislativo o di quello
esecutivo. Che è – sia ben chiaro – altra cosa da sollecitare una riscrittura strumentale
tesa a forzare sul primato dell’esecutivo sul legislativo (col rischio di far
saltare l’equilibro dei tre poteri, di montesquieuiana memoria, che è l’essenza
di un assetto libero). Oltretutto, in quasi tutti i contesti che – a differenza
della Gran Bretagna, dove come abbiamo rilevato un testo costituzionale scritto
non esiste – registrano casi di incompleta applicazione della costituzione.
Certo, è anche vero che molte costituzioni scritte e troppo articolate hanno
storicamente reso troppo macchinoso e complicato il funzionamento del
meccanismo di governo per consentire a un esecutivo di funzionare. E in queste
condizioni, la non applicazione, è stata spesso un rimedio all’inapplicabilità.
Ma, come osserva Sartori, “sarebbe controproducente o comunque poco sensato
accettare in tutti i casi il punto di vista strettamente giuridico secondo il
quale tutta la costituzione deve essere applicata a qualunque costo.
Personalmente ritengo che dovremmo sempre accertare se la non applicazione
investe il funzionamento del governo in ordine agli scopi fondamentali del
costituzionalismo, oppure no. E comunque i casi sono due: o il termine
costituzione viene usato nel suo specifico e originario significato garantista
e di limitazione del potere, oppure è diventato un doppione inutile (e
ingannevole) di termini come organizzazione, struttura, forma o sistema
politico”. Ma chi difende, oggi in
Italia, le prerogative più profonde e originarie, del costituzionalismo? E chi
propone nella sfera pubblica e nel quadro politico una prassi autenticamente ispirata
a una cultura politica che sia costituente
e costituzionalista ad un tempo?
Perché senza questa presenza e questa proposta rischiamo di restare ancora molto
a lungo nell’impasse e nello stallo
che caratterizzano l’attuale fase di paralisi politica succeduta, oltretutto, all’appello
a quell’inutile “transizione” stancamente e retoricamente evocata per oltre un
ventennio. Perché la risoluzione del “caso italiano” oggi non passa tanto nella
capacità di fare o reggere un governo ma in quella, decisiva, di avviare un
nuovo, vasto, entusiasmante, partecipato, “processo costituente”. Oltre le
leadership, oltre i limiti delle classi dirigenti possibili, oltre gli stessi
partiti.
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