Annalisa Terranova
Bisogna andare a un ricevimento pomeridiano dei professori
per capire come sta messa la scuola italiana. Fate conto che questa sia la
sintesi del racconto di qualche amica o amico che ci sono passati, in ogni caso
è tutto vero, e tutto facilmente verificabile. Innanzitutto colpisce lo
straordinario caos in cui si svolgono i colloqui. Madri, padri e a volte anche
nonni si accalcano davanti ai cancelli molto prima dell’ora di inizio pronti a
spintonare, a scavalcare, a sgomitare per iscriversi in lista tra i primi
dieci. Fuori da quel gruppo di eletti iscritto ai primi posti sei uno sfigato.
E sei sfigato pure se non hai l’amica che ti segna al posto tuo: ci sono
squadracce di mamme che assediano il foglio che penzola indifeso sulla porta
della classe, lo sequestrano con piglio banditesco e sotto il nome del
professore di italiano o di matematica o di inglese scrivono il loro nome,
quello dell’amica, quello dell’amica dell’amica, quello dell’amica dell’amica
dell’amica. Se protesti ti guardano come un pezzente, come un intruso, e ti
fanno con sopracciglio alzato: “Ce l’ha la penna, vuole che la segni io?”. Perché
la legge vuole così: c’è chi si segna e chi viene segnato.
Poi comincia il rito. Madri e padri (in numero inferiore)
stanno fuori dalle aule in piedi (nessuno che pensi a mettere due sedie, per
carità) e si raccomandano: certo bisognerebbe essere rapidi, telegrafici
concisi. Poi, quando è il turno loro, si fanno chiacchierate da pub. Ma
soprattutto, mentre aspettano, si lamentano. Si lamentano dei professori con cui stanno per
parlare, ne mettono a nudo i vizi, i tic, le fisse, le mancanze, sentenziano che
sono impreparati, che non hanno metodo, che non tengono la classe, che i loro
figlioli con un altro insegnante darebbero il meglio, che quello (o quella)
intimidisce gli alunni. Insomma, una lagna infinita, uno strazio acuito dal
fatto che il tempo sembra non passare mai. Sul foglio ci sono 60 nomi? Dopo
un’ora e mezza sì e no 15 genitori (quando va bene) sono riusciti a varcare
l’agognata soglia dell'aula. I professori, sorriso di circostanza scocciato
stampato in faccia, chiedono con aria sadica: “Ci sono ancora tanti genitori?”.
“Una fila lunghissima”. “Ah, si accomodi”. E sembrano compiaciuti di potersi
prendere una vendetta contro i genitori che a pochi metri di distanza gli
stanno demolendo la carriera a suon di chiacchiere e aneddoti velenosi. Si
godono la loro rivincita: quello è il momento in cui la materia che insegnano,
a dispetto di ciò che avviene in classe, risulta importante, significativa,
cruciale. E’ chiaro che le famiglie non si fidano del corpo insegnante e
vengono ricambiate con indifferenza e rassegnazione. Quando poi finalmente ti
trovi faccia a faccia con il professore la sintesi è sempre la stessa: il
ragazzo (la ragazza) è intelligente, ma potrebbe fare di più. L’ultimo compito?
Ah, non l’ho ancora corretto. Si capisce che bramano studenti appassionati e non ce l'hanno, si intuisce una certa svogliatezza, a tutti manca un feedback soddisfacente. Intanto, fuori dall’aula, quelli che stanno dal
40esimo posto in giù ti dardeggiano con occhiate di furia e guardano l’orologio.
A me sembra che questo rito meglio di altri possa far
comprendere una cosa banale ma importante: la confusione dei ruoli gigantesca
che impedisce alla scuola di funzionare anche nelle circostanze più semplici. I
docenti fanno gli psicologi, i genitori non sanno fare i genitori ma si sentono
un po’ docenti anche loro. E gli alunni? Gli alunni sono assolti con formula
piena: massacrati da troppe ore di vegetazione sui banchi, alle prese con
manuali sofisticati e incomprensibili, mancanti dell’unico strumento che servirebbe
loro, e cioè un canale di comunicazione con il mondo adulto. Alla fine i
professori se ne vanno a casa sfiancati, con le loro frustrazioni intatte e
forse persino rafforzate. Le bidelle tolgono soddisfatte i fogli con le liste
dalle aule. I genitori corrono per le scale felici di avere sacrificato un
pomeriggio sull’altare della formazione, cinguettando al cellulare: “Ho finito
ora, arrivo”. E tutto ricomincia come prima. E’ una scuola che si può amare
questa? Viene in mente Ernst Junger che racconta di come la scuola non lo
attraesse affatto, di come trovava sempre modo di deviare dalla strada che lo
conduceva in classe per osservare insetti e fili d’erba. Ma lui era un saggio,
forse addirittura un iniziato. Per tutti gli altri c’è la scuola di massa,
inutile, inerte, arretrata. Un mondo dove dovrebbe esserci vita, vita dello
spirito, e invece c’è solo routine, un pigro e indolente “tirare a campare”.
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