Francesco
Pullia
“Un nome vi è cancellato a ogni pagina,/ Ma
il tratto che lo depenna è la luce”. A distanza di tre anni dalla
pubblicazione, nei “Meridiani” Mondadori, dell’intera produzione poetica di
Yves Bonnefoy, esce nella prestigiosa collana “Lo specchio”, sempre a cura di
Fabio Scotto, L’ora presente, nuova raccolta di liriche dell’autore
francese giunto ormai al traguardo dei novant’anni. Un libro straordinario,
edito in Francia nel 2011, in cui si ritrovano i tratti distintivi di un
incalzante versificare divenuto, con il passare del tempo, sempre più stigma di
una dilacerante tensione tra presenza e assenza, essere e apparire, evidenza
sensibile e idea.
Da un lato si assiste, infatti, all'incontenibile spinta della nominazione (l'impossibilità di negare un nome alle cose nel loro manifestarsi), dall'altro prevale la percezione dell'inadeguatezza e insuffcienza del medesimo atto. Ciò che si dà e si offre alla visione sfugge, nella propria ricchezza e complessità, alla parola e, insieme, anela, in modo irrefranabile, a evadere alla propria sottrazione.
Ne scaturisce un
processo decostruttivo che mima nella poesia un procedimento analogo a quello
dell’archeologia. Si scava cioè facendo sì che, man mano che si va in
profondità, si acquisisca alla superficie l’oggetto nella sua nitidezza, così
com’è, senza la sovrapposizione di significati. La scrittura, dunque,
come “trivello che fora livelli di
difesa, dando accesso a ricordi rimasti sigillati”. Le cose, gli eventi,
sono ben “al di là” della loro designazione. La parola vorrebbe spingersi verso
questo “al di là” ma, non appena si solleva dal proprio nulla, vede sciogliersi
la cera delle proprie ali e precipita rovinosamente nel vuoto.
Il nome, ci dice
Bonnefoy, non è come la pietra, è destinato a dissolversi dinanzi
all’incandescenza del fuoco e all’ineluttabilità della morte. Può presagire,
certo, l’accadimento restando, però, prigioniero della propria ambizione. E
allora, ecco parole “che s’incurvano
sotto la nostra penna”, “che ci
escoriano”, garbugli che “celano
buchi, nei quali perdiamo l’appoggio e scivoliamo, lanciando grida”.
Oltre la parola, al
di là del verbo, si afferma la visibilità, perentoria nel proprio silenzio,
degli alberi, delle cime, della donnola furtiva, del “disordine di pozzanghere e giunchi”, dei cespugli spinosi,
dell’onda sbatacchiante contro il legno consunto di una barca, del giorno che
si plasma nell’oscurità della notte, del fiore che aspira a riscattarsi dalla
propria idea.
“La
parola non salva, talvolta sogna” e il suo è un sognare epico,
collettivo, in cui si consuma e celebra il rituale della nostra debolezza,
della morte che si avvicina per stringerci le mani, pronta a rimboccare su di
sé “il lenzuolo della luce”. La
parola, dunque, non ci salva, ci illude. Nell’intreccio di memoria e oblio che
costella il nostro graduale sparire, il nostro progredire verso il
dissolvimento, noi abbiamo, però, bisogno non di un’illusione ma della
sfolgorante pienezza di una verità che squarci il velo della dominazione e ci
restituisca, come nella pregnanza dell’arte quattrocentesca o fiamminga, il
mistero dell’evidenza.
Potrebbero esserci i
presupposti per una rassegnazione senza via d’uscita, ma, con grande vigore,
Bonnefoy ci invita a reagire, a risorgere, come araba fenice, dalle ceneri: “Ora presente, non rinunciare/ Riprendi i
tuoi vocaboli dalle mani erranti della folgore, / Ascoltali fare del nulla
parola, Osa/ Perfino nella fiducia che nulla prova./ Legaci di non morire
disperati”.
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