mercoledì 17 luglio 2013

Ma per la vicenda kazaka tutto il governo dovrebbe dimettersi




Umberto Croppi
Lo so, è la più scontata delle considerazioni, ma se un italiano andato in coma alla metà degli anni novanta si svegliasse oggi non crederebbe ai propri occhi. Un presidente della Repubblica al suo secondo mandato, una maggioranza di governo in cui si trovano insieme un partito composto da ex-democristiani e ex-comunisti, un altro fatto di berlusconiani e ex-missini, più un terzo in cui si trovano "tecnici", vicini a Montezemolo, a Sant'Egidio e perfino a Mario Monti.
Il nostro malcapitato scoprirebbe anche che proprio questi ultimi, i tecnici, sono reduci da un'esperienza di governo di un anno. Un governo concepito e accettato come una parentesi, una sospensione della normale dialettica democratica, per realizzare una serie di riforme improcrastinabili.
Solo che il nuovo governo - di cui essi stessi fanno parte - ha smontato in appena tre mesi proprio quegli abbozzi di riforme che loro avevano avviato. Per giunta nessuno dei due governi - retti per altro dalla stessa maggioranza - ha saputo  metter mano alla riforma che tutti reclamano come propedeutica al ritorno ad una parvenza di normalità: la riforma elettorale. Ma questo paradosso pare ormai metabolizzato e analizzato fino alla noia, fino al punto di non stupire più.
Anche perché a ogni remora, ogni critica, ogni mal di pancia nei confronti del governo Monti e, poi, di quello Letta è stato opposto un argomento potente: il recupero della credibilità sul piano internazionale, compromessa gravemente da Berlusconi. Del resto l'aplomb dell'attuale presidente del consiglio era quasi riuscito a far dimenticare il naufragio del suo predecessore nell'affare "marò".
Ma i fatti di questa settimana rimettono in discussione tutto e lo scivolone compiuto di fronte al mondo è di tale, evidente gravità da mostrare tutte le altre debolezze di un governo sostanzialmente impantanato nella palude di una maggioranza impossibile.
Nell'assistere all'evoluzione del caso Shalabayeva si ha come un senso di frustrazione, di impotenza, una vertigine. C'è in questa vicenda la prova che sono realmente saltate tutte le regole che tengono in piedi la politica per come noi l'abbiamo conosciuta. Persino il dibattito sulla necessità di dimissioni del ministro Alfano sembra tutto interno al teorema che paralizza il Paese in vista di non si sa più che cosa: l'inamovibilità del governo.
A ben vedere, infatti, la dinamica della vicenda kazaka, aggravata ad ogni ora dalla goffa difesa che i protagonisti stanno inscenando, in qualsiasi altro momento, in qualsiasi altro luogo non si sarebbe perduta nei meandri bizantini della ricerca di singole responsabilità, non sarebbe stata sanata dalle dimissioni di uno, forse due ministri ma avrebbe portato alla caduta immediata del governo.
Sarà questa una visione ingenua, bisogna probabilmente assuefarsi a un realismo che vieta di mettere in discussione equilibri assurdi ancor più che precari e accettare verità fittizie in difesa di gracili interessi economici. È però difficile non provare un brivido e costatare che di troppo realismo stiamo morendo.
(Dall'Huffington Post del 17 luglio 2013)

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