Francesco Pullia
Il 6 luglio Tenzin Gyatso, XIV Dalai Lama del Tibet, compirà 78 anni, buona
parte dei quali (54) trascorsi lontano dalla sua terra e dal suo popolo,
nell’esilio indiano di McLeod Ganj, nell’Himachal Pradesh. Si narra che non
appena, nel 1935, il suo predecessore, il XIII
Dalai Lama, a quel tempo guida politica e religiosa del Tibet, lasciò il
corpo materiale, cominciarono le ricerche del bambino in cui si sarebbe
reincarnato. Il Reggente si recò, allora, al lago sacro di Lhamo Lhatso per
scorgere nella superficie di quelle acque
immagini e indicazioni significative. Lì
vide tre lettere dell’alfabeto tibetano, Ah, Ka e Ma, accompagnate
dall’immagine di un monastero dal tetto di giada verde e oro e di una casa con
tegole turchesi. In seguito a quella visione, nel 1937 alti lama e dignitari
furono inviati in tutte le regioni dell’altopiano. Quando il gruppo che si era
indirizzato verso est arrivò in Amdo, trovò un posto
che pareva corrispondere alla descrizione. Ai monaci corse subito incontro
un bambino che riconobbe come proprio un rosario appartenuto al
XIII Dalai Lama. Il riconoscimento di altri oggetti,
insieme a diverse prove, fornì la certezza di essere dinanzi alla
reincarnazione cercata. Si spiegavano così anche le tre lettere intraviste nel
Lhamo Lhatso: Ah stava per Amdo, il nome della provincia; Ka per Kumbum, uno
dei più grandi monasteri nelle vicinanze e Ma per il monastero di Karma Rolpai
Dorje, il monastero dal tetto verde e oro sulla montagna sopra il villaggio. Il
22 febbraio 1940 il piccolo Lhamo Dhondrub venne ufficialmente investito a
Lhasa del titolo di Dalai Lama e ribattezzato con i nomi di Jetsun Jamphel
Ngawang Lobsang Yeshe Tenzin Gyatso (Signore Santo, Mite Splendore,
Compassionevole, Difensore della Fede, Oceano di Saggezza). La sua educazione
iniziò all’età di sei anni. Nel 1950, in seguito all’invasione del Tibet da
parte di ottantamila soldati cinesi, gli furono attribuiti, in fretta e in
furia, i pieni poteri politici. Nel 1954 si recò a Pechino per tentare di
dialogare con Mao Tse-Tung e altri leader cinesi, fra i quali Chou En-Lai e Deng
Xiaoping. Nel 1956, durante una visita in India in occasione del 2.500°
anniversario del Buddha Jayanti, ebbe una serie di incontri con il Primo
Ministro Nehru e con il Premier Chou En-Lai in cui fu discusso il progressivo
deterioramento della situazione all’interno del Tibet.
I tentativi di soluzione
pacifica furono vanificati dalla spietata politica perseguita da Pechino nel
Tibet Orientale, politica che scatenò la sollevazione popolare e la resistenza.
La protesta si diffuse nelle altre regioni del paese. Il 10 marzo 1959 nella
capitale, Lhasa, esplose la più grande dimostrazione della storia tibetana: il
popolo chiese alla Cina comunista di lasciare il Tibet e restituire
l’indipendenza al paese. La repressione, manco a dirlo, fu spietata e il Dalai
Lama, per evitare di cadere nelle grinfie cinesi, fu costretto ad una
rocambolesca fuga in India. Il resto è storia dei nostri giorni, più o meno
nota.
Premio
Nobel per la pace nel 1989, Tenzin Gyatso è fermo assertore della nonviolenza
nonostante l’altopiano himalayano continui ad essere teatro di un’immane
tragedia sotto il giogo dell’oppressore cinese e la situazione in Tibet sia
arrivata ormai a un punto di non ritorno. Lo scorso 11 giugno a Tawu, nella
regione del Kham, la monaca Wangchen Dolma si è autoimmolata all’esterno del
monastero di Nyatso dove erano convenuti oltre tremila monaci per un’importante
sessione generale di dibattito vietata lo scorso anno dalle autorità cinesi.
Aveva 31 anni. Con lei sale a 119 il numero
dei tibetani che, a partire dal febbraio 2009, si sono dati fuoco per la
libertà del proprio paese e il ritorno del Dalai Lama. Dall’invasione cinese
degli inizi degli anni Cinquanta il Tibet è soggetto ad una brutale
colonizzazione il cui scopo è la distruzione sistematica di un popolo e della
sua millenaria tradizione. Basti considerare che i tibetani, a causa anche
della politica di sterilizzazioni e aborti forzati imposta da Pechino, sono
ridotti ad essere in patria in minoranza rispetto ai cinesi. Secondo quanto
previsto da un nuovo piano regolatore approvato dalle autorità cinesi, quello
che resta delle abitazioni tibetane a Lhasa sarà demolito per fare posto a un
grande centro commerciale destinato a trasformare l’antica capitale del Tibet
in una città turistica simile a Lijiang, lo “Shangri-La” della provincia dello
Yunnan. Il progetto, già in fase di realizzazione, prevede, tra l’altro, la distruzione dell’area attorno al tempio
del Jokhang e a quello di Ramoche. La scrittrice e blogger tibetana Tsering
Woeser ha lanciato all’Unesco e alle istituzioni di tutto il mondo un disperato
appello affinché Lhasa sia risparmiata dalla “spaventosa modernizzazione”, “un
imperdonabile e incalcolabile crimine contro l’antica città, la cultura umana e
l’ambiente”. In una petizione pubblicata su Wiebo, la
rete cinese, all’inizio del corrente mese e prontamente censurata dalle
autorità, la scrittrice ha denunciato il progetto della costruzione di un
centro commerciale nel cuore della città vecchia, progetto che comporterebbe la
totale distruzione dell’area del Barkhor, attorno al più sacro dei templi di
Lhasa, il Jokhang. Una volta completato, il “Barkhor Shopping Mall” coprirà
un’area di 150.000 metri quadrati e sarà in grado di ospitare, nel suo
parcheggio sotterraneo, oltre 1000 automobili. Il 20 giugno la Woeser, insieme
al marito, l’intellettuale dissidente Wang Lixiong, è
stata posta agli arresti domiciliari. Recentemente Il giornalista francese
Cyril Payen e l’emittente France 24 sono
stati oggetto di minacce e intimidazioni da parte dei funzionari
dell’ambasciata cinese a Parigi dopo la messa in onda del documentario Sette
giorni in Tibet
girato segretamente a Lhasa.
Ecco un estratto di un’intervista nel filmato:
Payen, rivolto a una
tibetana: Pensi di avere
libertà qui?
Risposta: No, no, oggi non
abbiamo né libertà né diritti umani. Credo nel Buddismo, considero il Dalai
Lama come il nostro sole, ma non possiamo dirlo perché se lo diciamo saremo
messi in carcere.
In prigione o fuori,
ci si chiede se questo possa fare la differenza per questi tibetani e per
un’antica cultura nel cuore dell’Himalaya. Questo luogo (cammina nell’area del Barkhor)
è uno dei più sacri del Tibet, è il cuore spirituale del paese, il monastero
del Jokhang. Per secoli i pellegrini si sono riuniti qui. Adesso il governo
cinese sta costruendo in quest’area un centro commerciale completato da un
parcheggio sotterraneo. Fu qui che un anno fa, per la prima volta nella
capitale, due ex monaci si dettero fuoco come estremo atto di resistenza. Negli
ultimi tre anni in Tibet ci sono state 127 immolazioni, tutte in segno di
protesta contro la politica cinese.
Il sacro è ovunque in
Tibet e i monaci, nella società, sono considerati le massime autorità. Ed è per
questo che sono nel mirino del governo cinese che vorrebbe confinarli in un
ruolo puramente di facciata.
Payen, rivolto a un
tibetano: Cosa pensi dei
cambiamenti a Lhasa?
Risposta: Non è consigliabile
andare in giro, dimostrare, ci sono molti controlli e perquisizioni.
Cinquant’anni fa i
monaci costituivano il 30% della popolazione maschile tibetana, oggi sono
soltanto 30.000.
Un monaco tibetano: Tutto ciò che
vogliono è portare i turisti cinesi nei nostri templi e il danaro è per il
governo, non per i tibetani.
Oltre al proposito di
raggiungere, entro l’anno, il numero di dieci milioni di turisti, la Cina ha
altre nascoste ambizioni riguardo al Tibet. Ambizioni più cinesi che tibetane
che prevedono l’arrivo di decine di migliaia di migranti da tutta la Cina.
Un cinese: Ho lavorato a Lhasa
per tre anni, nel settore delle costruzioni…
Payen: E perché sei qui, nel
tempio?
Cinese: Non si può mai dire…
E’ difficile
prevedere cosa sarà del Tibet tra dieci anni. L’unica certezza è che è divenuto
una pallida ombra di quello antecedente l’invasione cinese.
E lui, il Dalai Lama, che continua a professarsi umile monaco
buddista e a girare il mondo perorando la causa della sua terra, insiste
fermamente nella via di mezzo, una via
che presenta
sostanziali analogie quanto teorizzato e messo in pratica da Gandhi ma che deve
anche confrontarsi da un lato con la satrapia cinese le cui dimensioni vengono
ingigantite dall’omertà dei governi occidentali, dall’altro, come abbiamo
visto, con l’insofferenza di un popolo, il tibetano, che non ne può più di un
genocidio non soltanto culturale ma soprattutto etnico e che, pertanto, si
ribella.
Dinanzi al quadro
generale e ad una controparte come quella cinese, la nonviolenza propugnata e
caldeggiata dall’esponente religioso dovrà inevitabilmente intravedere
soluzioni nuove e trovare maggiori impulsi per evitare di essere umiliata e
ridicolizzata dai vertici della Cina comunista. Il segreto del successo
(parziale) dell’azione gandhiana risiedeva proprio nel sapersi costantemente
rinnovare, nel tentare continuamente vie impreviste e imprevedibili, senza indugiare
nel già collaudato. L’insistenza e la perseveranza con cui oggi
all’arroganza dei militari cinesi si rilancia e contrappone la nonviolenza sono
encomiabili e vanno strenuamente incoraggiate. La nonviolenza ha certamente i
suoi tempi e i suoi modi ma nel suo incedere non può conoscere battute
d’arresto.
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