Gennaro Malgieri
L'estate è il trionfo del corpo. Almeno così sembra. Ma da qualche tempo io non ne sono così sicuro. Più che amato il corpo (e non
soltanto d'estate) lo vedo umiliato, costretto a "recitare" una parte
che non è la sua, quella di merce esposta senza
ritegno. E non mi riferisco soltanto al corpo delle donne professionalmente
votate all'ammirazione, a catturare sguardi interessanti che facciano ricordare
il prodotto che reclamizzano, né a quello di fanciulle in fiore alla ricerca
di una qualche notorietà per cui si sottopongono ad estenuanti
rassegne per farsi scrutare centimetro,per centimetro da "giurati"
chiamati a decidere dei loro labili destini. Quel che mi intriga è l'esibizione gratuita dei corpi (non solo delle donne,
naturalmente, ma anche degli uomini) che pur ammettendo che possono farne
quello che vogliono, mi inducono a chiedermi se la seduzione a cui mirano sia
davvero alla portata lanciando le loro bellezze, presunte o reali, in pasto ad
occhi puntati più che sull'estetica sulla voluttà che innescano consapevolmente e sull'altrettanto
consapevole elementare passione che innescano.
Ne traggo la conclusione
che l'ossessione del corpo ci costringe nella prigione del
narcisismo. Avendo perduto altri riferimenti, sembra non
rimanerci altro che la materialità più prossima per riconoscerci in un qualche ideale. Il
nostro ideale di contemporanei avvizziti è la cura estenuante, la spettacolarizzazione volgare, il linguaggio indecente (e a volte indecifrabile) del corpo. Al di fuori di esso, perfino la parola se non le è correlata, nulla esiste perché niente è così tangibilmente vero. E
allora alla religione del corpo ci siamo votati come fedeli della liquidità sociale nella quale sono già naufragate tutte le idee che trascendono la materialità più nobile perché più nostra: quella delle membra che si muovono, che giacciono, che si fanno ammirare, che suscitano repulsione, che accendono i desideri, che spengono gli entusiasmi, che elevano fino all’inverosimile la vertigine del potere di
sopraffare altre membra. Insomma, il corpo è tutto. È il demiurgo della modernità.
È l'oggetto-evento intorno al quale si
celebrano i trionfi della creazione e del disfacimento, della morte e della resurrezione, del dinamismo e della atarassia. È simbolo e rappresentazione del successo. Soltanto nel corpo la vita assume un senso, ha un significato.
E il corpo, con la sua
finta maestosità, copre le asprezze delle nostra esistenza edulcorandole con la trasfigurazione della bellezza nel possesso carnale. Perciò tutto si ricompone nel corpo che parla da solo, senza bisogno di suoni o di parole. La sua espressione è connaturata alla sua essenza. Perciò la pubblicità lo usa, l’uomo e la donna lo commercializzano, l’industria dei consumi se ne serve. È una macchina, un meccano. Senz’anima ormai nell’apparenza delle realtà che riproduce all’infinito. Non è il corpo dei santi, dei poeti, degli eroi, degli artisti, dei tiranni, dei mendicanti, degli ingenui, dei puri di spirito e dei malfattori. È soltanto il corpo: una cosa. Anzi, la Cosa.
Non si rileva nient’altro nei corpi
massacrati come carni appese ai ganci di un macello che materia su cui
esercitare i pensieri più diversi. Nei corpi spogliati non c’è, generalmente, che induzione alla depredazione. Nei corpi cosparsi di unguenti e stesi al sole o manipolati da abili ricostruttori si vede soltanto la personificazione dell’abbandono. Costeggiano i percorsi di immortalità apparenti i corpi deprivati di profondità, come carte che assorbono i nostri incubi e i nostri sogni ai margini di strade che svelano il potere della seduzione, ma non lo porgono al viandante che uccide i suoi stessi desideri nell’affannosa corsa verso violazione del mito che, se anche dovesse riuscire, non lo appagherà perché il corpo voluto, inseguito, ottenuto è il corpo di tutti: è tutti i corpi del mondo fissato in uno stereotipo che prevede un tanto di appeal,
un tanto di nudità, un tanto ancora di sorriso ebete, e per finire un richiamo costante, incessante, nauseante ad abusare di quel che il cartellone pubblicitario, la televisione, il cinema, internet propongono generosamente. Ma è l’illusione che illumina i nostri desideri.
Pensateci: il corpo è morto. Noi diventiamo automi quando riduciamo noi stessi alla materialità che dovrebbe riempire e appagare i nostri giorni e le nostre notti. Camminiamo tra cadaveri sparsi, inanimati proprio perché ai corpi non si chiede altro che di mostrarsi, indipendentemente dallo scopo. E se una volta era un Tempio, come si diceva, oggi
non è neppure un pagliericcio.
L’offesa che rechiamo a noi stessi si riassume nell’assuefazione agli stereotipi carnali che
sembra dominino ogni cosa: la politica, l’economia, la cultura, l’arte, la guerra (ma questa è storia antica). E il possesso dei corpi, della più grande quantità di corpi è segno riconoscibile di un potere tanto più forte quanto più si levano dal sottosuolo le grida di corpi
infangati, prostrati, profanati, desiderati, amati, usati, gettati, usurati.
C’era una volta la bellezza del corpo.
Raccontava di dèi ebbri e innamorati; raccontava la
solitudine splendente di mistici assetati di eterno; raccontava di poeti erranti per le vie dello spirito e dell’amore; raccontava di soldati e cavalieri a difesa di civiltà ancestrali; raccontava di guerrieri e di fanciulle, di vecchi e di vecchie, di ladri e di benefattori. Dove sia finita quella bellezza dei corpi che erano torri eburnee, io non lo so, ma credo non lo sappia nessuno. Ritornerà? Forse, si spera perlomeno. Tuttavia quando la caduta diventa fragorosa, non sappiamo più dove rifugiarci per non vedere, per invocare la cecità, per desiderare che il sole si spenga, che la luce manchi, che la disperazione ci soffochi. Poiché tutto è più accettabile della rassegnazione alla fine
della bellezza. E il corpo, per lo più si è ridotto oggi in un mesto canto funebre
che neppure un miracolo potrebbe tramutare in sinfonia. A meno che Dio non riappaia e ridia al corpo la sontuosa eppure discreta anima che s’è assentata per prendersi gioco di esso, per vedere, di nascosto, che cosa ne sarebbe stato lasciandolo.
Ecco: noi ora lo sappiamo. Noi che leggiamo i giornali, guardiamo la televisione, andiamo al cinema, frequentiamo i teatri,
stiamo in mezzo alla gente, ci nutriamo di pubblicità. Noi sappiamo che i corpi sono apparenze. Sbiadite immagini una volta seducenti,come il volto di chi li ha creati. Cosa resta degli occhi in cui non si legge un’emozione? Che effetto fa una bocca serrata nel silenzio? Che significato ha il gesto che richiama a un banale consumo che potrebbe essere illustrato da altri elementi, ma non necessariamente da un corpo? Nulla. Ed è la nullificazione della persona diventata oggetto che diventa essenziale alle nostre vite frastornate nelle quali niente è al posto in cui dovrebbe essere. Ci guardiamo dentro e non riusciamo più a leggerci niente, infatti. E ci domandiamo: ma come, fino a qualche tempo fa parlavo perfino con me stesso e adesso vedo il vuoto dentro di me? Già, per riconoscerci abbiamo bisogno dello specchio. E quel che vi vediamo riflesso è ciò che gli altri vogliono
vedere di noi. Tutto, ma non la bellezza.
Sarò fuori dal tempo, ma continuerò ad amare il corpo come tabernacolo dell’anima. E lo onorerò. E pregherò per lui. E lo sosterrò quando sarà debole. E alla fine chiederò che su di esso scenda una benedizione. E, spero, che l’ultima immagine che passerà davanti ai miei occhi sia quella di una bellezza infinita che mi porti laddove le immagini si affollano e gli incontri si infittiscono. Dove le anime accarezzeranno i corpi che hanno abitato, finalmente riconoscendoli per quello che sono. Finirà allora la pandemia che ci assedia e che ci ha rubato la bellezza. Se Dio vorrà.
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