Luciano Lanna
Gianni Alemanno più che fare
autocritica e cercare di comprendere il senso della sua recente sconfitta
sembrerebbe rassicurarsi con il mantra di Marcello Veneziani: s’è chiuso il
ciclo avviatosi nel 1993 e adesso “ci vuole un nuovo centrodestra”. Ed è quanto
suggeriscono anche gli altri reduci di quel che fu An. Con l’imminente
rinascita di Forza Italia, ha precisato infatti l’ex sindaco di Roma, “ci
sarebbe una simmetria storica con una nuova An”. Una nuova Alleanza nazionale,
sottolinea intervistato dal Corriere
della Sera, non certo il Msi, nel senso che occorrerebbe, a suo dire,
ripetere l’esperienza di una destra aperta al centro, che includa come fu con
An “esponenti provenienti dalla vecchia Democrazia cristiana…”. La strategia
sembrerebbe quella, oggettivamente residuale, di rimettere insieme tutti gli
spezzoni possibili della ex An, cercando di dar vita a un contenitore che
andrebbe ad affiancarsi in coalizione al nuovo soggetto berlusconiano, questo
tutto carismatico e leggero, modellato sulla linea Santanchè, Ferrara e
Brunetta… “Il leader – conferma per non lasciare adito a dubbi Alemanno – è
Silvio Berlusconi, il nuovo assetto del centrodestra va costruito insieme con
lui, soprattutto adesso che è oggetto di un grave attacco giudiziario”.
Dichiarazioni che sanno solo di resa e dell’incapacità di affrancarsi da quella
subalternità al berlusconismo che in realtà è la ragione della sconfitta e
dell’attuale crisi di ruolo di tutto un ambiente: di Alemanno come de La Destra
storaciana, degli ex An non candidati o trombati e degli ex Fli che non se la
sono sentita di andare davvero in mare aperto come avevano invece fatto sperare
tanti italiani, come della stessa aggregazione non certo maggioritaria dei
Fratelli d’Italia…
Ricordiamo che quando
Alemanno vinse le amministrative nel 2008, al primo turno lui aveva ottenuto
677.350 voti, circa 70mila in più della coalizione di centrodestra che lo
sosteneva. Il suo antagonista Rutelli ne aveva presi solo 761.126, ossia 57mila
circa in meno rispetto alla propria coalizione. E al ballottaggio i voti di Rutelli
scesero a 676.472, quasi centomila in meno del primo turno. I numeri facevano insomma
capire che tra il primo e il secondo turno centomila elettori di centrosinistra
avevano cambiato il voto in favore di Alemanno. Non a caso il distacco dei voti
di Alemanno rispetto al centrodestra passava da 68.486 a 174.351. E ancora: al
ballottaggio ci furono ben 52mila romani che votarono Zingaretti alla provincia
e Alemanno al Comune. Cinquantamila elettori del Pd non ebbero insomma problemi
a votare Alemanno, ma lo fecero non per aspettarsi una politica di destra o di
centrodestra ma per il cambiamento. Lo stesso Berlusconi, che avrebbe preferito
un altro candidato sindaco, subì quel risultato suo malgrado e dovette
adeguarsi. E anche questo qualcosa avrebbe dovuto significare: quel risultato
poteva portare a emersione quella nuova prospettiva, oltre la destra e la
sinistra e verso il futuro, che da decenni alcuni ambienti avevano evocato e
sognato e qualcuno anche praticato in percorsi solitari e d’avanguardia…
In altre parole, poteva
essere, quel risultato, il segnale di quell’accelerazione che avrebbe
trasformato definitivamente il ruolo e il profilo politico dell’area che
proveniva da An. Ma non fu così: Alemanno e i suoi vissero purtroppo quella
vittoria come la rivincita storica di una presunta identità di destra. Ma, come
ha giustamente scritto Pierluigi Battista, la sinistra e la destra perdono,
invece, “quando il loro marchio identitario, gelosamente custodito, si compiace
della propria purezza. In una democrazia dell’alternanza, in cui non esistono
rendite di posizione a vita, è essenziale parlare a chi non è già con noi, alla
stragrande maggioranza degli elettori nomadi, non stanziali nei recinti delle
immutabili identità”. Si vince, insomma, quando si conquistano attraverso
progetti e programmi concreti gli indecisi, i cittadini normali, “quando –
prosegue Battista – si parla un linguaggio che non è il gergo dell’identità ma
risuona anche nelle menti e nelle emozioni dell’elettorato mobile, non
inquadrato nelle strutture identitarie della militanza politica…”.
D’altronde, sin dal 1993,
anche grazie all’elezione diretta dei sindaci e al nuovo sistema di voto
maggioritario, s’era già avviata la rivoluzione che aveva portato alla rottura
delle appartenenze e delle rappresentanze consolidate. Un processo che, tra i
suoi frutti, creò anche le condizioni per il superamento del Msi e la nascita
di An, un partito nuovo che avrebbe imboccato un cammino innovativo, a volte
anche traumatico, ma che si poneva oltre i recinti della vecchia destra. Purtroppo,
malgrado ciò che oggi dice Alemanno, le conseguenti tappe evolutive che
seguirono – la lista con Segni e i radicali nel 1999 in polemica con Forza
Italia, il successo elettorale di Alemanno nel 2008, quindi, e lo “strappo” di
Fini con Berlusconi del 2010 – non sono poi state seguite, praticate e condotte
fino in fondo da chi per una ragione o l’altra ha preferito ragionare in
termini di rendite di posizione da salvaguardare e di “posti” in Parlamento da
salvaguardare. Che senso ha adesso lavorare a una zattera che può puntare al
cinque-sei per cento dei consensi e, in tutta evidenza, viene pensata per
recuperare spezzoni di un ceto politico-parlamentare che ha alle spalle un
fallimento politico e generazionale? Ora, come conclude Battista, chi a destra per troppi
anni s’è trincerato e rassicurato solo sull’onda dei successi di Berlusconi può
unicamente restare “nell’attesa di una inevitabile e rovinosa fine politica
trascorsa nel calore identitario di una corte affollata di signorsì”.
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