Annalisa Terranova
Cavalcare la tigre,
uno dei libri più importanti di Julius Evola, fu stampato in 1500 copie nel
novembre del 1961 e distribuito all’inizio del 1962. L’editore Vanni
Scheiwiller, quando il titolo apparve nelle librerie, fu sommerso dalle lettere di protesta e decise
di rispondere con una missiva aperta alle obiezioni che gli aveva mosso
Lamberto Vitali, studioso ebreo di arte contemporanea. “Caro Vitali – scriveva Scheiwiller
– l’odio è un pessimo giudice e soprattutto un pessimo storico. Io credo nell’assoluto
e nell’intenso, l’uno nel campo sovrumano e l’altro in quello umano; perciò in
coscienza mi sento di condannare le ideologie, le idee, ma gli uomini mai.
Credo nel giudizio di Dio, non credo nel giudizio degli uomini. Da ciò l’equivoco,
per lei, della mia presunzione di non sbagliare mai. Non giudicare mai il mio
prossimo e accettare tutto ciò che di umano e positivo possiede, fosse anche un
presunto delinquente comune (un uomo da forca come Villon, un barattiere come Dante
ieri, un traditore come Pound, un razzista come Céline, oggi”. Scheiwiller ricorda
ancora che Evola non fu mai iscritto al Pnf: “So che vive povero, campando di
traduzioni; paralizzato dalle ferite in un bombardamento, vive e scrive, acido
sì e scontento, ma senza compiacersi delle sue sventure”. Evola, messo al
corrente della polemica, risponde a Scheiwiller che si rifiuta di seguire “quegli
imbecilli e quei provinciali i quali credono che di là dall’antitesi
fascismo-antifascismo non esista null’altro”.
Il tormentato debutto di Cavalcare
la tigre è descritto in un interessante saggio di Andrea Scarabelli
pubblicato nel libro a più mani Julius Evola,
cinquant’anni di Cavalcare la tigre (1961-2011) – edito da Controcorrente –
e che contiene scritti di Giandomenico Casalino, Gennaro Malgieri e Marcello Veneziani.
Giustamente Veneziani
vede in questo discusso testo evoliano “un breviario aristocratico di
nichilismo attivo”. “Cavalcare la tigre
fu il Sessantotto della destra colta, giovanile e radicale, la trasgressione
nel nome della tradizione” ma anche “alibi sontuoso per cedimenti meschini o
comunque umani, troppo umani”. Il problema, sottaciuto ma non ignoto agli
autori del saggio come a tutti i cultori di Evola, fu quello di prendere alla “lettera”
un libro complesso e di cercarne le vie di attuazione pratica in un mondo
ostile senza – avrebbe detto il Barone – avere la giusta preparazione e
predisposizione interiore. Un concetto riassumibile in modo anche più plastico
ed elementare: tanti lettori di Evola si sono creduti uomini differenziati
mentre erano normalissime creature. Il che non può certo essere imputato all’autore.
Del resto il libro si collocava in una fase storica che
Malgieri descrive con le parole di Heidegger: “La notte del mondo distende le
sue tenebre… il tempo della notte del mondo è il tempo della povertà perché
diviene sempre più povero. E’ già diventato tanto povero da non poter
riconoscere la mancanza di Dio come mancanza…”. L’etica superiore proposta da
Evola andava benissimo, va benissimo in tempi d’angoscia ma ha un risvolto
pericoloso: il fai da te morale che è un pasticcio esistenziale molto lontano
dal nichilismo stoico che il filosofo intendeva proporre. Gianfranco De Turris
nell’introduzione ricorda che un altro studioso di Evola, Piero Di Vona, ha
paragonato Cavalcare al Manuale di Epitteto, di qui il suo
successo anche mezzo secolo dopo la prima stampa, a differenza di altri titoli
che segnarono la contestazione e che oggi appaiono datati perché compromessi
con il linguaggio di una sovrastruttura ideologica che non ha più nulla da
comunicare.
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