Francesco Pullia
A venticinque anni dalla prematura scomparsa di Ferruccio Masini (1928–1988), straordinaria figura di intellettuale versatile e fuori dagli schemi, non si può che constatarne e denunciarne, con amarezza, il vergognoso oblio. Non se ne parla, non si fa tesoro del suo preziosissimo e inestimabile lascito culturale. E dire che proprio grazie al suo instancabile lavoro si deve la conoscenza approfondita in Italia di autori come Walter Benjamin, Ernst Jünger, Gottfried Benn, Hermann Hesse, Karl Jaspers, Franz Kafka, Hoffmann, Novalis, Friedrich Richter (Jean Paul), Heinrich von Kleist e naturalmente Friedrich Nietzsche.
Filosofo, insigne germanista, traduttore sensibile e ineguagliabile, regista teatrale, poeta, artista (firmava i suoi quadri con lo pseudonimo di Salins), Masini non può essere ingabbiato in spazi codificati, avendo sempre preferito ai facili e comodi ormeggi l’ostinata navigazione in mare aperto e la sfida ai venti più avversi.
Lucido indagatore del dissolvimento della soggettività, dello sgretolamento delle illusorie e fittizie pareti dell’io, nell’ultimo periodo della sua vita aveva ravvisato nel buddhismo, in particolare nello zen, un riscontro della sua riflessione. Nel 1982 aveva pubblicato con Guida “Il suono di una sola mano (da un celeberrimo koan, n.d.r.). Lemmi critici e metacritici” e due mesi prima di congedarsi dal passaggio terreno (l’8 luglio 1988) aveva dato alle stampe, con le Edizioni dello Zibaldone, “Pensare il Buddha”, bellissima raccolta di “dialoghi alla maniera zen” attribuiti, per finzione letteraria, al maestro Jōshū (778-897), da lui considerato come esemplare esponente di un “pensiero non pensante (hi-shiryo) che penetra fin dentro il midollo del reale”.
In questa prospettiva, scriveva Masini, va inquadrata la ricerca di “una conoscenza (prajnā) il cui oggetto si dissolve continuamente proprio perché non riguarda l’atto di un pensiero che pensa qualcosa, ma quel non-oggetto, quella impossibilità di oggetto che si chiama “vuoto” (sunyatā)”.
A distanza di tanto tempo “Pensare il Buddha” vede nuovamente luce in questi giorni nella bella collana “Etcetera” di Castelvecchi dedita a sottrarre dal dimenticatoio testi di rara intensità. In questi aneddoti sfolgoranti è racchiusa, sotto forma di riflessione sapienziale, la tensione antisoggettivista che ha permeato l’intero pensiero dell’autore, la sua indagine perseguita per vie eccentriche, eccedenti angusti margini e delimitati confini. Leggendoli vengono in mente alcuni versi taoisti che erano particolarmente cari ad Hermann Hesse: “Nulla si rovescia nel suo contrario/ se prima non si è raggiunto l’estremo”. Ed ecco, appunto, il decentramento e la sparizione dell’io, l’estinzione delle sue pretese, l’evidenza di un’impostura su cui per secoli si è retta la metafisica occidentale, lo spingere il filo della riflessione verso un punto, in cui al tempo stesso convergono parola e silenzio, “che trema sul ciglio dell’essere”. “Se”, nota Masini-Jōshū, “quello che vedi è un ragno, è perché pensi che il mondo sia una tela”. Il ragno è dato dalla tela, e viceversa. Entrambi, però, sono sospesi nel vuoto in cui è immersa l’esistenza, un vuoto “di per sé incolmabile”.
“È la nube”, chiedono a Jōshū, “a inseguire il vento o il vento a inseguire la nube? Se s’inseguono tra loro, com’è possibile che giungano ad incontrarsi?”. E il maestro risponde: “S’incontrano nell’ultima profondità della notte, dove la nube non è più nube e il vento non è più vento”. E, ancora, alla domanda se “il disumano” non sia altro che una deformazione, una degradazione, un’alterazione profonda dell’uomo, Jōshū controbatte che, al contrario, il disumano ne è una sua accentuazione. Questi koan testimoniano come e quanto Masini si sia spinto in là, molto al di là del pensiero usuale, inficiando con grande anticipo la retorica in cui vorrebbero imbrigliarlo (e imbrogliarlo) la corrente, oggi in voga, del cosiddetto “neorealismo” filosofico. In realtà, ci venga perdonato il gioco di parole, non c’è altra realtà che quella in cui naufraga la miserabile cupidigia dei concetti.
“Devo imparare a non lasciarmi ingannare dalle distinzioni. Ma come potrò sapere che cosa sono, se non potrò distinguermi da tutto ciò che io non sono?” disse qualcuno.
“Devi cominciare proprio dal non distinguerti” rispose Jōshū.
Quando Ferruccio Masini abbandonò questo mondo, Sergio Givone, che gli fu molto amico, rievocandone gli ultimi istanti, rese noto in un articolo che, proprio poco prima di spirare, l’autore fiorentino avesse chiesto una penna e un foglio per tracciare, allo stremo delle forze, segni indecifrabili. Non ci è dato sapere se quelle linee fossero venute di proposito così. Ci piace, però, immaginare che proprio con la loro “forma deformata” contenessero un’indicazione, un invito: andare al cuore delle cose, dove la visione si annuncia superando se stessa.
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