Annalisa Terranova
La copertina di Sette (il magazine del Corriere) di questa settimana è dedicata
a un anniversario: “Trent’anni fa la Tv inventò la velina (e cambiò l’Italia)”.
Un lungo articolo di Giuseppe Di Piazza mette a fuoco il fenomeno televisivo e
di costume dalle ragazze fast food di
Drive In fino alla farfallina di Belen a Sanremo. Ma il piano mediatico e
quello sociologico vanno separati: ciò che nel Drive In era genialità sulfurea
nella sciatta imitazione quotidiana di una società guardona e schiava dei propri
appetiti diviene solo volgarità tamarra. Ma esiste davvero il prototipo della
velina? Ed esso davvero si coniuga nella coppia stereotipo della bellona
svampita e del calciatore palestrato? E davvero tutte le ragazzine sognano di
diventare veline, meteorine, letterine eccetera?
E’ ovvio che c’è tanto conformismo
in questa lettura ma alcuni passaggi di mentalità hanno davvero messo radici.
Prima che il fenomeno veline degenerasse nel velinismo (di cui parleremo tra
poco) queste ragazze- contorno (parodiate e anticipate dalle ragazze coccodè di
Arbore) altro non furono che la prosecuzione un po’ più sexy e un po’ più
disinibita delle gambe delle Kessler e dell’ombelico rivoluzionario dalla
Carrà. Ma gli anni Ottanta arrivavano anche dopo i luttuosi Settanta. Le veline
rappresentarono, anche, la rivincita della bellezza e della leggerezza, sulla
scia dello stesso sentimento con cui Irene Brin, giornalista di costume di gran
classe, presentava i suoi articoli di moda nel dopoguerra: “La guerra… fu!
Abbiamo riacquistato il diritto di mostrarci frivole, quale sollievo”. La
guerra dei sessi imposta da un femminismo barricadero e poco digerito dagli
strati sociali più inclini all’intrattenimento (che sarà poi la cifra della tv
berlusconiana) aveva lasciato macerie che furono sgomberate anche grazie alle
veline. Il femminismo che aveva letto Simone de Beauvoir non poteva apprezzare
quel tipo di bellezza (sia pur compressa in una indecente serialità e ridotta a
format). Infatti persino la bellezza viene vista da Simone de Beauvoir come un
compito accessorio affidato dalla società borghese alle donne in quanto
null’altro saprebbero fare se non assolvere al compito della rappresentanza. Ma
noi sappiamo oggi che questa ostilità è stata per sempre smussata: le donne non
cercano più solo di piacere agli uomini ma di piacersi e basta. E la bellezza,
coniugata con lo stile però e non con un vano sculettamento, viene ormai vista
anche come ingrediente fondamentale di una carriera riuscita. Nel suo libro Streghe Lilli Gruber intervista la
direttrice italiana della rivista Vogue,
Franca Sozzani, la quale propone, tra il serio e il faceto, la detrazione
fiscale delle spese sostenute dal parrucchiere perché per una manager essere
sempre curata, perfetta, gradevole, è una sorta di “dovere professionale”.
Questo per dire quanto siamo distanti ormai da certo femminismo che individuava
nella bellezza un orpello affibbiato al genere femminile dall’oppressivo
maschio borghese. Le veline da sole non potevano realizzare tutto ciò, ma hanno
dato un contributo importante.
Detto questo, il salto di qualità
(verso il basso) si è realizzato quando si è preteso di esportare il modello
veline nella politica femminile (e questo è ciò che si chiama comunemente
velinismo) senza che le donne del Pdl provenienti da destra dicessero una
parola in difesa di una tradizione culturale incompatibile con questi
atteggiamenti. E non si dica che in An valeva lo stesso tipo di sudditanza
culturale rispetto al berlusconismo perché ancora negli anni Novanta le ragazze
del Centro Studi Futura potevano organizzare con successo un convegno in cui
prendevano le distanze dall’idea che la donna di destra fosse la rampante in
carriera stile Letizia Moratti o la vandeana con il crocifisso stile Irene
Pivetti. La donna cui si deve la mancata invasione di veline nelle liste delle
elezioni europee del 2008 è la signora Veronica Lario. Le altre, tutte e senza
nessuna eccezione, sono rimaste zitte.
Ciò che accadde in quel frangente
è interessante perché fu allora che comincia la saldatura a livello profondo,
prepolitico e antropologico, tra un certo luogocomunismo di destra e la vulgata
berlusconiana. Sarà in quei frangenti che Libero
comincia a fare titoli sulle “veline ingrate” (la Lario appunto, ritratta
durante un’esibizione teatrale a seno nudo) e sulle “questioni di gnocca”. Sarà
ancora in quel frangente che Vittorio Feltri teorizza che tutti gli italiani,
soprattutto gli elettori di centrodestra, sognano in segreto di fare sesso con
diciottenni procaci come Noemi Letizia (poi arriverà Ruby) scelte su appositi
book fotografici. La quintessenza del pensiero di destra sulla donna si
esaurisce in una battuta di Berlusconi sgorgata da un’intercettazione: “La
patonza deve girare”.
Un’annotazione personale: questa
tesi di Feltri secondo cui gli elettori di Berlusconi in realtà lo ammiravano e
lo invidiavano per il suo inesauribile priapismo mi apparve così degradante che
scrissi sul Secolo un editoriale in
cui contestavo radicalmente l’idea. “Ma Feltri è così sicuro che gli italiani
siano condannati ad essere dipinti, in quanto politicamente orientati a destra,
come satiri incalliti anche se hanno l’età per portare i nipotini alle
altalene? Quale immagine ha mai dell’italiano il direttore di Libero? E soprattutto quale immagine ha
dell’italiano che vota a destra e che ha sempre coltivato come suoi riferimenti
etici i valori dell’onestà, del saper stare al proprio posto, dell’amore per il
proprio Paese, della sobrietà, della spiritualità?”. L’articolo, che mi fu
possibile scrivere grazie alla direzione Perina-Lanna, contribuì a creare attorno
al Secolo la leggenda che la testata
si spostava a sinistra mentre si spostava solo su legittime posizioni
antiberlusconiane. La Russa e Gasparri furono interpellati su quell’articolo e
risposero: “C’è del vero, ma tanto il Secolo non lo legge nessuno…”. I berlusconiani asserirono che il Secolo aveva un'idea della destra noiosa e antiquata. Ma non mi
dilungo se non per dire che la nostra, quella del Secolo di allora, seguito poi da un articolo di Sofia Ventura su
Farefuturo, fu l’unica e la sola voce contraria a un fenomeno che poi avrebbe
portato in consiglio regionale Nicole Minetti e che sarebbe degenerato nelle
olgettine e che pavrebbe prodotto come contromossa risposte culturali di
pessimo livello come le mutande agitate da Ferrara, gli articoli di Sgarbi che
definiva le mogli di tutti i tempi e di tutte le latitudini come “mantenute”
fino alla recente t-shirt con la scritta “Siamo tutti puttane”.
Questa è stata la progressiva
involuzione dell’idea di femmina coltivata a destra e che si è incarnata prima
nelle veline e da ultimo nelle olgettine anche se tra le due categorie non vi è
alcuna parentela. Le prime infatti fanno spettacolo, le seconde fanno
commercio. Ciò che di genuinamente innovativo le veline avevano introdotto
nell’Italia che usciva dalla pesantezza ideologica degli anni di piombo è stato
vanificato dalle papi girls. Un modello che ha distrutto anche la fragile
ambizione, da destra, di costruire una cultura femminile antitetica al machismo
a torto identificato con una parte politica e invece ramificato nel costume
italico delle chiacchiere da bar tra maschi. Chi a destra coltivava questa
ambizione non aveva fatto i conti con due cose: con ciò che nel femminismo
c’era di giusto e sacrosanto e con il fatto che gli uomini, quando devono
seguire la causa padronale, sono di una coerenza spietata. Quanto alle donne,
quelle di questa parte, use a obbedir tacendo, si sono lasciate mettere
nell’angolo e oggi, oltre a dover sottostare ai rispettivi capicorrente (sempre
maschi) devono lasciare i posti di prima fila alle ex ragazze di Forza Italia,
le Cenerentole miracolate dalla bacchetta magica di Arcore. Ma noi, i fasci
cosiddetti, eravamo zucche (questa fu l’espressione usata dal Cavaliere).
Quindi, che ti dovevi aspettare di più?
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