sabato 13 luglio 2013

Trent'anni fa le veline in tv: così hanno cambiato l'Italia e anche l'idea di femmina a destra




Annalisa Terranova

La copertina di Sette (il magazine del Corriere) di questa settimana è dedicata a un anniversario: “Trent’anni fa la Tv inventò la velina (e cambiò l’Italia)”. Un lungo articolo di Giuseppe Di Piazza mette a fuoco il fenomeno televisivo e di costume dalle ragazze fast food  di Drive In fino alla farfallina di Belen a Sanremo. Ma il piano mediatico e quello sociologico vanno separati: ciò che nel Drive In era genialità sulfurea nella sciatta imitazione quotidiana di una società guardona e schiava dei propri appetiti diviene solo volgarità tamarra. Ma esiste davvero il prototipo della velina? Ed esso davvero si coniuga nella coppia stereotipo della bellona svampita e del calciatore palestrato? E davvero tutte le ragazzine sognano di diventare veline, meteorine, letterine eccetera?
E’ ovvio che c’è tanto conformismo in questa lettura ma alcuni passaggi di mentalità hanno davvero messo radici. Prima che il fenomeno veline degenerasse nel velinismo (di cui parleremo tra poco) queste ragazze- contorno (parodiate e anticipate dalle ragazze coccodè di Arbore) altro non furono che la prosecuzione un po’ più sexy e un po’ più disinibita delle gambe delle Kessler e dell’ombelico rivoluzionario dalla Carrà. Ma gli anni Ottanta arrivavano anche dopo i luttuosi Settanta. Le veline rappresentarono, anche, la rivincita della bellezza e della leggerezza, sulla scia dello stesso sentimento con cui Irene Brin, giornalista di costume di gran classe, presentava i suoi articoli di moda nel dopoguerra: “La guerra… fu! Abbiamo riacquistato il diritto di mostrarci frivole, quale sollievo”. La guerra dei sessi imposta da un femminismo barricadero e poco digerito dagli strati sociali più inclini all’intrattenimento (che sarà poi la cifra della tv berlusconiana) aveva lasciato macerie che furono sgomberate anche grazie alle veline. Il femminismo che aveva letto Simone de Beauvoir non poteva apprezzare quel tipo di bellezza (sia pur compressa in una indecente serialità e ridotta a format). Infatti persino la bellezza viene vista da Simone de Beauvoir come un compito accessorio affidato dalla società borghese alle donne in quanto null’altro saprebbero fare se non assolvere al compito della rappresentanza. Ma noi sappiamo oggi che questa ostilità è stata per sempre smussata: le donne non cercano più solo di piacere agli uomini ma di piacersi e basta. E la bellezza, coniugata con lo stile però e non con un vano sculettamento, viene ormai vista anche come ingrediente fondamentale di una carriera riuscita. Nel suo libro Streghe Lilli Gruber intervista la direttrice italiana della rivista Vogue, Franca Sozzani, la quale propone, tra il serio e il faceto, la detrazione fiscale delle spese sostenute dal parrucchiere perché per una manager essere sempre curata, perfetta, gradevole, è una sorta di “dovere professionale”. Questo per dire quanto siamo distanti ormai da certo femminismo che individuava nella bellezza un orpello affibbiato al genere femminile dall’oppressivo maschio borghese. Le veline da sole non potevano realizzare tutto ciò, ma hanno dato un contributo importante.



Detto questo, il salto di qualità (verso il basso) si è realizzato quando si è preteso di esportare il modello veline nella politica femminile (e questo è ciò che si chiama comunemente velinismo) senza che le donne del Pdl provenienti da destra dicessero una parola in difesa di una tradizione culturale incompatibile con questi atteggiamenti. E non si dica che in An valeva lo stesso tipo di sudditanza culturale rispetto al berlusconismo perché ancora negli anni Novanta le ragazze del Centro Studi Futura potevano organizzare con successo un convegno in cui prendevano le distanze dall’idea che la donna di destra fosse la rampante in carriera stile Letizia Moratti o la vandeana con il crocifisso stile Irene Pivetti. La donna cui si deve la mancata invasione di veline nelle liste delle elezioni europee del 2008 è la signora Veronica Lario. Le altre, tutte e senza nessuna eccezione, sono rimaste zitte.
Ciò che accadde in quel frangente è interessante perché fu allora che comincia la saldatura a livello profondo, prepolitico e antropologico, tra un certo luogocomunismo di destra e la vulgata berlusconiana. Sarà in quei frangenti che Libero comincia a fare titoli sulle “veline ingrate” (la Lario appunto, ritratta durante un’esibizione teatrale a seno nudo) e sulle “questioni di gnocca”. Sarà ancora in quel frangente che Vittorio Feltri teorizza che tutti gli italiani, soprattutto gli elettori di centrodestra, sognano in segreto di fare sesso con diciottenni procaci come Noemi Letizia (poi arriverà Ruby) scelte su appositi book fotografici. La quintessenza del pensiero di destra sulla donna si esaurisce in una battuta di Berlusconi sgorgata da un’intercettazione: “La patonza deve girare”.
Un’annotazione personale: questa tesi di Feltri secondo cui gli elettori di Berlusconi in realtà lo ammiravano e lo invidiavano per il suo inesauribile priapismo mi apparve così degradante che scrissi sul Secolo un editoriale in cui contestavo radicalmente l’idea. “Ma Feltri è così sicuro che gli italiani siano condannati ad essere dipinti, in quanto politicamente orientati a destra, come satiri incalliti anche se hanno l’età per portare i nipotini alle altalene? Quale immagine ha mai dell’italiano il direttore di Libero? E soprattutto quale immagine ha dell’italiano che vota a destra e che ha sempre coltivato come suoi riferimenti etici i valori dell’onestà, del saper stare al proprio posto, dell’amore per il proprio Paese, della sobrietà, della spiritualità?”. L’articolo, che mi fu possibile scrivere grazie alla direzione Perina-Lanna, contribuì a creare attorno al Secolo la leggenda che la testata si spostava a sinistra mentre si spostava solo su legittime posizioni antiberlusconiane. La Russa e Gasparri furono interpellati su quell’articolo e risposero: “C’è del vero, ma tanto il Secolo non lo legge nessuno…”. I berlusconiani asserirono che il Secolo aveva un'idea della destra noiosa e antiquata. Ma non mi dilungo se non per dire che la nostra, quella del Secolo di allora, seguito poi da un articolo di Sofia Ventura su Farefuturo, fu l’unica e la sola voce contraria a un fenomeno che poi avrebbe portato in consiglio regionale Nicole Minetti e che sarebbe degenerato nelle olgettine e che pavrebbe prodotto come contromossa risposte culturali di pessimo livello come le mutande agitate da Ferrara, gli articoli di Sgarbi che definiva le mogli di tutti i tempi e di tutte le latitudini come “mantenute” fino alla recente t-shirt con la scritta “Siamo tutti puttane”.



Questa è stata la progressiva involuzione dell’idea di femmina coltivata a destra e che si è incarnata prima nelle veline e da ultimo nelle olgettine anche se tra le due categorie non vi è alcuna parentela. Le prime infatti fanno spettacolo, le seconde fanno commercio. Ciò che di genuinamente innovativo le veline avevano introdotto nell’Italia che usciva dalla pesantezza ideologica degli anni di piombo è stato vanificato dalle papi girls. Un modello che ha distrutto anche la fragile ambizione, da destra, di costruire una cultura femminile antitetica al machismo a torto identificato con una parte politica e invece ramificato nel costume italico delle chiacchiere da bar tra maschi. Chi a destra coltivava questa ambizione non aveva fatto i conti con due cose: con ciò che nel femminismo c’era di giusto e sacrosanto e con il fatto che gli uomini, quando devono seguire la causa padronale, sono di una coerenza spietata. Quanto alle donne, quelle di questa parte, use a obbedir tacendo, si sono lasciate mettere nell’angolo e oggi, oltre a dover sottostare ai rispettivi capicorrente (sempre maschi) devono lasciare i posti di prima fila alle ex ragazze di Forza Italia, le Cenerentole miracolate dalla bacchetta magica di Arcore. Ma noi, i fasci cosiddetti, eravamo zucche (questa fu l’espressione usata dal Cavaliere). Quindi, che ti dovevi aspettare di più?    



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