Francesco
Pullia
Da
un po’ di tempo anche da noi si parla di animalismo e antispecismo con
dibattiti che, purtroppo, scadono nell’autoreferenzialità e nella smania di
protagonismo di chi, con manifesta passione per l’onanismo intellettuale, li
suscita senza apportare il minimo di beneficio a coloro che dovrebbero maggiormente
esserne interessati, vale a dire gli animali non umani che, dagli allevamenti
intensivi alle filiere alimentari, continuano ad essere vittime di un olocausto
quotidiano. Ovviamente, come è sempre accaduto con le migliori idealità
(Sessantotto docet!), non manca chi cerchi di fagocitare in chiave ideologica,
settaria, para-marxista, un movimento che è, invece, spontaneo, sensibilmente
in crescita, scaturito dall’esigenza di riconsiderare, a partire da precise
scelte individuali, il ruolo di quella soggettività antropocentrica arrogante,
pretestuosamente e violentemente egoista, il cui smantellamento ha avuto in
Occidente il suo punto focale in Nietzsche con ripercussioni in gran parte del
pensiero del Novecento.
Eppure
ci sembra che, nonostante tanto blaterare, gli eventi del secolo da non molto
concluso parlino da soli, facendo giustizia sommaria delle grandi infatuazioni,
o narrazioni se si preferisce, che hanno letteralmente reciso vite e speranze
spargendo ovunque sangue e disastri. Tra le tutte le affabulazioni, quella
marxista, comunista per intenderci, è senza dubbio la più grave e subdola
rappresentando il compimento della visione metafisica che, da Aristotele in
avanti, con appigli ben fermi nella distorsione del razionalismo cartesiano, ha
unilateralmente e surrettiziamente collocato l’essere umano sul piedistallo,
rendendolo despota incondizionato, impunito autore di crimini inauditi
perpetrati ai danni delle altre specie e della natura stessa.
Non
può che rivelarsi, pertanto, impresa ardua e fallace, oltre che spregevole, il
tentativo di ricondurre l’antispecismo, cioè la ribellione aperta al razzismo
antropocentrico che ha legittimato i soprusi commessi dall’uomo nei confronti
degli altri animali, nell’orbita di un pensiero massificante la cui portata
ingannevole si è storicamente esplicitata in efferato totalitarismo.
Tra
l’altro in Marx, per non parlare della declinazione leninista del marxismo, non
si riscontrano affatto accenni alla destituzione dell’uomo dall’ambito che, nel
corso della storia, si è (pre)costituito a scapito delle altre specie viventi.
Anzi, la concezione materialistica, ossessionata dall’economicismo e infatuata
dalla finalità di livellare socialmente tutti in modo forzoso, si dimostra
quanto mai sprezzante con gli animali non umani e incapace di comprendere la
loro condizione. È innegabile che il sistema comunista, al pari di quello
nazista, abbia il suo cardine nel gulag (speculare al lager), nel laogai
cinese, nell’universo concentrazionario di cui gli allevamenti intensivi non
sono altro che estensione. E non è un caso che a negare l’equiparazione tra
olocausto animale e olocausto etnico sia proprio chi, arrampicandosi sugli
specchi e con saccenteria, si sforzi dannatamente di mettere l’antispecismo
sotto l’ombrello comunista. Ci si chiede come si possa definire altrimenti la
tragicità della condizione animale se non in termini di olocausto, come si
possa, a meno che ci sia obnubilati dall’ideologia, negare il totalitarismo che
ogni giorno celebra i suoi fasti, il proprio dominio con il massacro,
l’occultamento e l’annientamento dell’altro.
Il
filosofo italiano Aldo Capitini, animalista e antispecista ante litteram, come Edmondo Marcucci d’altronde, aveva già messo in
guardia da qualsiasi indebita appropriazione ideologica dell’istanza di
liberazione che accomuna ogni essere vivente nel pianeta. L’antispecismo sorge
in lui in perfetta sintonia con l’antitotalitarismo che ne animò il pensiero
(rendendolo tremendamente attuale). La sua scelta vegetariana (che per un antispecista
non può essere irrisoria, secondaria) va interpretata e compresa come inerente
all’orientamento liberalsocialista e nonviolento di cui si fece strenuo
assertore. La sua prospettiva liberante è tutt’uno con la religiosità aperta
(altro che la limitatezza del materialismo!), con la chiamata alla
corresponsabilità nella compresenza di ogni essere, anche di chi è
ritenuto “improduttivo” o è morto, vale a dire al concorso di ognuno, al di là
dell’appartenenza ad una specie, alla creazione di “aggiunte”, di una realtà
che è di per sé foriera di molteplici interpretazioni e non di rigida
fattualità.
La soggettività capitiniana
trae paradossalmente il suo punto di forza dal proprio decentramento (altro che
debolezza!), cioè dalla destituzione da artificiosi fondamenti. È vivificata
dalla consapevolezza del legame d’inter(in)dipendenza che ispira l’Uno-Tutti e
relaziona ogni aspetto dell’esserci. La visione capitiniana può risultare
difficile non perché inattuabile ma perché scomoda. Non è casuale che il filosofo
perugino abbia preferito Carlo Michelstaedter al barbuto e tronfio Marx… Certi
antispecisti farebbero bene ad accostarsi con umiltà al suo pensiero e alla sua
azione militante. Ne trarrebbero aiuto per risalire la scivolosa china in cui
sono sprofondati.
Nessun commento:
Posta un commento