sabato 6 luglio 2013

Le lacrime degli eroi: il viaggio di Omero nella sofferenza che fa conoscere



Annalisa Terranova

Ci sono lacrime e lacrime. C’è il pianto del sensazionalismo mediatico e c’è il pianto tragico che diviene “autorità educativa”, insegnamento sull’uomo e le sue emozioni e persino fonte di vita nuova. Lo spiega Matteo Nucci nel suo bel saggio Le lacrime degli eroi (Einaudi) da poco uscito dove, tra la pagine dell’Odissea e dell’Iliade, incontriamo figure imponenti del mito classico che, tra singhiozzi e dolore, portano avanti la loro missione interiore. Sono, le loro, lacrime esemplari. Appaiono fragili e ripiegati su se stessi ma il lettore sa che non lo sono: solo i veri eroi possono abbandonarsi all’emozione del cuore. Solo loro possono “scegliere” quando e in presenza di chi farlo. A dispetto dell’etica platonica che vedeva in quei lamenti atteggiamenti da donnicciole.
Spesso Odisseo fa scorrere le lacrime, egli – scrive Nucci – “è l’uomo che guarda solo al mare, mescolando il liquido delle sue lacrime al liquido del mare immenso, preparando la sua intelligenza liquida e fluida, corroborando la sua memoria liquida e fluida”. È lui che stabilisce il canone della conoscenza attraverso la sofferenza e la conoscenza gli renderà possibile il ritorno a Itaca.



Il riconoscimento di Odisseo e dei suoi cari è segnato dalle lacrime: con Telemaco (“Il padre tuo sono, per cui singhiozzando soffri tanti dolori per le violenze dei principi. Così dicendo baciò il figlio e per le guance il pianto a terra scorreva); con il cane Argo (“Là giaceva il cane Argo, pieno di zecche. E allora, come sentì vicino Odisseo, mosse la coda, abbassò le due orecchie, ma non potè correre incontro al padrone. E il padrone, voltandosi, si terse una lacrima”);con Penelope (“così parlò, e a lei di colpo si sciolsero le ginocchia e il cuore, perché conobbe il segno sicuro che Odisseo le diceva; e piangendo corse a lui, dritta, le braccia gettò intorno al collo a Odisseo, gli baciò il capo” e “a lui venne più grande la voglia di pianto”). Lacrime che si contrappongono al riso scomposto e isterico dei Proci: “Ridevano allora di un riso involontario, inconsulto, mangiavano carni insanguinate; ma i loro occhi erano pieni di lacrime, l’animo pianto voleva”.
Altre lacrime, quelle di Achille che apprende della morte di Patroclo, sono liberatorie del furore mortifero che ha impedito all’eroe di combattere accanto ai suoi compagni. Sono lacrime che sciolgono la “notte oscura” dell’anima: “Una nube di strazio, nera, l’avvolse: con tutte e due le mani prendendo la cenere arsa se la versò sulla testa, insudiciò il volto bello; la cenere nera sporcò la tunica nettarea, e poi nella polvere, grande, per gran tratto disteso, giacque, e sfigurava con le mani i capelli, strappandoli. Le schiave, che Achille e Patroclo si erano conquistati, straziate in cuore, ulularono, corsero fuori, intorno ad Achille, cuore ardente; e con le mani tutte battevano il petto, a tutte, sotto, le gambe si sciolsero. Antiloco gemeva dall’altra parte, versando lacrime, tenendo le mani d’Achille che singhiozzava nel petto glorioso: aveva paura che si tagliasse la gola col ferro”.



Ma dove Matteo Nucci accompagnandoci tra scene di pianto e  di commozione ravvisa un nucleo tematico fondamentale per comprendere l’Iliade è dove si contrappone il destino degli immortali a quello tragico a caduco dell’uomo destinato a perire: è la scena in cui piangono i cavalli immortali di Achille, assistendo alla morte del loro auriga Patroclo: “Così restavano immobili, col carro bellissimo, in terra appoggiando le teste; e lacrime calde cadevano giù dalle palpebre, scorrevano in terra…”. Versi che si collegano al commento della filosofa Simone Weil sull’Iliade come poema della forza, in cui la violenza stritola tutto ciò che tocca e la morte diviene reificazione di quelli che prima erano eroi, e del resto, dice Simone Weil,  “quasi tutta la vita umana si è sempre svolta lontano dai bagni caldi”. Giove, vedendo i cavalli immortali piangere, commenta: “Non c’è nulla più degno di pianto dell’uomo”. L’Iliade, ci dice ancora Simone Weil, ci ricorda la sorte tragica dell’uomo, la sua sottomissione alla forza, cioè alla materia. Per questo persino Zeus, dinanzi alla sorte di Ettore, sente il cuore sciogliersi nel pianto.

Ma il vero pianto catartico è quello di Achille e Priamo, l’anziano re che si reca nella tenda dell’eroe per chiedere che gli venga restituito il corpo del figlio Ettore: “Immersi entrambi nel ricordo, l’uno per Ettore massacratore piangeva a dirotto prostrato ai piedi di Achille, mentre Achille piangeva suo padre, ma a tratti anche Patroclo: il loro lamento echeggiava per la casa”. Qui, più che in ogni altra pagina del poema, non ci sono più buoni e cattivi, ma soltanto uomini che soffrono. 



Quando Omero si perde nel passato ai suoi eroi che si strappano i capelli e esplodono nell’ira e nel pianto si sostituisce, spiega Nucci, l’uomo ordinato e proporzionato, perfetto, il kouros del VII sec. A.C. al limite tra l’umano e il divino, destinato all’iniziazione. Ma “non c’è più vita vera, qui. Non c’è più la realtà, il dolore, la sofferenza che portano a conoscere. C’è un sorriso di meraviglia, ormai. O una smorfia attonita. E nulla più. L’epoca degli eroi, degli uomini che sapevano piangere, uomini tanto consapevoli della loro umanità che non potevano vergognarsi delle proprie lacrime, quell’epoca è finita per sempre”.     

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