Annalisa Terranova
Ci sono lacrime e lacrime. C’è il pianto del sensazionalismo
mediatico e c’è il pianto tragico che diviene “autorità educativa”,
insegnamento sull’uomo e le sue emozioni e persino fonte di vita nuova. Lo
spiega Matteo Nucci nel suo bel saggio Le
lacrime degli eroi (Einaudi) da poco uscito dove, tra la pagine
dell’Odissea e dell’Iliade, incontriamo figure imponenti del mito classico che,
tra singhiozzi e dolore, portano avanti la loro missione interiore. Sono, le
loro, lacrime esemplari. Appaiono fragili e ripiegati su se stessi ma il
lettore sa che non lo sono: solo i veri eroi possono abbandonarsi all’emozione
del cuore. Solo loro possono “scegliere” quando e in presenza di chi farlo. A
dispetto dell’etica platonica che vedeva in quei lamenti atteggiamenti da
donnicciole.
Spesso Odisseo fa scorrere le lacrime, egli – scrive Nucci –
“è l’uomo che guarda solo al mare, mescolando il liquido delle sue lacrime al
liquido del mare immenso, preparando la sua intelligenza liquida e fluida,
corroborando la sua memoria liquida e fluida”. È lui che stabilisce il canone
della conoscenza attraverso la sofferenza e la conoscenza gli renderà possibile
il ritorno a Itaca.
Il riconoscimento di Odisseo e dei suoi cari è segnato
dalle lacrime: con Telemaco (“Il padre tuo sono, per cui singhiozzando soffri
tanti dolori per le violenze dei principi. Così dicendo baciò il figlio e per
le guance il pianto a terra scorreva); con il cane Argo (“Là giaceva il cane
Argo, pieno di zecche. E allora, come sentì vicino Odisseo, mosse la coda,
abbassò le due orecchie, ma non potè correre incontro al padrone. E il padrone,
voltandosi, si terse una lacrima”);con Penelope (“così parlò, e a lei di colpo
si sciolsero le ginocchia e il cuore, perché conobbe il segno sicuro che
Odisseo le diceva; e piangendo corse a lui, dritta, le braccia gettò intorno al
collo a Odisseo, gli baciò il capo” e “a lui venne più grande la voglia di
pianto”). Lacrime che si contrappongono al riso scomposto e isterico dei Proci:
“Ridevano allora di un riso involontario, inconsulto, mangiavano carni
insanguinate; ma i loro occhi erano pieni di lacrime, l’animo pianto voleva”.
Altre lacrime, quelle di Achille che apprende della morte di
Patroclo, sono liberatorie del furore mortifero che ha impedito all’eroe di
combattere accanto ai suoi compagni. Sono lacrime che sciolgono la “notte
oscura” dell’anima: “Una nube di strazio, nera, l’avvolse: con tutte e due le
mani prendendo la cenere arsa se la versò sulla testa, insudiciò il volto
bello; la cenere nera sporcò la tunica nettarea, e poi nella polvere, grande,
per gran tratto disteso, giacque, e sfigurava con le mani i capelli,
strappandoli. Le schiave, che Achille e Patroclo si erano conquistati,
straziate in cuore, ulularono, corsero fuori, intorno ad Achille, cuore ardente;
e con le mani tutte battevano il petto, a tutte, sotto, le gambe si sciolsero.
Antiloco gemeva dall’altra parte, versando lacrime, tenendo le mani d’Achille
che singhiozzava nel petto glorioso: aveva paura che si tagliasse la gola col
ferro”.
Ma dove Matteo Nucci accompagnandoci tra scene di pianto e di commozione ravvisa un nucleo tematico fondamentale
per comprendere l’Iliade è dove si contrappone il destino degli immortali a
quello tragico a caduco dell’uomo destinato a perire: è la scena in cui piangono
i cavalli immortali di Achille, assistendo alla morte del loro auriga Patroclo:
“Così restavano immobili, col carro bellissimo, in terra appoggiando le teste;
e lacrime calde cadevano giù dalle palpebre, scorrevano in terra…”. Versi che
si collegano al commento della filosofa Simone Weil sull’Iliade come poema
della forza, in cui la violenza stritola tutto ciò che tocca e la morte diviene
reificazione di quelli che prima erano eroi, e del resto, dice Simone
Weil, “quasi tutta la vita umana si è
sempre svolta lontano dai bagni caldi”. Giove, vedendo i cavalli immortali
piangere, commenta: “Non c’è nulla più degno di pianto dell’uomo”. L’Iliade, ci
dice ancora Simone Weil, ci ricorda la sorte tragica dell’uomo, la sua
sottomissione alla forza, cioè alla materia. Per questo persino Zeus, dinanzi
alla sorte di Ettore, sente il cuore sciogliersi nel pianto.
Ma il vero pianto catartico è quello di Achille e Priamo,
l’anziano re che si reca nella tenda dell’eroe per chiedere che gli venga
restituito il corpo del figlio Ettore: “Immersi entrambi nel ricordo, l’uno per
Ettore massacratore piangeva a dirotto prostrato ai piedi di Achille, mentre
Achille piangeva suo padre, ma a tratti anche Patroclo: il loro lamento
echeggiava per la casa”. Qui, più che in ogni altra pagina del poema, non ci
sono più buoni e cattivi, ma soltanto uomini che soffrono.
Quando Omero si
perde nel passato ai suoi eroi che si strappano i capelli e esplodono nell’ira
e nel pianto si sostituisce, spiega Nucci, l’uomo ordinato e proporzionato,
perfetto, il kouros del VII sec. A.C. al limite tra l’umano e il divino,
destinato all’iniziazione. Ma “non c’è più vita vera, qui. Non c’è più la
realtà, il dolore, la sofferenza che portano a conoscere. C’è un sorriso di
meraviglia, ormai. O una smorfia attonita. E nulla più. L’epoca degli eroi,
degli uomini che sapevano piangere, uomini tanto consapevoli della loro umanità
che non potevano vergognarsi delle proprie lacrime, quell’epoca è finita per
sempre”.
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