venerdì 22 marzo 2013

Quando Sergio Caputo cantò: “Il peggio sembra essere passato”



Luciano Lanna
Proprio in questi giorni di primavera, ma esattamente in quelli di trent’anni fa, nel 1983, non solo sulle radio, sui juke-boxes (che ancora c’erano), ma anche con i primi videoclip e nei negozi di dischi, irrompeva Un sabato italiano, il primo sorprendente album di Sergio Caputo, cantautore e musicista romano che aveva allora ventinove anni. Lo swing la faceva da padrone in quei splendidi e coinvolgenti dieci pezzi, e in generale l’atmosfera che si respirava era completamente diversa da quella comunicata sino ad allora dalla musica italiana, soprattutto dal genere cantautorale. L’io narrante dei brani sembrava essere un autentico cantante di night club, dedito dunque suo malgrado alla vita notturna e per questo capace di sviluppare un punto di vista atipico e meno illusorio del cittadino comune, dal quale tuttavia non sembrava prendere le distanze, forse perché il suo lavoro era frutto di necessità e non di vocazione. E dello spirito dell’epoca quel disco rispecchiava al meglio la voglia di cambiare perché Caputo  cantava esplicitamente così: “Il peggio sembra essere passato...”.
La copertina dell’album è inconfondibile e ritrae Sergio Caputo davanti a un bar che si allora trovava a Piazza Cavour a Roma (dove ora è situata la multisala Adriano) e che prima era più semplicemente il cinema Adriano con annesso bar. Sul retrocopertina è indicata una serie di cocktail o bevande, abbinati con ciascuna canzone, con relative ricette, i cui nomi sono talvolta inclusi anche nel testo stesso. Segno che la cultura dell’impegno ideologizzato e del “tutto è politica” avevano già preso congedo dall’immaginario giovanile.
Era intanto evidente la vocazione non-conformista di Caputo. Un profilo che il musicista qualche anno fa ha tratteggiato in un personaggio di fantasia, Max Paesani, protagonista del suo romanzo autobiografico Disperatamente (e in ritardo cane) ­– edito da Mondadori – in cui ha mescolato verità autobiografica e guizzi di fantasia per raccontare l’epopea di un personaggio che – come si legge sul risvolto di copertina – «gli assomiglia molto». Ex pop star di successo degli anni Ottanta, l’eroe del romanzo si è ritirato da anni in California, torna in Italia ogni anno per una piccola tournée, e per pochi giorni ridiventa quello di una volta: in jeans, giubbotto di pelle, Ray-Ban e la chitarra in mano.
«Il peggio sembra essere passato» cantava appunto Sergio Caputo in Un sabato italiano già nel 1983, fotografando una situazione in cui, dopo gli anni dell’impegno a tutti i costi e a tutte le ore, arrivavano finalmente sabati qualunque e notti che, “come dirigibili”, iniziavano a portarci via lontano. Erano quelli gli anni di un «adorato popolo della notte che come me – scrive il cantautore nel suo romanzo – cominciava a strisciare fuori dai suoi recessi sepolcrali intorno alle 23, per farvi ritorno solo un attimo prima dell’alba. Una generazione incompresa di vampiri romantici che si mordevano esclusivamente fra loro e s’innamoravano gli uni degli altri giurandosi di non cambiare mai, solo per ritrovarsi, quasi trent’anni dopo, dispersi e inariditi in chissà quale pianeta della galassia, prigionieri come me nella vita di qualcun altro…».
D’altronde, anche il romanzo Disperatamente (e in ritardo cane) è un omaggio appassionato alla generazione di chi oggi ha pressappoco cinquant'anni. «Un ventenne nel cervello di un uomo di mezza età» si definisce il protagonista del, che ricorda con nostalgia la sua giovinezza: «…quando la mia esistenza era incredibilmente facile e nel futuro c’erano solo promesse. Erano gli anni Ottanta, nel bene e nel male. E tutto poteva ancora essere, tutto poteva ancora succedere. E, poi, semplicemente, tutto è successo». Erano gli anni in cui l’Italia trovava la sua «respirazione artificiale per resuscitare il vecchio buon umore». Una boccata d’aria in grado di far superare i legami, talvolta ingombranti, con il decennio precedente. Come all’epoca ammetteva lo stesso Caputo cantando – in un’altra canzone presente nello stesso album: Bimba se sapessi (ma nota anche come Citrosodina…) con parole tutt’altro che casuali: «Io con questa faccia e il mio passato da dimenticare». Sergio, infatti, già allora parlava con cognizione di causa. Anche nel decennio precedente, giovanissimo, non era stato uno di quelli rimasti a guardare dal balcone: gli anni ’70 lo avevano visto partecipe, anche se dalla cosiddetta “altra parte della strada”, a scandire il suo impegno leggendo Allen Ginsberg, Gregory Corso, Hemingway, Bukowski e i Cantos di Ezra Pound. La sua era una battaglia non-conformistica «contro – scriveva nella rivista studentesca romana L’Alternativa, molto vicina al Fronte della gioventù, di cui lui era ideatore, grafico e vignettista – gli apriorismi delle filosofie e delle ideologie, contro la società dei consumi, contro la repressione psicologica operata dai persuasori occulti, contro l’inattuale staticità delle ripartizioni politiche, contro la reazione, contro il liberalismo, contro il livellamento, contro la massificazione…». In suo articolo di quegli anni Sergio si schierava senza esitazione dalla parte della contestazione del ’68 che, a suo dire, «aveva evidenziato i problemi delle nuove generazioni, insofferenti e stanche di una società nella quale non si riconoscevano, incapaci di affrontare e soddisfare le loro esigenze sociali e culturali». Dopo di che fissava un preciso riferimento esistenziale e letterario nel «vasto e valido fermento giovanile degli anni ’50, di cui si era fatto portatore lo scrittore americano Jack Kerouac». Numerose le tracce lasciate dal Caputo degli anni studenteschi e del suo locale “Il Covo” di Corso Francia: poster, manifesti, adesivi, fumetti… E’ stato disegnato proprio da Caputo il celebre poster con il profilo di Ezra Pound e la frase “se un uomo non intende correre qualche rischio per le sue idee, o le sue idee non valgono niente o non vale niente lui…”. Poi, ovviamente, la musica. Il suo stesso primo singolo, Libertà dove sei, nasceva in qualche modo da quei fermenti e da quelle passioni (basta andare su YouTube per riascoltarla e capirne il senso…).
Sia ben chiaro: qualche eco di tutto questo è affiorato negli anni non solo nella sua musica ma anche nel romanzo autobiografico. «Io lavoravo come copyrighter free lance e me la cavavo bene… passavamo lunghe serate a ipotizzare nuovi stili musicali, disquisire di futuri mezzi di comunicazione, dell’interazione fra diverse forme d’arte d’arte», spiega di quegli anni Max Paisani, aggiungendo che lui in quel fermento era capace di riuscire a far convivere parallelamente – e simultaneamente – anche situazioni apparentemente contrapposte «che in qualche modo condividevano la stessa zona spazio-temporale, ma che secondo me non sarebbero state compatibili tra loro, e io riuscivo a passare disinvoltamente dall’una all’altra senza subire grossi danni a livello cerebrale». Innegabile il riferimento autobiografico all’avvio della stagione freak dello stesso Caputo, quando cominciò a suonare e cantare prima al Convento Occupato, poi al Murales, infine al Folk Studio. E qui – vera e propria palestra della cosiddetta scuola romana dei cantautori – incontrerà il suo “scopritore”, il musicista-giornalista Ernesto Bassignano (il grande Bassinger) e la vocazione musicale prende il sopravvento.
«C’era musica dappertutto, e non solo – racconta ancora il protagonista del romanzo – nei locali, anche per la strada. La musica era il collante sociale di quegli anni controversi e difficili, pieni di conflitti ed equivoci culturali. Il più grosso dei quali era il modo in cui i miti della musica e della cultura americana riuscissero a convivere con un viscerale antiamericanismo, tendenza che per quanto mi riguarda era incomprensibile: tutti i miei idoli, da Charlie Parker a Jimi Hendrix, dai poeti beat a Andy Warhol, erano americani… Così come consideravo idiota farsi chiamare hippy e poi andare alle dimostrazioni antiamericane. Ma quelli erano anni strani…». Anni in cui, comunque, «i più svariati e curiosi elementi si mescolarono e si fusero insieme, dal jazz alla poesia sudamericana, dall’hippie al radical chic, dal femminismo militante al sesso libero e spensierato, dall’anticonformismo a un conformismo di segno diverso e non per questo meno fastidioso…». Alla luce anche di questo, in una sorta di «pellegrinaggio retroattivo», il romanzo si dipana in una storia che si legge tutta d’un fiato, scritta con un linguaggio davvero swing e che ricorda le atmosfere e le situazioni delle canzoni più famose di Sergio.
Il messaggio finale del romanzo è esplicito e rappresenta a nostro avviso tutto quello in cui Caputo si riconosce: «Ricordati, finché ci resta tempo da vivere la partita rimane aperta». Perché c’è sempre un’altra possibilità: «Il nostro destino è una cosa, la direzione che la nostra vita prenderà è un’altra». Una lezione che il protagonista del libro sostiene di aver imparato incontrando una volta Keith Richard: «Mi ha insegnato molto, per esempio che non bisogna mai pensare di essere rimasti senza cose da dire. Che non bisogna mai arrendersi alla tentazione di auto-omologarsi...».

1 commento:

  1. Peccato che il peggio, nel 1983, non potevamo neppure intuirlo. Altrimenti sarebbe andata diversamente. Comunque complimenti. Bel pezzo e bella citazione (quella del romanzo di Caputo). Un libro che conosciamo in pochissimi. E che merita.
    Stammi bene.

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