Gennaro
Malgieri
Ho
cercato di guardare al Mediterraneo sempre
con gli occhi dell’uomo
del passato. E mi sono finto
–
dallo scoglio di Malta, alle
rive del Peloponneso, dalle nere spiagge
siciliane, dalle isole egee, alle insenature
turche ai golfi africani – viaggiatore
nello spazio liquido alla ricerca di
rotte antiche sulle quali indirizzare il
mio percorso sentimentale, convinto che è il
Mediterraneo il grembo nel
quale sono stato concepito. Perciò è mare
dell’amore,
sacro come ciò che
dà la
vita e la vita si riprende alla fine. Che poi
io sia occidentale, europeo, greco, romano
e cristiano poco importa. Potrei essere
orientale, asiatico, politeista o islamico.
Oppure scuro di carnagione,
dionisiaco d’indole,
levantino di
costumi. Resterei sempre
mediterraneo: l’identità indiscutibile di
culture e civiltà che
l’uomo del
passato percepiva
non conflittuali
guardando il
suo mare, come
vorrei percepirle
io quando
mi affaccio sullo
stesso mare,
anzi mi getto in esso e da esso mi faccio possedere.
E
vorrei perdermi, con l’antico
osservatore, tra
i flutti o nelle burrasche; riemergere
con lui tra nuove avventure sacrificando
all’unico
Dio senza dimenticare le
divinità
ancestrali dei padri che indirizzarono
le vele verso porti sicuri. E
poi vorrei ritrovarmi tra rovine amate come
dentro casa mia, in compagnia di cantastorie
egizi, fenici, anatolici, africani, ispanici,
greci, dove le pietre scaldano come
le religioni che custodiscono.
Da
Creta alla Sicilia alle Baleari vorrei navigare
in linea retta come i fenici, raccogliendo le
inquietudini del Mediterraneo, ma
senza soffermarmi, con il rischio di
perdermi e congedarmi dalla mia
stessa anima, come Ulisse nei porti della
virtù e
del vizio. Per quanto, da antico
abitante marino, dovrei rendere omaggio
all’eroe
che l’ha
solcato, primo ed
ultimo danzatore sulle onde tra guerre
ed amori. Nessuno di noi, dopo
di lui, tramontata l’età
dell’oro, è
stato una cosa sola con il Mediterraneo. L’alba
è
durata millenni e non s’è mai
visto un altro veleggiare sostenuto da
venti e da Dèi.
Soltanto nel
1571, il 7 ottobre, l’Unico
spinse la Verità
alla vittoria,
servito da don Giovanni d'Austria, da quel giorno Signore di Lepanto e
difensore della Cristianità,
mettendo fine alla più cruenta
guerra civile mediterranea, quella
tra le religioni, le civiltà, le
culture figlie dello stesso mare. Sei
anni prima, gli usurpatori aggressori dell'Europa si erano arenati davanti
a Malta, difesa da un manipolo di
cavalieri con la croce
sul petto.
Oggi
si raccolgono frantumi
sulla superficie liquida
della nostra
storia. E le
parole di Fernand Braudel
acuiscono la
nostalgia per
ciò che
non c’è più o
che non riconosco più: “Che
cos’è il
Mediterraneo? Mille cose
al tempo stesso.
Non un paesaggio, ma
innumerevoli paesaggi. Non
un mare ma una
successione di mari. Non
una civiltà ma
più
civiltà ammassate
l’una
sull’altra.
Il Mediterraneo è un
antico crocevia. Da millenni tutto
è
confluito verso questo mare, scompigliando
e arricchendo la sua storia”.
Nel
1540 Carlo V giunse davanti ad Algeri,
il mare in tempesta fece scontrare due
delle sue navi: l’imperatore
abbandonò, presago
di un disastro più grande
se si fosse ostinato nel tenere la rotta
che si era prefisso. È il
disastro che vedo, cinque secoli dopo, affacciandomi, come spesso mi capita,
sulle alture che dominano la baia d’Algeri:
evitato allora, coltivato con maniacale perfidia oggi. Il sangue lo vedo scorrere
sull'acqua sporca del mare come dove
cinquant'anni fa galleggiavano gioie e dolori
nel sogno di una liberazione
che è
stata l’anticamera
della tragedia: meglio
i popoli vivi
che quelli uccisi dall’odio.
Dalla
baia d’Algeri
a Beirut,
da un capo all’altro del
Mediterraneo, lambendo
le coste italiche
ed ispaniche, l’inquietudine
si tocca con
mano, sfiorando il pelo
dell’acqua.
Le civiltà non
si riconoscono più.
Anzi, si detestano. Ed i
popoli si offrono alla
considerazione dell’uomo
antico che li osserva
come soggetti insoddisfatti. Nel Mediterraneo
si addensano parole e crimini: i
fiori dell’amore
e della musica e della
poesia che pure ingentilivano le crudeltà
imperiali, papali o musulmane e lo
Stupore del mondo benediceva l’arte come
Adriano il conquistatore, sono scomparsi
perfino nei recessi della memoria.
L’identità del
Mare Nostro è
indecifrabile, forse
non c’è più. Al
suo posto rileviamo
un lungo lamento che ci fa capire
come la storia sia finita da un
pezzo; la storia di un porto senz’anima
dove s’incrociano
traffici indifferenti
ai popoli che sulle sue
rive s’affacciano
e vivono nel disinteresse
dei padroni del mondo. E’
stato detto che oggi i Paesi del
Mediterraneo non hanno altro in
comune che l’insoddisfazione
di chi li
popola. Forse si dovrebbe aggiungere che
esso è il
contenitore di conflitti i cui rumori
con difficoltà la
vecchia Europa, rassicurata
dal fatuo e pericolante benessere che
produce, percepisce in maniera non
adeguata. Eppure dalle sue sponde
risuonano grida che il Mediterraneo ha
già
conosciuto nelle molte età del
ferro che l’hanno
attraversato. Ma a differenza
del passato, oggi non riesce a trovare
un “centro
ordinatore” in
grado di
indirizzare la convivenza tra i popoli nel
senso della pace “non
indifferente”, ma
consapevole, fondata cioè
sulla convivenza nella
quale le culture abbiano riconoscimento
e la vitalità di
ogni etnia si
armonizzi in un contesto di tolleranza. Difficile,
naturalmente.
Ma
da uomo del
passato che ne ha viste tante, so che se l’Unione
europea si sviluppa senza tener
conto della sua “culla”
mediterranea diventa
perfino impossibile immaginare un
destino diverso per il nostro mare,
considerato come una vera e propria “linea
di faglia” da
abbattere per omologare
genti, costumi, tradizioni, linguaggi
- la sua ricchezza seducente – secondo
stereotipi culturali e prepolitici estranei
al modo d’essere
dei popoli mediterranei. Manca,
insomma, un principio ordinatore
in grado di
far diventare il Mediterraneo
un “progetto”. Per
quanto ben ispirate,
le numerose convenzioni
stipulate negli
ultimi anni non hanno
sortito gli effetti sperati.
La ragione è che
nessun governo
ha mai considerato il
Mediterraneo per quello
che è,
vale a dire il “luogo”
dell’incontro dove
Oriente e Occidente, Cristianità e Islam,
Sud e Nord del mondo,
avventure dello spirito
e disavventure dell’intelligenza incrociano
le loro differenze e le loro speranze.
Si
può
dire che soltanto Roma abbia compreso
la “crucialità” del
Mediterraneo. Ma
Roma non è più da
molto tempo “principio
ordinatore”. Da
essa non passa
la Storia. E all’ombra
delle immagini del
passato non sboccia neppure un’idea
che sia in grado di esercitare attrazione per
quanti cercano occasione di
pacificazione. Chi può
dispiegare quel
“potere
che trattiene”,
come diceva San
Paolo, il potere che impedisce il disordine totale?
Torno
sui miei scogli. Inquieto. Come i miei
contemporanei. Si sta male nel cuore
di un mare che non si può
solcare. Ascolto
Bach, talvolta, interpretato da
una grande pianista turca scoperta in
una freddissima notte ad Ankara. Le “Fughe”sono
europee, lo spirito è orientale.
Come gli strumenti che l’accompagnano. L’effetto
è
sublime. Si chiama
Anjelika Akbar. L’incontro
è
possibile, allora.
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