Luciano Lanna
Proprio in questi giorni di primavera, ma esattamente in
quelli di trent’anni fa, nel 1983, non solo sulle radio, sui juke-boxes (che
ancora c’erano), ma anche con i primi videoclip e nei negozi di dischi, irrompeva
Un sabato italiano, il primo sorprendente album di Sergio Caputo, cantautore e
musicista romano che aveva allora ventinove anni. Lo swing la faceva da padrone
in quei splendidi e coinvolgenti dieci pezzi, e in generale l’atmosfera che si respirava era
completamente diversa da quella comunicata sino ad allora dalla musica italiana, soprattutto dal genere cantautorale. L’io narrante dei brani sembrava essere un autentico cantante di night club,
dedito dunque suo malgrado alla vita notturna e per questo capace di sviluppare
un punto di vista atipico e meno illusorio del cittadino comune, dal quale
tuttavia non sembrava prendere le distanze, forse perché il suo lavoro era
frutto di necessità e non di vocazione. E dello spirito dell’epoca quel disco rispecchiava
al meglio la voglia di cambiare perché Caputo
cantava esplicitamente così: “Il peggio sembra essere passato...”.
La copertina dell’album è inconfondibile e ritrae Sergio
Caputo davanti a un bar che si allora trovava a Piazza Cavour a Roma (dove ora
è situata la multisala Adriano) e che prima era più semplicemente il cinema
Adriano con annesso bar. Sul retrocopertina è indicata una serie di cocktail o
bevande, abbinati con ciascuna canzone, con relative ricette, i cui nomi sono
talvolta inclusi anche nel testo stesso. Segno che la cultura dell’impegno
ideologizzato e del “tutto è politica” avevano già preso congedo
dall’immaginario giovanile.
Era intanto evidente la vocazione non-conformista di Caputo.
Un profilo che il musicista qualche anno fa ha tratteggiato in un personaggio di
fantasia, Max Paesani, protagonista del suo romanzo autobiografico
Disperatamente (e in ritardo cane) – edito da Mondadori – in cui ha mescolato
verità autobiografica e guizzi di fantasia per raccontare l’epopea di un
personaggio che – come si legge sul risvolto di copertina – «gli assomiglia
molto». Ex pop star di successo degli anni Ottanta, l’eroe del romanzo si è
ritirato da anni in California, torna in Italia ogni anno per una piccola
tournée, e per pochi giorni ridiventa quello di una volta: in jeans, giubbotto
di pelle, Ray-Ban e la chitarra in mano.
«Il peggio sembra essere passato» cantava appunto Sergio
Caputo in Un sabato italiano già nel 1983, fotografando una situazione in cui,
dopo gli anni dell’impegno a tutti i costi e a tutte le ore, arrivavano
finalmente sabati qualunque e notti che, “come dirigibili”, iniziavano a
portarci via lontano. Erano quelli gli anni di un «adorato popolo della notte
che come me – scrive il cantautore nel suo romanzo – cominciava a strisciare
fuori dai suoi recessi sepolcrali intorno alle 23, per farvi ritorno solo un
attimo prima dell’alba. Una generazione incompresa di vampiri romantici che si
mordevano esclusivamente fra loro e s’innamoravano gli uni degli altri
giurandosi di non cambiare mai, solo per ritrovarsi, quasi trent’anni dopo,
dispersi e inariditi in chissà quale pianeta della galassia, prigionieri come
me nella vita di qualcun altro…».
D’altronde, anche il romanzo Disperatamente (e in ritardo
cane) è un omaggio appassionato alla generazione di chi oggi ha
pressappoco cinquant'anni. «Un ventenne nel cervello di un uomo di mezza età»
si definisce il protagonista del, che ricorda con nostalgia la sua giovinezza:
«…quando la mia esistenza era incredibilmente facile e nel futuro c’erano solo
promesse. Erano gli anni Ottanta, nel bene e nel male. E tutto poteva ancora
essere, tutto poteva ancora succedere. E, poi, semplicemente, tutto è
successo». Erano gli anni in cui l’Italia trovava la sua «respirazione
artificiale per resuscitare il vecchio buon umore». Una boccata d’aria in grado
di far superare i legami, talvolta ingombranti, con il decennio precedente.
Come all’epoca ammetteva lo stesso Caputo cantando – in un’altra canzone
presente nello stesso album: Bimba se sapessi (ma nota anche come Citrosodina…)
con parole tutt’altro che casuali: «Io con questa faccia e il mio passato da
dimenticare». Sergio, infatti, già allora parlava con cognizione di causa.
Anche nel decennio precedente, giovanissimo, non era stato uno di quelli
rimasti a guardare dal balcone: gli anni ’70 lo avevano visto partecipe, anche
se dalla cosiddetta “altra parte della strada”, a scandire il suo impegno
leggendo Allen Ginsberg, Gregory Corso, Hemingway, Bukowski e i Cantos di Ezra
Pound. La sua era una battaglia non-conformistica «contro – scriveva
nella rivista studentesca romana L’Alternativa, molto vicina al Fronte della gioventù, di cui lui era ideatore, grafico e vignettista – gli apriorismi delle
filosofie e delle ideologie, contro la società dei consumi, contro la
repressione psicologica operata dai persuasori occulti, contro l’inattuale
staticità delle ripartizioni politiche, contro la reazione, contro il
liberalismo, contro il livellamento, contro la massificazione…». In suo
articolo di quegli anni Sergio si schierava senza esitazione dalla parte della
contestazione del ’68 che, a suo dire, «aveva evidenziato i problemi delle
nuove generazioni, insofferenti e stanche di una società nella quale non si
riconoscevano, incapaci di affrontare e soddisfare le loro esigenze sociali e
culturali». Dopo di che fissava un preciso riferimento esistenziale e
letterario nel «vasto e valido fermento giovanile degli anni ’50, di cui si era
fatto portatore lo scrittore americano Jack Kerouac». Numerose le tracce
lasciate dal Caputo degli anni studenteschi e del suo locale “Il Covo” di Corso
Francia: poster, manifesti, adesivi, fumetti… E’ stato disegnato proprio
da Caputo il celebre poster con il profilo di Ezra Pound e la frase “se un uomo
non intende correre qualche rischio per le sue idee, o le sue idee non valgono
niente o non vale niente lui…”. Poi, ovviamente, la musica. Il suo stesso primo
singolo, Libertà dove sei, nasceva in qualche modo da quei fermenti e da quelle
passioni (basta andare su YouTube per riascoltarla e capirne il senso…).
Sia ben chiaro: qualche eco di tutto questo è affiorato negli
anni non solo nella sua musica ma anche nel romanzo autobiografico. «Io
lavoravo come copyrighter free lance e me la cavavo bene… passavamo lunghe
serate a ipotizzare nuovi stili musicali, disquisire di futuri mezzi di
comunicazione, dell’interazione fra diverse forme d’arte d’arte», spiega di
quegli anni Max Paisani, aggiungendo che lui in quel fermento era capace di
riuscire a far convivere parallelamente – e simultaneamente – anche situazioni
apparentemente contrapposte «che in qualche modo condividevano la stessa zona
spazio-temporale, ma che secondo me non sarebbero state compatibili tra loro, e
io riuscivo a passare disinvoltamente dall’una all’altra senza subire grossi
danni a livello cerebrale». Innegabile il riferimento autobiografico all’avvio
della stagione freak dello stesso Caputo, quando cominciò a suonare e cantare
prima al Convento Occupato, poi al Murales, infine al Folk Studio. E qui – vera
e propria palestra della cosiddetta scuola romana dei cantautori – incontrerà
il suo “scopritore”, il musicista-giornalista Ernesto Bassignano (il grande Bassinger)
e la vocazione musicale prende il sopravvento.
«C’era musica dappertutto, e non solo – racconta ancora il protagonista del romanzo – nei locali, anche per la strada. La musica era il collante sociale di quegli anni controversi e difficili, pieni di conflitti ed equivoci culturali. Il più grosso dei quali era il modo in cui i miti della musica e della cultura americana riuscissero a convivere con un viscerale antiamericanismo, tendenza che per quanto mi riguarda era incomprensibile: tutti i miei idoli, da Charlie Parker a Jimi Hendrix, dai poeti beat a Andy Warhol, erano americani… Così come consideravo idiota farsi chiamare hippy e poi andare alle dimostrazioni antiamericane. Ma quelli erano anni strani…». Anni in cui, comunque, «i più svariati e curiosi elementi si mescolarono e si fusero insieme, dal jazz alla poesia sudamericana, dall’hippie al radical chic, dal femminismo militante al sesso libero e spensierato, dall’anticonformismo a un conformismo di segno diverso e non per questo meno fastidioso…». Alla luce anche di questo, in una sorta di «pellegrinaggio retroattivo», il romanzo si dipana in una storia che si legge tutta d’un fiato, scritta con un linguaggio davvero swing e che ricorda le atmosfere e le situazioni delle canzoni più famose di Sergio.
«C’era musica dappertutto, e non solo – racconta ancora il protagonista del romanzo – nei locali, anche per la strada. La musica era il collante sociale di quegli anni controversi e difficili, pieni di conflitti ed equivoci culturali. Il più grosso dei quali era il modo in cui i miti della musica e della cultura americana riuscissero a convivere con un viscerale antiamericanismo, tendenza che per quanto mi riguarda era incomprensibile: tutti i miei idoli, da Charlie Parker a Jimi Hendrix, dai poeti beat a Andy Warhol, erano americani… Così come consideravo idiota farsi chiamare hippy e poi andare alle dimostrazioni antiamericane. Ma quelli erano anni strani…». Anni in cui, comunque, «i più svariati e curiosi elementi si mescolarono e si fusero insieme, dal jazz alla poesia sudamericana, dall’hippie al radical chic, dal femminismo militante al sesso libero e spensierato, dall’anticonformismo a un conformismo di segno diverso e non per questo meno fastidioso…». Alla luce anche di questo, in una sorta di «pellegrinaggio retroattivo», il romanzo si dipana in una storia che si legge tutta d’un fiato, scritta con un linguaggio davvero swing e che ricorda le atmosfere e le situazioni delle canzoni più famose di Sergio.
Il messaggio finale del romanzo è esplicito e rappresenta a
nostro avviso tutto quello in cui Caputo si riconosce: «Ricordati, finché ci
resta tempo da vivere la partita rimane aperta». Perché c’è sempre un’altra
possibilità: «Il nostro destino è una cosa, la direzione che la nostra vita
prenderà è un’altra». Una lezione che il protagonista del libro sostiene di
aver imparato incontrando una volta Keith Richard: «Mi ha insegnato molto, per
esempio che non bisogna mai pensare di essere rimasti senza cose da dire. Che
non bisogna mai arrendersi alla tentazione di auto-omologarsi...».
Peccato che il peggio, nel 1983, non potevamo neppure intuirlo. Altrimenti sarebbe andata diversamente. Comunque complimenti. Bel pezzo e bella citazione (quella del romanzo di Caputo). Un libro che conosciamo in pochissimi. E che merita.
RispondiEliminaStammi bene.