Gennaro
Malgieri
Cinquecento
anni e se li porta magnificamente. Il
Principe di Niccolò
Machiavelli è un testo
che non invecchia. Lo sapeva bene Antonio Gramsci che da esso trasse le
coordinate per delineare la figura del "nuovo principe", ordinatore
della politica moderna. Nelle Noterelle
così si esprimeva: "Il
carattere fondamentale del Principe è
quello di non essere una trattazione sistematica ma un libro 'vivente', in cui
l'ideologia politica e la scienza politica si fondono nella forma drammatica del
'mito' ". Il ché significa
che l'elemento dottrinale e razionale si impersona in un
"condottiero" che riassume in sé
la "volontà
collettiva" quando si forma attraverso un processo di appropriazione
dell'elemento più umano da
parte del soggetto attivo, vale a dire la passione che muove lo spirito dei
popoli. Cesare Borgia, il Duca Valentino, fu capace di suscitare un fenomeno
simile? La storia s'interrogherà a lungo.
Ma certamente, seguendo le pagine di Machiavelli, diremmo che impersonò
la "eccezionalità" nel
mondo dilaniato della sua epoca, orientando un progetto che non lasciò
indifferenti coloro i quali avevano cuore per sentire e ragione per
comprendere: la creazione dello Stato nazionale.
Non credo
che una prospettiva di tal genere sia oggi deperita. Al contrario, la vedo
straordinariamente viva a fronte della decadenza dell'arte di governare che
percorre la riflessione di Machiavelli lungo tutto l'arco della sua vita di
studioso, non meno che di uomo pubblico. Al centro della quale c'è
l'uomo (elemento che risulta tragicamente assente oggi come fondante
un'antropologia politica) che ha la necessità
di essere indirizzato e per il quale si assumono provvedimenti che possono
perfino risultare impopolari, difficili da digerire, ma che nonostante le
avversità che
provocano se il governante o
"decisore" è convinto
della loro bontà non può
che adottarli con tutti i mezzi di cui dispone esercitando un potere legittimo.
E quando è
legittimo il potere? Ecco Machiavelli: "Debbe uno che diventi principe
mediante il favore del populo, mantenerselo amico; il che li fia facile, non
domandando lui se non di essere oppresso. Ma uno che, contro al populo, diventi
principe con il favore de' grandi debbe innanzi a ogni altra cosa, cercare di
guadagnarsi el populo; il che li fia facile, quando pigli la protezione
sua". Dunque, l'orizzonte del Principe, e cioè
del detentore del Potere, è il
"bene comune", costi quel che costi. E ben oltre il tornaconto che
egli stesso può ricavarne.
Poiché sa bene di che pasta è
fatta la natura umana: di per sé triste e
votata al cambiamento dei sentimenti, volubile e incostante, più
affezionata alla difesa delle cose materiali che ai suoi stessi affetti. Può
non piacere, ma è così
a volerla dire come stanno le cose nella perennità
del divenire, ben oltre quindi i "buonismi" che caratterizzano alcune
epoche, compresa la nostra.
"Delli
uomini - si legge nel Principe - si
può dire questo generalmente: che
siano ingrati, volubili, simulatori, fuggitori de' pericoli, cupidi di guadagno
e mentre fai loro bene, sono tutti tuoi, offerenti di sangue, la roba, la vita,
i figlioli, come di sopra dissi. quando el bisogno è
discosto, ma quando ti si appressa, e' si rivoltano...E quel principe che si è
tutto fondato sulle parole loro, trovandosi nudo di altre preparazioni, rovina.
Li uomini hanno meno rispetto a offendere uno che si faccia amare, che uno che
si faccia temere, perché l'Amore è
tenuto da uno vincolo di obbligo, il quale per essere li uomini tristi, da ogni
occasione di propria utilità è
rotto, ma il timore è tenuto da
una paura di pena che non abbandona mai".
La
negatività della
considerazione di Machiavelli dello spirito umano è
radicale. Da qui il suo ragionevole pessimismo su cui fonda la costruzione
politica del Potere come strumento regolatore degli egoismi, dei conflitti e
dei disordini inevitabili. Elementi che quando assumono fattezze non private,
ma pubbliche danno luogo ad eventi che coinvolgono i popoli ed è
allora che il Principe si esercita con la perizia che gli deriva dalle sue qualità
e la legittimità che gli
viene conferita da chi lo riconosce come detentore della potestà
a rappresentare le ragioni affidatele e a difenderle. Insomma, il
"mito" gramscianamente inteso, al di là
delle contingenze che inducevano Machiavelli all'identificazione del Principe
con la personalizzazione del Potere, è
lo Stato.
In questo
senso, l'opera del Segretario fiorentino è
attualissima, proprio perché
dall'esplosione degli elementi anti-statali e, potremmo dire, anti-comunitari,
assumendo la formulazione dello Stato-comunità
per designare il primato politico della Res publica nella quale i cittadini
(non più sudditi)
si riconoscono, mettono a repentaglio la stessa libertà
che, in ossequio ad una certa lettura del Principe,
è stata considerata come una sorta
di jattura da Machiavelli. Ma non è
così.
Vi sono
epoche in cui la libertà è
succedanea all'ordine civile. Senza la garanzia di questo non può
esistere quella. Machiavelli la vedeva in questo modo e perciò,
con parole che oggi giudicheremmo sprezzanti, scriveva: "Era tenuto Cesare
Borgia crudele; nondimanco quella sua crudeltà
aveva racconcia la Romagna, unitola, ridottola in pace e in fede. Il che se si
considera bene, si vedrà quello
essere stato molto più pietoso
che il populo fiorentino, il quale, per fuggire el nome del crudele, lasciò
distruggere Pistoia. Debbe, pertanto, uno principe non si curare della infamia
di crudele, per tenere li sudditi suoi uniti e in fede; perché,
con pochissimi esempli, sarà più
pietoso che quelli e' quali, per troppo pietà,
lascino seguire e' disordini, di che nasca occisioni o rapine; perché
queste sogliono offendere una universalità
intera, e quelle esecuzioni che vengono dal principe offendono uno
particulare".
Allora, è
meglio essere amati o temuti? Sarebbe meglio la combinazione di entrambi. Ma in
un mondo idilliaco. In realtà lo spazio
per l'amore e la pietà è
dato dal timore che viene dispiegato da chi deve provvedere a limitare le
conseguenze del disordine. Così per gli
Stati. E da cinquecento anni non facciamo che chiederci come conciliare i due
stadi dell'umanità in
conflitto con se stessa. Soprattutto quando dalla mancanza di timore nasce la
corruzione ed i costumi pubblici si fanno specchio d'inganni per i popoli che
ritengono di poter abusare della lieve mano del Principe-Stato, se non
addirittura della sua assenza.
E, da
questo punto di vista, non v'è niente di
più rivoluzionario della
rigenerazione che presuppone il principio di legittimità
del Potere fondato non sull'origine giuridica delle Costituzioni, ma su quella
politica, come dimostrano tutte le normative che sono destinate a restare.
Non saprei
se oggi Machiavelli, sorridendo come appare nel ritratto di Santi di Tito in
Palazzo Vecchio a Firenze, si schiererebbe per l'abdicazione dello Stato politico
in favore di un formalismo caduco o viceversa. Tutto lascia ritenere il
contrario. Ma sono certo che constatando la caduta dello Stato e lo scempio che
ne è stato fatto, si ritirerebbe a
San Casciano ad "ingaglioffirsi" con i "suoi"popolani
disposti a comprenderlo più
dei potenti cui, forse inutilmente, ha cercato di insegnare l'arte del governo.
La più difficile, la più
pericolosa. Almeno quanto l'amore che Machiavelli descrisse e pure esaltò.
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