lunedì 25 marzo 2013

Cinquant’anni fa Bianciardi denunciava la “vita agra”


Giovanni Tarantino


Cinquant’anni fa, dopo il grande successo del libro (uscito l’anno precedente, il 1962), Carlo Lizzani stava girando il film La vita agra, tratto proprio dal romanzo di Luciano Bianciardi. Nella pellicola, interpretata da uno straordinario Ugo Tognazzi – “una forza della natura” lo definirà Bianciardi – in una scena comparirà anche lo stesso romanziere. Un vero e proprio anticonformista, “uno della nostra stessa razza” lo definirà Indro Montanelli invitandolo a scrivere per il Corriere della Sera. Ma Bianciardi rifiuterà, continuando a fare il traduttore e lo scrittore senza un lavoro fisso. E le sue prese di posizione faranno sempre discutere. Disarmante, irriverente, precursore dei tempi nei modi e nello stile ironico. Di un’ironia simile a quella che, un decennio dopo la sua scomparsa e oltre, avrebbe contrassegnato certi fumetti di Andrea Pazienza, che nei toni talvolta ricordava una vena particolarmente bianciardiana. La dipendenza dall’alcool lo porterà alla morte a soli 49 anni, nel 1971. L’ultimo anno della sua vita, il ’70, è particolarmente significativo.
È infatti l’inizio dell’estate quando la Nazionale di calcio, quella di Gigi Riva e del famoso Italia-Germania 4 a 3, torna dal Messico con una cocente delusione figlia della consapevolezza della propria inferiorità di fronte ai campioni del Brasile. Il calcio comincia a entrare nei discorsi quotidiani di tutti gli italiani: è l’argomento principale in tanti Bar Sport come quello cantato da Stefano Benni.
È l’Italia di oltre quarant’anni fa, sospesa tra boom economico e anni di piombo, l’Italia in cui si inizia a parlare di crisi del matrimonio tradizionale, di diritti civili, di divorzio. Su questo tema Luciano Bianciardi argomenta come abbiamo visto. Quella dell’autore de La vita agra era ancora l’Italia casa e chiesa del monopolio Rai, dove – come ha ricordato Ettore Bianciardi, figlio di Luciano – «la parola amante fa scandalo, mentre non lo fa ancora negro». In questa Italia vive i suoi ultimi giorni Bianciardi.
La sua vita di intellettuale era partita dalla provincia maremmana, dalla sua Grosseto, lasciata improvvisamente nell’estate del ’54, con destinazione Milano per via dell’innamoramento verso la donna che sarebbe rimasta sua compagna per la vita. Dalla provincia, amava dire, «era scappato», per ricominciare daccapo la sua vita nella grande metropoli lombarda. Il suo bagaglio culturale era fatto di collaborazioni giornalistiche a Belfagor, il Mondo e soprattutto l’Avanti!.
Il distacco dalla terra madre gli costerà, rimarrà per lui una ferita aperta, difficile da rimarginare. A Milano, peraltro, si troverà inizialmente spiazzato, come tanti altri emigranti. Crede di potersi inserire nel lavoro culturale e nelle iniziative che segnano la prima vera ripartenza di Milano dal dopo ventennio, ma il mondo nuovo, la nuova industria intellettuale meneghina lo terrà ai margini, isolandolo, rendendolo un precario e, in definitiva, destabilizzandolo. È in questo contesto, quasi disperato, che esce il suo La vita agra. E improvvisamente Bianciardi diventa famoso. Lui vive male quel successo ruffiano, che gli pare di facciata, che fa seguito a un periodo di sofferenza vera. Siamo nel pieno degli anni Sessanta e lui rifiuta collaborazioni prestigiose, come quella al Corriere. Poi trova ospitalità in testate minori e di nicchia. Proprio in quel momento, tra riviste per soli uomini e un settimanale, ABC, tra lo scandalo e la lotta per i diritti umani, trova un suo spazio, defilato ma relativamente tranquillo. Nel ’70, dopo la storica vittoria dello scudetto da parte del Cagliari e dopo il secondo posto dell’Italia ai mondiali messicani, Bianciardi scopre il calcio e avvia una collaborazione col Guerin Sportivo, diretto all’epoca da Gianni Brera. Parlava di sport per convenzione, o meglio, attraverso lo sport e il calcio finiva per parlare di altro. Brera gli consegna una rubrica di posta dei lettori, iniziata nel settembre del ’70 e conclusa fino alla morte dello scrittore, con l’ultima uscita postuma alla scomparsa, il 15 novembre 1971. È l’ultima collaborazione giornalistica tenuta da Bianciardi, non a caso tra le più significative. Pur dalle colonne di un «periodico di critica e politica sportiva» inveisce contro i tempi, coglie le contraddizioni del suo periodo, si manifesta anarchico, com’è inevitabilmente nello spirito, fieramente irregolare, non allineato per vocazione, libertario per scelta di vita. Scrive che la battaglia per il divorzio è di retroguardia e che l’occupazione del’68 e successivi delle università era «velleitaria, snobististica, inutile e perfino dannosa. I giovani – suggeriva – si concentrino sui veri centri del potere. Se vogliamo che le cose cambino, occorre occupare le banche e far saltare la televisione. Non c’è altra possibile soluzione rivoluzionaria». Che, in qualche maniera, è quanto aveva auspicato poco tempo fa, oltre a Beppe Grillo, l’ex calciatore Eric Cantona, testimonial del movimento BankRun. Poi, liberamente, afferma che: «La battaglia giusta non è contro il canone, ma contro la televisione», «l’ascesa del Pci al potere sarà la vera tragedia per la democrazia, laddove l’unica democrazia è l’anarchia», ma anche «il fuori gioco mi sta antipatico, come tutte le regole che limitano la libertà di movimento e di parcheggio».
Riflessioni tanto dissacranti quanto beffardamente situazioniste e sorprendentemente attuali pongono una questione circa una presunta attualità politica di Bianciardi, dato che alcuni suoi seguaci ritengono opportuno ripartire da dove lui aveva lasciato, e come da suo monito «Riaprire il fuoco». Proprio nei giorni scorsi, a seguito degli incidenti di Roma durante la manifestazione degli indignados, Giovanni Robertini su Il Post rifletteva: «Mi metterei una benda da pirata sull’occhio pensando non ai black block ma a Luciano Bianciardi, anche lui anarchico (per molti da sabato è diventato un insulto: “anarchico!”), anche lui idealmente un tragicomico riottoso, che nel suo romanzo più noto aveva progettato di far saltare in aria col tritolo il mitico Pirellone, simbolo che il capitalismo che fu e che c’è ancora. Luciano Bianciardi non era un indignato, non sarebbe mai riuscito a dire agli altri “Indignatevi!”: era un insofferente, e tra sé in solitaria soffriva». Forse anche per questo, nonostante i proclami dinamitardi contro televisione e banche, di fronte al genio di Bianciardi nessuno si è mai permesso di tirare in ballo reati ideologici o altre amenità repressive.  

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