Giovanni Tarantino
Cinquant’anni
fa, dopo il grande successo del libro (uscito l’anno precedente, il 1962), Carlo
Lizzani stava girando il film La vita
agra, tratto proprio dal romanzo di Luciano Bianciardi. Nella pellicola, interpretata da uno
straordinario Ugo Tognazzi – “una forza della natura” lo definirà Bianciardi –
in una scena comparirà anche lo stesso romanziere. Un vero e proprio
anticonformista, “uno della nostra stessa razza” lo definirà Indro Montanelli
invitandolo a scrivere per il Corriere
della Sera. Ma Bianciardi rifiuterà, continuando a fare il traduttore e lo
scrittore senza un lavoro fisso. E le sue prese di posizione faranno sempre discutere.
Disarmante, irriverente, precursore dei tempi nei modi e nello stile
ironico. Di un’ironia simile a quella che, un decennio dopo la sua scomparsa e
oltre, avrebbe contrassegnato certi fumetti di Andrea Pazienza, che nei toni
talvolta ricordava una vena particolarmente bianciardiana. La dipendenza
dall’alcool lo porterà alla morte a soli 49 anni, nel 1971. L’ultimo anno della
sua vita, il ’70, è particolarmente significativo.
È infatti l’inizio dell’estate quando la Nazionale di calcio, quella di Gigi Riva e del
famoso Italia-Germania 4 a 3, torna dal Messico con una cocente delusione figlia
della consapevolezza della propria inferiorità di fronte ai campioni del
Brasile. Il calcio comincia a entrare nei discorsi quotidiani di tutti gli
italiani: è l’argomento principale in tanti Bar
Sport come quello cantato da Stefano Benni.
È
l’Italia di oltre quarant’anni fa, sospesa tra boom economico e anni di piombo,
l’Italia in cui si inizia a parlare di crisi del matrimonio tradizionale, di
diritti civili, di divorzio. Su questo tema Luciano Bianciardi argomenta come
abbiamo visto. Quella dell’autore de La
vita agra era ancora l’Italia casa e chiesa del monopolio Rai, dove – come
ha ricordato Ettore Bianciardi, figlio di Luciano – «la parola amante fa
scandalo, mentre non lo fa ancora negro». In questa Italia vive i suoi ultimi
giorni Bianciardi.
La
sua vita di intellettuale era partita dalla provincia maremmana, dalla sua
Grosseto, lasciata improvvisamente nell’estate del ’54, con destinazione Milano
per via dell’innamoramento verso la donna che sarebbe rimasta sua compagna per
la vita. Dalla provincia, amava dire, «era scappato», per ricominciare daccapo
la sua vita nella grande metropoli lombarda. Il suo bagaglio culturale era
fatto di collaborazioni giornalistiche a Belfagor,
il Mondo e soprattutto l’Avanti!.
Il
distacco dalla terra madre gli costerà, rimarrà per lui una ferita aperta,
difficile da rimarginare. A Milano, peraltro, si troverà inizialmente
spiazzato, come tanti altri emigranti. Crede di potersi inserire nel lavoro
culturale e nelle iniziative che segnano la prima vera ripartenza di Milano dal
dopo ventennio, ma il mondo nuovo, la nuova industria intellettuale meneghina
lo terrà ai margini, isolandolo, rendendolo un precario e, in definitiva,
destabilizzandolo. È in questo contesto, quasi disperato, che esce il suo La vita agra. E improvvisamente Bianciardi
diventa famoso. Lui vive male quel successo ruffiano, che gli pare di facciata,
che fa seguito a un periodo di sofferenza vera. Siamo nel pieno degli anni
Sessanta e lui rifiuta collaborazioni prestigiose, come quella al Corriere. Poi trova ospitalità in
testate minori e di nicchia. Proprio in quel momento, tra riviste per soli
uomini e un settimanale, ABC, tra lo
scandalo e la lotta per i diritti umani, trova un suo spazio, defilato ma
relativamente tranquillo. Nel ’70, dopo la storica vittoria dello scudetto da
parte del Cagliari e dopo il secondo posto dell’Italia ai mondiali messicani,
Bianciardi scopre il calcio e avvia una collaborazione col Guerin Sportivo, diretto all’epoca da Gianni Brera. Parlava di
sport per convenzione, o meglio, attraverso lo sport e il calcio finiva per
parlare di altro. Brera gli consegna una rubrica di posta dei lettori, iniziata
nel settembre del ’70 e conclusa fino alla morte dello scrittore, con l’ultima
uscita postuma alla scomparsa, il 15 novembre 1971. È l’ultima collaborazione
giornalistica tenuta da Bianciardi, non a caso tra le più significative. Pur
dalle colonne di un «periodico di critica e politica sportiva» inveisce contro
i tempi, coglie le contraddizioni del suo periodo, si manifesta anarchico,
com’è inevitabilmente nello spirito, fieramente irregolare, non allineato per
vocazione, libertario per scelta di vita. Scrive che la battaglia per il
divorzio è di retroguardia e che l’occupazione del’68 e successivi delle
università era «velleitaria, snobististica, inutile e perfino dannosa. I
giovani – suggeriva – si concentrino sui veri centri del potere. Se vogliamo
che le cose cambino, occorre occupare le banche e far saltare la televisione.
Non c’è altra possibile soluzione rivoluzionaria». Che, in qualche maniera, è
quanto aveva auspicato poco tempo fa, oltre a Beppe Grillo, l’ex calciatore
Eric Cantona, testimonial del movimento BankRun. Poi, liberamente, afferma che:
«La battaglia giusta non è contro il canone, ma contro la televisione»,
«l’ascesa del Pci al potere sarà la vera tragedia per la democrazia, laddove
l’unica democrazia è l’anarchia», ma anche «il fuori gioco mi sta antipatico,
come tutte le regole che limitano la libertà di movimento e di parcheggio».
Riflessioni
tanto dissacranti quanto beffardamente situazioniste e sorprendentemente
attuali pongono una questione circa una presunta attualità politica di
Bianciardi, dato che alcuni suoi seguaci ritengono opportuno ripartire da dove
lui aveva lasciato, e come da suo monito «Riaprire il fuoco». Proprio nei
giorni scorsi, a seguito degli incidenti di Roma durante la manifestazione
degli indignados, Giovanni Robertini su Il
Post rifletteva: «Mi metterei una benda da pirata sull’occhio pensando non
ai black block ma a Luciano Bianciardi, anche lui anarchico (per molti da
sabato è diventato un insulto: “anarchico!”), anche lui idealmente un
tragicomico riottoso, che nel suo romanzo più noto aveva progettato di far
saltare in aria col tritolo il mitico Pirellone, simbolo che il capitalismo che
fu e che c’è ancora. Luciano Bianciardi non era un indignato, non sarebbe mai
riuscito a dire agli altri “Indignatevi!”: era un insofferente, e tra sé in
solitaria soffriva». Forse anche per questo, nonostante i proclami dinamitardi
contro televisione e banche, di fronte al genio di Bianciardi nessuno si è mai
permesso di tirare in ballo reati ideologici o altre amenità repressive.
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