Luciano Lanna
Venticinque anni fa, il 13 marzo del 1988, ancora giovane ci lasciava Steno,
il regista che nel secondo dopoguerra ha raccontato una certa idea dell’Italia,
quella di un paese che sa mantenersi leggero e ottimista anche nei momenti di
grandi difficoltà e di ricostruzione. “Sempre in giacca e cravatta, è stato il
simbolo – hanno raccontato sul Messaggero i due figli, Enrico e Carlo
Vanzina, anche loro registi e sceneggiatori – di quell’Italia che non c’è più,
un’Italia capace e perbene, quella dei Monicelli, dei Risi, dei Comencini, dei
Salce, della quale papà, regista cresciuto all’ombra di Blasetti e Soldati,
Mattoli e Camerini, è stato in un certo senso il padre fondatore”.
All’anagrafe Stefano Vanzina, era nato a Roma il 19 gennaio del 1915. Figlio
di Alberto Vanzina, un giornalista del Corriere della Sera, a tre anni rimane
orfano del padre con la famiglia che versa in grandi difficoltà. Completa però gli studi liceali e si diploma scenografo all’Accademia di Belle Arti.
Quindi inizia a disegnare articoli satirici, vignette e caricature, adottando lo pseudonimo di Steno in omaggio ai romanzi popolari di Flavia Steno,
prima alla Tribuna illustrata e quindi
al Marc’Aurelio, il celebre giornale umoristico che fu la fucina di nomi in
seguito importanti come Federico Fellini, Vittorio Metz e Marcello Marchesi.
“C’era lì una fronda – ricorderà Fellini anni dopo – molto leggera nel
linguaggio, ma nella dissacrazione del linguaggio, anche nel turpiloquio, c’era
qualcosa che contraddiceva vistosamente l’orpello e la retorica ufficiale del
regime…”. In questo clima l’incontro, fondamentale, di Steno con Leo Longanesi.
“Non ricordo quando lo conobbi – ha rievocato lo stesso Stefano Vanzina – ma so
che mi parve di averlo sempre conosciuto. Simpatizzammo subito. Allora noi dei
giornali umoristici eravamo snobbati dalla cultura ufficiale. Leo, invece, si
dimostrò subito amico e interessato al nostro Marc’Aurelio, al gruppo di Metz,
Mosca e Marchesi, e questo mi piacque. Lui che dava del ‘lei’ a tutti, a me
diede subito del ‘tu’. E fu allora che diventai amico di Longanesi: cominciai
ad andare a casa sua e a vederlo tutti i giorni. Fu Leo che mi introdusse nel
mondo del cinema”. Il figlio Enrico ha più volte ricordato come, alla notizia
nel 1957, della morte prematura di Longanesi, Steno si rinchiuse nel suo studio
da solo a piangere per una giornata l’amico scomparso.
Avviato da Longanesi, come fu anche per Ennio Flaiano, a scrivere per il
cinema, dopo l’8 settembre Steno dovrà fuggire da Roma proprio in compagnia
dell’amico Leo e di Mario Soldati e, al termine di un viaggio picaresco
attraverso l’Abruzzo (raccontato anche nel suo bel libro Sotto le stelle del
’44. Un diario futile), avrà modo di vedere l’Italia distrutta dalla guerra e
dai bombardamenti sino ad arrivare sano e salvo a Napoli. Quindi, nel
dopoguerra, la regia insieme a Mario Monicelli di alcuni indimenticabili film
con Totò – Guardie e ladri, Totò cerca casa, Totò con le donne, Totò a colori –
che ci regalarono affreschi memorabili dell’Italia di quegli anni, “dove il
talento – annotano i figli di Steno – graffia l’attualità, come l’esilarante
sketch dell’onorevole Trombetta nel vagone letto o dove appare il Totò ladro
che combatte una guerra tra poveri con la guardia Fabrizi: un capolavoro
premiato a Cannes”. Poi Monicelli e Steno si separano e Steno da solo, si allea
con Alberto Sordi, realizzando pellicole altrettanto indimenticabili: Un giorno
in pretura (dove compare, unica volta da attore, anche il giornalista e regista
Gualtiero Jacopetti), Un americano a Roma, Piccola posta, Mio figlio Nerone. Il
personaggio di Nando Mericoni, l’americano a Roma che apparirà in più di un
film, rappresenterà al meglio un’icona degli italiani di quegli anni, a metà strada tra il romanesco di tutti i giorni e il sogno dei
miti di Hollywood.
Steno comunque continuerà non solo con altri film di Totò ma, nei primi
anni Settanta, realizza addirittura il primo “poliziottesco”, La polizia
ringrazia, recentemente andato in onda in tv perché interpretato anche da
Mariangela Melato. Poi, a parte i film con Bud Spencer – il ciclo di Piedone lo
sbirro e il simpatico Banana Joe – e il cult movie del 1976 Febbre da
cavallo, con due straordinari Gigi Proietti ed Enrico Montesano, ci piace ricordare il suo La patata bollente
del 1979, un film che sul tema dell’omofobia anticipava tematiche che
diverranno d’attualità qualche decennio dopo e che oltretutto era stato scritto
e diretto da un regista non di sinistra. Nel film Bernardo Mondelli, detto il
Gandhi, un metalmeccanico e sindacalista di provata fede comunista
interpretato da Renato Pozzetto, viene emarginato dai suoi “compagni” per aver
ospitato nel suo appartamento Claudio, un gay in difficoltà col volto di
Massimo Ranieri e per cercare di redimerlo il consiglio di fabbrica lo invia
addirittura in viaggio premio in Urss.
Anche questo è stato Steno. Nella sua filmografia il meglio dei grandi attori
italiani del secolo scorso: oltre ai grandissimi già citati anche Peppino De
Filippo e Tino Scotti, Ugo Tognazzi e Monica Vitti, Vittorio De Sica e Marcello
Mastroianni, Mario Carotenuto e Walter Chiari, Nino Manfredi e Enrico Maria
Salerno, Paolo Villaggio e Franca Valeri, Diego Abatantuono e Lando Buzzanza.
Non solo commedia, non solo satira. Ma la grande capacità di raccontare
l’Italia, una certa idea dell’Italia.
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