E' stato ripubblicato dalle Edizioni Settimo Sigillo il
libro di Adriano Romualdi, nel quarantesimo anniversario della sua tragica e
prematura scomparsa, Una cultura per l'Europa. Si compone di due saggi, scritti in tempi diversi, pubblicati insieme
per la prima volta nel 1986 a cura di Gennaro Malgieri della cui nuova
prefazione proponiamo qui di seguito ampi stralci.
MEMORIA DI ADRIANO
Gennaro Malgieri
A quarant'anni dalla improvvisa e prematura
scomparsa, Adriano Romualdi (1940-1973) è
ancora vivo nella memoria di chi era suo coetaneo o, come si disse all'epoca,
suo "fratello minore". Per quanto possa risultare strano, la visione
complessiva della cultura politica della destra elaborata
"prodigiosamente" in considerazione della sua giovane età da Romualdi, è
ancora fonte di suggestioni, stimoli e spunti di riflessione. Per quanto i
tempi si siano fatti lividi, quel che rimane di una esperienza di scavo nelle
ragioni profonde di una parte politica come la destra italiana è ancora racchiuso in tante intuizioni dello studioso che
se ne andò come mai avrebbe
immaginato: tra le ferraglie della sua macchina fuori strada alla vigilia di un
torrido ferragosto, mentre indifferenti per tutta una notte gli passavano
accanto automobilisti distratti che non si accorsero di un uomo che stava
morendo.
Fu una perdita enorme ed
anche chi intellettualmente lo avversava ne riconobbe il grande valore che
Rodolfo Sideri, studioso attento ed appassionato, sottolinea nel suo Adriano Romualdi. L'uomo, l'opera e il suo tempo
(Edizioni Settimo Sigillo), nel quale passa in rassegna la vasta produzione
romualdiana situandola nel dibattito politico-culturale che si sviluppò a destra tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi dei
Settanta. Dibattito del quale i saggi che qui si ripropongono, ripubblicati
insieme per la prima volta nel 1986, forniscono non solo un'idea del clima di
aspettative che stavano maturando, ma anche le indicazioni ad una destra che stava per uscire dallo
stato di minorità e doveva attrezzarsi a
"cavalcare la tigre" dell'antagonismo politico-culturale con la
consapevolezza di chi sa che la buona battaglia è
soltanto quella che si combatte con "la forza delle idee senza
parole", come ammoniva Oswald Spengler.
A quell'epoca, quando
Adriano scriveva e "consigliava" percorsi di interventismo
intellettuale dalle pagine della rivista "L'Italiano", diretta da suo
padre Pino e sulla quale tanti di noi ci andavano formando come giornalisti,
scrittori e politici, per quanto giovanissimo era già "qualcuno" e non soltanto perché ricercatore universitario a Roma, per volere di Renzo De
Felice e Rosario Romeo che quasi clandestinamente, visto il nome che portava,
lo laurearono in Storia contemporanea, o per il fatto di essere poi diventato
assistente nell'Ateneo di Palermo dell'indimenticabile altrettanto giovane
maestro Pippo Tricoli, ma per l'innata attitudine a pensare la politica e la
cultura insieme, non ravvisando tra di esse nessuna frattura come purtroppo a
destra, e non soltanto, si era portati a ritenere.
Nel panorama di allora
della cosiddetta “nuova cultura” – coincidente, grosso modo,
con quella che, dopo le affermazioni elettorali del Movimento Sociale Italiano,
veniva definita in maniera approssimativa l’area della cultura di destra – emersa, sviluppatasi ed
in una certa misura affermatasi (soprattutto presso alcuni ambienti
intellettuali, anche di sinistra), Romualdi occupava, per quanto ancora
apparentemente "acerbo", un posto preminente come testimoniano i suoi
scritti, i suoi interventi giornalistici, la sua prodigiosa attività di pensatore e di storico teso a dimostrare, come
avrebbe scritto Giorgio Galli che "la cultura di destra e le sue proposte politiche non sono
un'escrescenza anomala sul corpo socio-culturale dell'Occidente".
Prescindere, dunque, dalla sua riflessione storico-politica, per quanto il
tempo trascorso abbia modificato sostanzialmente i connotati di una destra
destra che di fatto è talmente evanescente dal
punto di vista politico da essere perfino irrilevante culturalmente, è senz’altro pregiudizievole ai
fini di un’adeguata comprensione di
una destra "diffusa", essa sì
reale e viva più di quanto si sia portati
a credere, arcipelago quanto mai
frastagliato nel quale compaiono paesaggi “radicali”, “tradizionali” e “innovativi” i cui confini non sempre sono netti e definibili proprio
in ragione del medesimo terreno di coltura sul quale, nel tempo, e non sempre
per ragioni puramente ideologiche, sono avvenute diversificazioni e
differenziazioni tattico/strategiche. Insomma, un pensiero di destra -
declinato in chiave conservatrice soprattutto, almeno nell'accezione di Arthur
Moeller van den Bruck ("Essere conservatori non significa dipendere da ciò che è stato ieri, ma vivere di
ciò che è eterno") - esiste
ancora per quanto non codificato in neessuna scuola, nè tantomeno, purtroppo, in nessuna formazione politica. Da
questo punto di vista le speranze di Romualdi, ma anche di tutto un mondo a lui
coevo e perfino successivo, si sono rivelate assolutamente inconsistenti per
ragioni che sarebbe improprio indagare qui. Basta soltanto dire che chi avrebbe
dovuto incarnare la destra, soprattutto una volta al potere, ha dimostrato di
non aver assimilato nulla di quella cultura e di aver gettato alle ortiche la storia dalla quale
discendeva per calcoli sui quali si discuterà a
lungo quando la riflessione sul
ventennio 1992-2012 sarà possibile, al di là delle passioni che ne impediscono un sereno approccio.
L’opera di Adriano Romualdi, comunque la si voglia
considerare e sia pur valutata in parte legata al suo tempo e
suscettibile essa stessa di riconsiderazione alla luce di esperienze ed
approfondimenti successivi che egli stesso avrebbe considerato
"naturali", è certamente uno dei motivi conduttori di maggiore
interesse della destra culturale a prescindere dalle passioni di parte e dalle
valutazioni della stessa ascrivibili alle sensibilità diverse che ciascuno legittimamente può nutrire. Resta tuttavia integro, come osserva Sideri nel
saggio citato, "la necessità di
raccogliere l'invito romualdiano ad elaborare una massa critica di produzione
culturale che renda egemone, nelle coscienze prima che nelle urne, la cultura
politica di destra".
Già, il problema dell'egemonia. Romualdi ne era consapevole
forse più di ogni altro anche
quando venne di moda parlare di "cultura di destra", mettendola
magari nelle mani di chi veniva da sinistra ed in fondo legato al materialismo
storico era rimasto. Ma questa è un'altra storia che
coincide con la vitalità, negata dagli avversari
ed da decenni ignorata dagli storici, di una destra che voleva riformarsi senza
abdicare ai principi. A quella destra in particolare si rivolgeva Romualdi non
sempre compreso, anzi il più delle volte avversato
tanto dagli apparati partitici missini che da quelli collaterali.
Nonostante
tutto - ed è ciò che più conta - pur nella poliedricità degli interessi coltivati, in Romualdi è comunque possibile individuare un pensiero unitario teso
all’elaborazione di una “nuova
cultura” quale supporto teorico di
una “grande politica” da
praticare nel tempo della fine delle illusioni edonistiche (quanto mai attuale
la sua diagnosi della società unidimensionale e
determinista) e scandito dal rifiuto della politica, motivato dal disgusto per
l’astrattismo partitico, dall’indifferenza
per una logica di potere estranea agli interessi reali, dalla mancanza di
qualsiasi ideale di rinascita europea da parte delle classi dirigenti non solo
italiane. Insomma, il tempo della Grande Crisi nel quale siamo totalmente
immersi in cui insensate e fittizie sollecitazioni “estetiche” acuiscono la corsa verso
i nuovi bisogni sempre più difficili da soddisfare,
alimentando le sacche di depressione morale che costituiscono la riserva
migliore all’ampliamento degli scenari
della rinuncia, apocalitticamente colorati, sui quali si staglia l’azione corrosiva dei giganti egemoni della nostra epoca:
i mercati finanziari che hanno sostituito in pratica i giganti del tempo in cui
si esercitava la critica romualdiana contro il mondo moderno, vale a dire l’America e l’Unione
Sovietica. La vittoria di questi soggetti ieri e della finanziarizzazione
dell'economia oggi dipende solo dalla rassegnazione europea. E quanti sono oggi
i non rassegnati? E per loro quale orizzonte di impegno civile è ipotizzabile? Può
essere la “scelta” europea, la riappropriazione della politica, il
tentativo di creare ed imporre nuove egemonie l'impegno di di chi non è venuto meno all’aderenza
ai valori “oggettivi” nel tempo della trasmutazione del senso e del bene
comune? L’opera complessiva di
Romualdi è la risposta affermativa a
questo interrogativo “cruciale”. Risposta che a fronte di quanto sta accadendo nel
mondo, ma soprattutto in Europa, ci sembra la più
pertinente e la più attuale.(...)
La riflessione storica e politica di Adriano Romualdi è certamente un punto di riferimento per chi cerca delle
risposte radicali nel contemporaneo movimento delle idee, caratterizzato da una
malsana indulgenza verso un certo rifiuto nichilistico a cui Romualdi ha inteso
reagire respingendo la logica compromissoria dell’egualitarismo
e della massificazione, la mercificazione dell’anima
e della mente, lo scempio della “nostra” Europa, la profanazione della Tradizione, la
dissacrazione della memoria storica dei “vinti”, la negazione delle più
intime ragioni della vita dell’uomo, nel più complessivo intento di adeguare i “valori di sempre”
alla mutevole realtà.
È questo il patrimonio ideale che un’intera generazione ha fatto suo; quella generazione nata
agli inizi degli anni Cinquanta che ha considerato Adriano Romualdi un “fratello maggiore”,
orfana di padri nobili; e per tale generazione, il 12 agosto 1973 non è soltanto il giorno in cui è
morto un amato giovane studioso, bensì la
data dell’inizio di un cammino “fuor di tutela” che
avrebbe visto le idee di Romualdi percorrere itinerari diversissimi con le
gambe di giovani intellettuali che comunque la sua “lezione” non hanno dimenticato.
Il problema delle radici, delle origini, connesso alla
ricerca di un’identità unitaria degli europei è
stato il grande assillo e la grande passione di Romualdi. Pensando per grandi
spazi e forte di una concezione geopolitica che superava gli angusti limiti del
nazionalismo, Romualdi riconnetteva alla questione dell’unità europea un’importanza primaria. Si trattava, a suo giudizio, di dare
un senso compiuto all’idea dell’Europa riscoprendo le ragioni e gli elementi remoti del
suo essere e proiettandoli nel presente e nell’avvenire
in modo tale da dare il senso di una comunità
compiuta sotto il profilo culturale, storico e politico.
Compito non facile dal
momento che Romualdi stesso non si nascondeva che per taluni la tradizione
europea si identifica con il razionalismo, mentre per altri con il
cristianesimo e per altri ancora con la classicità.
Tutti aspetti, comunque li si voglia considerare, limitati e particolari. Molto
più indietro si deve risalire, secondo Romualdi, per
ricavare dall’intero complesso della
storia spirituale europea il senso di una tradizione. Romualdi indica nel mondo
indoeuropeo il principio unificatore dei popoli del Vecchio Continente. Un
mondo caratterizzato da un ordine spirituale che si fonda sull’ineguaglianza e sugli elementi aggregativi naturali: la
famiglia, la comunità di appartenenza, lo
Stato, la religione, il diritto. “A
quest’ordine indoeuropeo –
osserva Romualdi – collaborano sia lo
spirito dell’uomo, sia le più alte potenze. L’intelligenza
umana non è contraddetta, ma
completata, dalla presenza di una intelligenza della natura e dell’universo. Di qui l’imperativo
che spinge questa razionalità umana a farsi azione,
unificando nella sua lotta i motivi dell’ordine
umano e di quello divino”.
Siamo in presenza, com’è facile notare, di una concezione sacrale dell’esistenza. Concezione che scandiva, nei cosiddetti “tempi tradizionali”, il
corso dell’anno, le celebrazioni, le
regole morali e spirituali, perfino la coltivazione dei campi e la cura delle
case: un ordine cosmico nel quale l’uomo
viveva come membro di una aggregazione
consapevole di avere un differenziato destino dalle altre comunità.
L’ordine indoeuropeo ha conosciuto aurore e tramonti,
riapparizioni fugaci ed oblii persistenti, latitanze di secoli e sprazzi di
luce. Comunque la sua vena sottile non è mai
morta del tutto. Anche oggi, in mezzo a noi, quell’ordine metafisico vive nella costante possibilità della rinascita: bisogna saperlo riconoscere’ nelle forme mutate e, se possibile, adeguare la prassi
politica alla metapolitica dei comportamenti.
Anche la considerazione
che Romualdi aveva dei movimenti nazionali europei sorti e sviluppatisi tra le
due guerre rimanda allo schema di valori primari tipici della civiltà europea ed in questo senso egli ha affrontato la critica
alle ideologie egualitarie ed illuministiche. Nel saggio Il fascismo come fenomeno
europeo scrive: “Il fascismo non fu solo
una dottrina espansionistica. In esso s’incarnò la nostalgia delle origini in un momento in cui si
manifestavano delle tendenze livellatrici di ogni struttura organica e
spirituale. Cioè a dire il fascismo fu la
reazione di una civiltà moderna che rischiava di
perire proprio per eccesso di modernità. È contro la indisciplina liberale, il materialismo
marxista, l’egualitarismo livellatore
che si leva il grido reclamante nuovi legami, nuova spiritualità, una nuova fedeltà al
sangue. Questo stadio 'romantico' di una cultura è il
momento in cui si sviluppa il fascismo”.
La fine del fascismo,
comunque, non ha mai costituito un valido motivo per Romualdi per piegarlo
all'accettazione della storiografia della disfatta, né per fargli considerare il fascismo una “parentesi” nella storia europea.
Lo studioso ha piuttosto
contemplato la decadenza con lo spirito militante della rinascita, con l’attitudine di chi sa che oltre il buio del presente vi
sono orizzonti che vanno scorti, costi quel che costi. L’orizzonte della rinascita europea per Romualdi non poteva
che essere la ripresa di un mito, di una “grande
politica” quale espressione di una
volontà di potenza.
Ecco perché lo schema di aurore e tramonti, caratterizzante la
storia europea, e del quale Romualdi aveva piena coscienza, non ha mai
determinato in lui l’accettazione del
nichilismo come condizione ineluttabile dell’uomo
europeo. Nietzscheanamente fedele alla visione ciclica della storia, Romualdi
ha sempre creduto negli eventi storici rigeneratori della coscienza e della
vita dei popoli. La stessa considerazione dell’avvento
dei movimenti fascisti è il sintomo più evidente dell’applicazione
di un “metodo nietzscheano” all’analisi dei grandi
avvenimenti. E così pure, derivata da
Nietzsche, in Romualdi è la concezione di una “grande politica” a
cui frequentemente, agli inzi degli anni Settanta, richiamò la destra italiana. Dagli scritti di Romualdi – ed in maniera particolare da quelli che qui di seguito
riproponiamo – emerge in maniera
evidente che la sua milizia culturale e civile si è interamente proiettata nel dare pratica attuazione ad un
progetto ideale ed esistenziale: la formulazione non di una teoria, di una
dottrina, di una ideologia, bensì di
una visione del mondo e della vita.
I “Leitbilder”, le immagini conduttrici che Romualdi ha inseguito nel suo
itinerario intellettuale sono state tutte parte di una Weltanschauung da lanciare non soltanto come sfida al nostro tempo,
ma anche quale proposta “attiva” e concreta di rinascita spirituale. La visione del mondo
è lo spartiacque ultimo e necessario di fronte alla
babele, linguistica e concettuale che domina la nostra epoca. Non si tratta con
questo di evitare la comprensione delle lacerazioni esistenti in altre
appartenenze, di aprirsi al mondo, di giocare su medesimi tavoli partite
culturali e politiche. Riaffermare la validità e
la persistenza della visione del mondo quale discrimine di differenti identità è piuttosto un modo per
riconoscersi, per sapere dove si vuole andare e con chi costruire. Visione del
mondo può e deve essere sinonimo di
aggregazione. Al contrario tutto sarà più difficile; la prospettiva nichilistica è sotto i nostri occhi.
Cosa sono mai la “nuova cultura” e
la “grande politica” se
non l’attuazione di una visione del mondo che contiene in sé – pur nella mutabilità delle condizioni operative – le chiavi di una progettualità culturale e civile? A cosa si riduce l’affanno nella precisazione di nuove essenze della
politica se manca lo scenario ultimo nel quale poterle far vivere? Il démone dell’intellettualismo che da
due secoli contamina l’Occidente sembra aver
attecchito anche là dove nessuno avrebbe
immaginato: è una vittoria della
civilizzazione borghese, scaturita dal razionalismo illuministico, che ha
sostituito la dittatura dei philosophes alla
tensione spirituale con tutto quello che questa parola significa. “Una volta il pensiero era Dio, poi divenne uomo, ora si è fatto plebe" , scriveva Nietzsche.
La metafora nietzscheana
rende efficacemente il clima ed il contesto odierno. Un mondo di assenze è intorno a noi. Ma è
difficile, impossibile, abituarsi a convivere con il nulla. Soprattutto per
quanti, come ritiene Adriano Romualdi, alla perennità dei valori della civiltà
europea non cesseranno di credere.
L’opera romualdiana, sia pure incompiuta, è tutta intrisa delle tematiche accennate. In maniera
quanto mai efficace lo sono i due scritti che ripubblichiamo: La Destra e la crisi del nazionalismo e Idee per una cultura di destra. Il primo ha visto la luce nel 1973, pochi
mesi prima della scomparsa dell’autore. Il secondo si
compone di due saggi, uno pubblicato nel 1965 come documento del Fuan che ebbe
una prima diffusione ciclostilata. Successivamente riapparve su “Pagine libere”
(settembre 1966) e sull’“Italiano” (luglio-agosto 1970). L’altro,
scritto nel 1973, nell’intento di Romualdi voleva
essere un'analisi degli autori e degli orientamenti della cosiddetta “nuova cultura di destra”,
per scorgere in essa quanto vi fosse di effettivamente valido e quanto invece
rispondesse a mere esigenze di “réclame” (il caso-Plebe). (...)
Entrambi i saggi
chiariscono – in una certa misura – quali possono e devono essere gli elementi supportanti
una “nuova cultura” ed
una “grande politica”.
Essi vanno letti in prospettiva, naturalmente.
E soprattutto tenendo conto che la destra italiana, nelle sue componenti più
colte e dinamiche ha abbandonato il
bagaglio nostalgico-ritualistico, il vuoto e viscerale (oltre che sterile ed
alibistico) anticomunismo, la discutibile forma
mentis vittimistica riscoprendo seriamente
le proprie radici, superando le tentazioni di chiusura e di diffidenza,
aprendosi ad una nuova concezione dell’Europa,
dei blocchi e del Terzo Mondo. Marco Revelli, studioso della cosiddetta “Destra radicale”,
osservò una trentina d'anni fa,
quando la destra era molto diversa da quella attuale e soprattutto
"visibile", non senza ragione: “Allora
(al tempo della contestazione, n.d.a.), alla domanda sul ‘perché’ la massa in rivolta degli
studenti, la spontanea effervescenza sociale si fosse espressa così massicciamente e radicalmente a sinistra, Adriano
Romualdi aveva risposto: ‘Perché dall’altra parte non esisteva
più nulla’; ora, questa destra
sembra intravedere la possibilità di
ripresa di un contatto positivo con strati ancora indifferenziati e
ideologicamente ‘vergini’ di società,
con nuove identità ‘generazionali’
(quella che potremmo definire la “generazione
post-rivoluzionaria”) ed intende giungere all’appuntamento ideologicamente attrezzata” (La cultura della
destra radicale, Angeli, 1985, p. 34).
Anche il riconoscimento di
un osservatore avversario testimonia che molte cose erano cambiate nell’ambito della destra intellettuale nel decennio
post-contestazione. Quegli “elementi” culturali e politici indicati da Romualdi come
sostanzianti una destra “possibile” (al riguardo sarebbe bene rileggere i molti articoli
dedicati da lui alla politica del Msi apparsi fra il 1970 ed il 1972 sull’“Italiano”) oggi non appaiono più come “eresie”; c’è stata una maturazione ed
una consapevolezza che hanno portato da un lato all’approfondimento teorico, dall’altro ad una “apertura
al mondo”. Concetti che agli
inizi degli anni Settanta, quando
Romualdi era ancora vivo, venivano
aprioristicamente condannati, non
soltanto sono stati poi accettati dalle aree politico-culturali sideralmente
lontane dalla destra, ma dibattuti, studiati, affrontati senza prevenzioni
manichee. Quello che continua a mancare è una
strategia culturale omogenea.
Nel 1986, premettendo a
questi saggi romualdiani considerazioni che in parte ho qui ripreso,
sottolineavo come molti “distinguo” si frapponevano nell’ambito
della destra impedendo l’affermazione della “nuova cultura”
come naturale supporto ad una auspicabile “grande
politica”. E oggi? Desolatamente
concludo che non esistendo più la destra, come l'abbiamo
conosciuta nel passato recente, paradossalmente i richiami di Adriano Romualdi,
liberi di rivolgersi a chiunque e di posarsi dove trovano opportunità di considerazione, rivestono un’importanza indiscutibile in un tempo come il nostro
caratterizzato da lacerazioni terribili ed ancor più tremendi abbandoni (contrabbandati per effervescenze
vitali) nel più disperato nichilismo. La
riconquista dei valori può essere il solo progetto
unificante che sta davanti a noi.
Nessun commento:
Posta un commento