Trieste è stata una città laboratorio per la destra italiana. Un elemento noto ma che riserva sorprese inedite se si legge con attenzione l'interessante studio di Pietro Comelli e Andrea Vezzà, Trieste a destra (ediz. Il Murice), nelle cui pagine sono racchiusi episodi significativi che rispecchiano le tendenze e le tensioni che caratterizzarono la storia del Msi a livello nazionale. Del resto che la storia locale sia quella che meglio consente di mettere in luce la tendenza generale del fenomeno studiato era convinzione sperimentata con successo dagli storici francesi delle Annales. E dunque leggendo il libro di Comelli e Vezzà tra le pieghe di un'attenta ricostruzione respiriamo di nuovo uno scontro interno tra l'anima sociale e di sinistra e la tendenza micheliniana a fare del Msi un partito d'ordine che guarda all'elettorato borghese, una contrapposizione che si chiude con il congresso di Pescara del giugno 1965 (quando la sinistra missina guidata da Almirante si accorda con il segretario Michelini producendo la fuoriuscita di numerosi elementi delusi dalla svolta a destra del Movimento). Ma apprendiamo anche che a Trieste l'orientamento del mondo attivistico è tutt'altro che affine alla destra, come dimostra il carisma acquisito sul campo da personaggi del calibro di Ernesto Massi. Eppure non si trattava di elementi di sinistra, visto che quei militanti e quei dirigenti non si tiravano certo indietro nelle battaglie di piazza per l'italianità del capoluogo giuliano, erano esponenti di un mondo che riteneva di poter coniugare le idealità del socialismo e del corporativismo con quelle della difesa della nazione. C'è un episodio in particolare nel libro, uno di quegli episodi a torto considerati "minori", che è in grado di dare un senso davvero simbolico a quella tensione interna al mondo postfascista che si risolve alla fine, per convenienza elettorale e per maggiore utilità dei controllori del Paese in un clima di guerra fredda, in un progressivo spostamento verso destra del partito nato nel 1946 sulle ceneri della Rsi.
Raccontano dunque gli autori che nel 1966 Trieste s'infiamma per il piano del governo che prevede la ristrutturazione della cantieristica nazionale con il conseguente ridimensionamento del comparto navalmeccanico e la minaccia al cantiere San Marco e la fabbrica macchine Sant'Andrea. Nelle piazze triestine entra in scena un soggetto politico nuovo, il mondo degli operai, laddove negli anni Cinquanta erano stati gli studenti a saldarsi con gli aneliti nazional-patriottici di cui il Msi si era fatto portavoce. Ma quando l'esasperazione porta i lavoratori allo scontro diretto con la polizia il Msi prende le distanze da manifestazioni che inizialmente aveva guardato con simpatia (eppure gli scontri con la polizia non erano sembrati al partito così gravi un anno prima, nel 1965, quando la piazza era stata mobilitata dai missini contro l'assessore filoslavo Hrescak, con il risultato di 45 arresti).
I militanti triestini della Giovane Italia decidono però, autonomamente, di essere a fianco degli operai nella guerriglia urbana che si scatena nei rioni Barriera Vecchia e San Giacomo. Anche in quest'occasione è il futuro di Trieste ad essere in gioco e dove altro dovrebbero stare, se non a fianco degli operai minacciati, i giovani di un Movimento che si chiama "sociale" e "italiano"? Il bilancio degli scontri fu di 500 fermati e 85 arrestati. Tra loro alcuni elementi della Giovane Italia che il Msi pensa bene di abbandonare al loro destino. Questa la testimonianza raccolta in proposito dagli autori dall'attivista triestino della Giovane Italia negli anni Sessanta Fabio Venchi: "Come Giovane Italia partecipammo ai moti dei cantieri triestini. Volevamo difendere una cosa che sentivamo nostra, pur avvicinandoci a posizioni che non erano le nostre ed entrando in un campo monopolizzato dalla sinistra. Ma quando toccano qualcosa che senti tuo, e i cantieri triestini erano simbolo e orgoglio di tutta la città, ti viene dapprima la voglia di lottare per difendere ciò che ritieni giusto, lasciando al dopo le discussioni e i ragionamenti politici in merito. Scendemmo in piazza autonomamente, perché il partito non ne voleva sapere, anche perché ci scontrammo con le forze dell'ordine. Mi ricordo l'episodio della garitta dei carabinieri di largo Barriera spazzata via con tanto di carabiniere al suo interno... Agli occhi degli operai eravamo allora ben accetti... il Msi non vedeva questi dialoghi di buon occhio e per questo motivo mi sono fatto tre giorni di 'guardiella' perché nessuno del partito è venuto a tirarmi fuori dal carcere". La linea conservatrice scelta farà toccare al Msi il minimo storico nel 1968 nel territorio provinciale (10%) ma intanto, come commentano gli stessi autori, la piazza triestina "era stata ceduta al movimento operaio proprio agli inizi della contestazione studentesca sessantottina".
L'episodio è davvero significativo: da quel momento ogni tentativo di uscire dal recinto della destra (che è non un recinto valoriale ma uno spazio caratterizzato dal riferimento a un preciso elettorato e da determinate posizioni in politica estera) che i giovani del Msi continueranno a sperimentare in modo autonomo e spesso in rotta di collisione con il vertice sarà punito e giudicato come pericolosa "eresia". Complice quello stesso Giorgio Almirante un tempo a capo della sinistra del Msi.
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