Luciano Lanna
Nel giugno del 1970 si tennero in Italia le prime elezioni per le regioni a statuto ordinario. E come primo effetto a luglio esplode la rivolta di Reggio Calabria, che si prolungherà per oltre un anno. Sorsero barricate, ci furono morti, attentati e scontri, il governo giunse a impiegare reparti militari per la repressione, le donne dei quartieri popolari reggini impararono come gli studenti universitari della contestazione a confezionare bottiglie molotov da lanciare contro la polizia. Il motivo della sommossa fu la mancata assegnazione a Reggio, quale capitale della Calabria, degli uffici regionali con le assunzioni connesse. Che erano state invece divise con Catanzaro e Cosenza. Il 5 luglio il sindaco democristiano della città, Pietro Battaglia, tiene un rapporto pubblico ai cittadini in piazza del Duomo e viene proclamato lo sciopero generale. Il primo cittadino viene immediatamente espulso dal suo partito mentre il Msi assume in un primo momento una posizione critica verso i suoi iscritti e simpatizzanti che avevano aderito alla rivendicazione. E anche per questo qualche giorno dopo vengono bruciate in piazza migliaia di copie del Secolo d’Italia in segno di protesta: tutti i giornali ne danno notizia. Qualche giorno dopo durante gli scontri con la polizia resta ucciso il reggino Bruno Labate, non era un missino ma un iscritto alla Cgil. Ma in quel momento quella prima vittima diventa il simbolo dell’intera città. Nella notte tra il 16 e il 17 luglio vengono incendiate le sedi del Msi e del Pci. E a catena si scatenò così una rivolta antipartitocratica che verrà capeggiata dal sindacalista della Cisnal ed ex consigliere comunale missino Ciccio Franco. Il primo documento ufficiale del Comitato d’azione della rivolta terminava così: «Per Reggio capoluogo: Boia chi molla!». Da quel momento tutti i giornali italiani manderanno i loro inviati nella città calabrese.
Il Secolo continua però a mantenere le distanze. I disordini di Reggio, si legge sul quotidiano diretto dal calabrese Nino Tripodi, sono da attribuire «all’inesorabile degenerazione del regionalismo». Sempre sul Secolo, il 23 luglio, il titolo «Urge a Reggio il ritorno alla normalità» denota la preoccupazione del partito di Almirante per la piega che stanno prendendo gli avvenimenti. Nell’articolo, infatti, si osserva che «pur tenendo in doverosa considerazione i travagli dei reggini e i loro problemi, non possiamo ignorare la critica situazione. Anche quando esiste, com’è il caso di Reggio, una situazione di annosa crisi permangono dei limiti che non possono essere valicati e dei valori incontestabili: autorità, Stato, rispetto della legge, delle persone e delle cose. Crediamo che a Reggio si desideri la tranquillità». Ma la popolazione, supportata anche da militanti del Fronte nazionale di Junio Valerio Borghese e di Avanguardia di Stefano Delle Chiaie, non “mollava”. E nel febbraio del 1971 arrivano i carri armati e parte una raffica di mandati di cattura.
A questo punto anche il Secolo cominciò a seguire la vicenda dei “boia chi molla” incaricando delle corrispondenze il suo giornalista Enzo Iacopino, che era reggino e che resterà al Secolo anche negli anni successivi prima di intraprendere una fortunata carriera attraverso il Settimanale, il Giornale di Montanelli e Il Mattino che lo porterà a diventare presidente nazionale dell’ordine dei giornalisti. L’allora inviato del quotidiano torinese La Stampa Giampaolo Pansa, incuriosito dal motto – “boia chi molla” – che aveva dato il nome a tutta la rivolta, chiese a Ciccio Franco se fosse stato lui a inventarlo. Ma il capopopolo calabrese alzò le spalle: «L’ho letto da qualche parte, lo gridavano durante il Risorgimento…». Sembra infatti che già nel 1799 avesse risuonato dalle barricate poste a difesa delle repubbliche giacobine di Roma e di Napoli. E poi c’è chi sostiene sia stata pronunciato a Milano durante le cinque giornate antiaustriache del 1848. Chi lo ricorda urlato da un certo sergente Sivieri che, in una terribile giornata del novembre 1917, durante la ritirata di Caporetto, con quelle parole avrebbe incitato i suoi soldati dopo che il loro generale s’era dileguato. Fin qui le tracce che si perdono nella tradizione orale. Poi la prima vera testimonianza documentata, arriva dall’uso frequente che ne faceva Roberto Mieville, nel 1944 prigioniero italiano non-cooperatore nel Fascist’s camp di Hereford negli Stati Uniti. Nel suo libro autobiografico Prigionieri nel Texas il giornalista Gaetano Tumiatilo ha raccontato descrivendo l’arrivo nel campo di concentramento del suo vecchio amico Roberto: «Dopo l’abbraccio, mi ha afferrato per le spalle e fissandomi negli occhi, mi ha detto: “Ghitan! Sapevo che ti avrei trovato qui. Boia chi molla! Gente come noi non si rassegna…».
Già in una lettera dell’11 aprile ’43, mentre tutt’intorno, in territorio tunisino, divampa la resistenza di un drappello di sopravvissuti italiani alla lunga ritirata dai confini egiziani, lo stesso Roberto Mieville, ventiquattrenne, scriveva alla madre: «Sii tranquilla che comunque e ovunque avrò tenuto fede al mio motto: Boia chi molla!». Quello stesso Mieville diventerà, una volta tornato in Italia, uno dei primi animatori del Msi. Fu il primo leader del raggruppamento giovanile e nel ’48 entrerà in Parlamento come giovane deputato. Si considerava “di sinistra” e sottolineava la matrice risorgimentale e socialista dell’impegno politico dei missini. Dopo la sua prematura scomparsa, avvenuta nel 1955 per un tragico incidente stradale, quando aveva solo trentacinque anni, tutti lo ricorderanno soprattutto per la sua eccezionale capacità oratoria e, appunto, i suoi slogan. Ha raccontato Pasquale Ometti, direttore nel 1957, del settimanale Rotosei, che quando in redazione arrivava lo scrittore Giuseppe Berto – che era stato accanto a Mieville e al pittore Alberto Burri a Hereford – c’era sempre «uno spiritoso che scattava in piedi gridando “Boia chi molla”…».
Tutto questo per escludere qualsiasi interpretazione della rivolta calabrese del ’70 come fenomeno reazionario, lettura cara a una certa sinistra. «Io a Reggio vedevo con i miei occhi – ha scritto la giornalista, reggina e di sinistra, Adele Cambria, anche lei tra gli inviati presenti in città – e sentivo con le mie orecchie che quella non era una “rivolta balorda” come scrivevano i miei colleghi dei quotidiani del Nord. Io vedevo sulle barricate i ragazzi di quindici, venti anni, dei rioni popolari di Sbarre e Santa Caterina, e mi chiedevo: possibile che il Pci non percepisca che a Reggio non sta accadendo qualcosa di vecchio ma che, al contrario, è scattato anche nella mia città quel meccanismo collettivo per cui gli esclusi trasformano la propria situazione in scelta e condizione privilegiata d’attacco?». In quanto ai sindacati – spiega la Cambria – «con la Cgil in testa forse prestavano fede all’antica vulgata marxiana secondo cui non ci sarebbe stata la Rivoluzione, con la “r” maiuscola, senza industrializzazione del paese…». La gente di Reggio disse invece no e per nove mesi le strade della città furono teatro di manifestazioni di massa e scontri duri tra i dimostranti e le forze di polizia. Dirà un parroco, anche lui tra i dimostranti: «Sì, c’è un po’ di America Latina e purtroppo anche un po’ di Vietnam qui… Chiedevamo il riconoscimento di un diritto, ci hanno mandato i battaglioni della Celere».
La rivolta era iniziata il 14 luglio 1970 e il 17 settembre arriva la notizia del mandato di cattura per «istigazione a delinquere» per Ciccio Franco il quale, per dirla col leader di Lotta Continua Adriano Sofri che era anche lui sceso in Calabria interessato alla vicenda, «fu il primo fascista ad approfittare del regalo che il Pci aveva fatto a Giorgio Almirante, condannando i fatti di Reggio…». Al principio, infatti, come abbiamo detto, il Msi era distratto da tutta la vicenda preso com’era dalla strategia almirantiana in doppiopetto tesa a prospettare una destra moderata e da maggioranza silenziosa. Ma a settembre fu forse proprio la discesa di Adriano Sofri in Calabria – Lotta Continua aveva fatto affiggere in tutta Italia un manifesto con la scritta: “Reggio capitale per uno scontro con lo Stato” – a far riflettere i vertici missini e a riappropriarsi del “Boia chi molla”. Poi il 60 per cento di voto reggini alle elezioni anticipate del 1972 convinse Almirante, e la componente movimentista del Msi, che la scelta era stata giusta. Anche perché Ciccio Franco – «il capopopolo più efficace della rivolta» secondo Sofri – era stato candidato al Senato come capolista del Msi e aveva conquistato al partito postfascista il 36 per cento dei voti. Un evento che per anni farà discutere dentro il Movimento sociale su quale fosse la strategia migliore per uscire dall’isolamento e diventare una forza a vocazione egemonica: quella di entrare nelle aree di malessere sociale, ad esempio del Mezzogiorno, come dimostrava Reggio, oppure quella della costruzione di una destra moderata che guardava all’elettorato benpensante in fuga dalla Dc e sensibile ai giochi di palazzo? Una politica oltre la destra e la sinistra da una parte, una tattica finalizzata a condizionare la Dc dall’altra, come poi si vedrà anche nella scelta di affiancare Fanfani nel referendum contro il divorzio.
Non a caso, i fatti di Reggio, insieme a quelli sessantottini di Valle Giulia in cui gli studenti missini si erano schierati con tutti gli altri e contro la polizia, diverranno fino al 1976 e anche oltre, i due esempi della possibilità di un’“altra politica” per il Msi, quella – per dirla col giovane Marco Tarchi, che introdusse l’espressione – dello «sfondamento a sinistra». Non è casuale, del resto, la comune condanna della repressione militare della rivolta di Reggio, da parte del deputato missino Beppe Niccolai – apparsa proprio in un editoriale sul Secolo – e del leader sessantottino Adriano Sofri. «Al coinvolgimento popolare – ha spiegato l’ex leader di Lotta Continua – corrispose un coinvolgimento dello Stato in funzione di pura repressione poliziesca e militare. Era la prima volta che lo Stato repubblicano interveniva con un presidio così vasto e forte in un’intera regione italiana, rimanendoci per un anno e mezzo. Era inimmaginabile, era qualcosa che somigliava all’Irlanda…». Ma di questa rivolta – che assicurerà al Msi grandi consensi elettorali nel Mezzogiorno per quasi tutti gli anni Settanta – prevarrà la rimozione pubblica di fronte alla strategia almirantiana della destra nazionale. Anche se i nodi irrisolti verranno al pettine subito dopo la crisi-scissione del 1977.
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