venerdì 31 gennaio 2014

La storia vista da Huizinga: cogliere la "forma" oltre le novità



Annalisa Terranova
Morì prigioniero dei tedeschi, il 1 febbraio del 1942, il grande storico Johan Huizinga, autore del capolavoro L’Autunno del Medioevo. Nato a Groninga nel 1872, docente all’università di Leida, figura di erudito conservatore, influenzato dalle idee di Georg Simmel, Huizinga intuì la decadenza dell’Occidente (come testimoniano le dense pagine de La crisi della civiltà) e reagì cercando con il suo lavoro storico la perfezione della forma che l’uomo imprime al tempo e alla società nell’illusione di rendere la sua opera eterna. “Ciò che lo storico vede sono forme della vita collettiva, dell’economia, della credenza, del culto, forme di diritto e di legge, forme di pensiero, forme di creazione artistica… Ognuna è una forma di vita, e perciò ogni forma contiene una funzione”.
Applicando questo metodo Huizinga in un altro dei suoi lavori memorabili, Homo ludens, individua nel grande gioco della cavalleria la forma di espressione più alta della cultura medievale. Ma è ancora di più con L’Autunno del medioevo (1919), con l’ “efficacia pittorica” delle sue pagine e con il rievocare il mondo sognante e dorato della Borgogna tardomedievale,  che Huizinga lascia una traccia indelebile nella storiografia, completando, e in qualche modo superando il lavoro di Burckhardt sul Rinascimento italiano. Ha scritto Eugenio Garin: “Quel che Burckhardt aveva fatto per l’Italia Huizinga faceva per la Borgogna , col duplice risultato di superare la rottura Medioevo-Rinascimento, e di sfumare l’autunno medievale nella primavera rinascimentale tanto da dare l’impressione che i toni serali dell’uno e quelli aurorali dell’altro si rassomigliassero fino a confondersi”.
Non trascinato dalla ricerca della novità nelle fasi storiche studiate, Huizinga al contrario dello storico suggestionato dall’idea di progresso è interessato a cogliere nel passato la forma, appunto, in cui una vecchia idea muore e una nuova idea nasce. Per questo egli colloca in piena età rinascimentale quella che per lui è la fine della civiltà medievale divenuta come “un albero completamente sviluppato e carico di frutti troppo maturi”. Affascinato dalle fasi di crisi, nell’Homo ludens conduce una critica spietatà all’età moderna, avvertendo il lettore che, mentre nell’antichità il gioco si fissa come forma di cultura, la ludicità dei moderni scade nel puerilismo e riti e miti, allontandosi dal simbolo, rappresentano solo il momento ideologico di una cultura immersa “nelle ombre del domani”.

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