Francesco Pullia
Mentre
il Tibet è in fiamme (e non è una metafora), il regime comunista (militar-statalista-capitalista) cinese continua
a mostrare i muscoli e a esercitare ingerenze a livello internazionale. Stando
a quanto si apprende da un articolo di Frank Ching apparso nel sito The China Post, il governo spagnolo,
cedendo alle pressioni di Pechino, si appresterebbe a limitare i poteri
dell’Alta Corte di giustizia e a bloccare la sentenza d’arresto per genocidio
di cinque ex leader cinesi, inclusi gli ex presidenti Jiang Zemin e Hu Jintao,
pronunciata il 18 novembre 2013. La legge prevede che la corte possa emettere
una sentenza “quando l’accusato si trova sul territorio spagnolo oppure le
vittime hanno la nazionalità spagnola o un legame con la Spagna”. La corte
madrilena ha emesso il verdetto in quanto una delle parti civili nel processo è
un tibetano, Thubten Wangchen, che ha acquisito la cittadinanza spagnola nel
periodo successivo a quello in cui gli accusati si sono macchiati dei reati
loro riconosciuti. Sembra che adesso il governo spagnolo sia sul punto di
modificare la legge stabilendo che in futuro la vittima dovrà possedere la
cittadinanza spagnola fin dal momento in cui si sono svolti i fatti se non
addirittura da due anni prima. Sarebbe l’ennesima capitolazione di uno Stato
sovrano alle pressioni della Cina in nome degli interessi economici.
In
Tibet, intanto, Tsuiltrim Gyatso, quarantadue anni, monaco del monastero di
Amchok, contea di Sangchu, regione dell’Amdo, si è immolato con il fuoco. È il
125° tibetano che all’interno del Tibet dal 2009 attua questa tragica forma di
protesta. Già due anni fa, nella stessa contea, quattro tibetani si erano
autoimmolati.
Un
monaco del monastero di Tarmoe, Ngawang Jamyang, quarantacinque anni, è morto,
invece, in prigione per le torture inflitte dalla polizia.Assieme ad altri due
monaci era stato fermato a Lhasa con l’accusa di “collusione con le forze
separatiste”.
Oltre due terzi
dell’antica città di Gyalthag, situata nella contea di Dechen, provincia dello
Yunnan, sono andati distrutti da un colossale incendio sviluppatosi nella
serata di sabato 11 gennaio. Le fiamme hanno devastato più di trecento
abitazioni. Non ci sono vittime ma molti residenti sono rimasti senza casa.
Gyalthag,
ribattezzata dai cinesi “Shangri-la”, quattro anni fa fu teatro di un imponente
trasferimento della popolazione nomade tibetana. Oltre 6.000 pastori
appartenenti a 1.300 diverse famiglie nomadi furono deportati in alloggi
stanziali in ottemperanza a un preciso programma governativo.
Il 10 gennaio un
incendio ha distrutto un monastero femminile
nel complesso di Sertar Larung Gar, nel Sichuan. Due monache sono
rimaste ferite e 2.600 persone sono rimaste senza alloggio. Le cause del rogo,
alimentato dal forte vento, non sono state appurate ma fotografie postate sul
sito cinese weibo.com e
su facebook sono state rimosse.
Dell’importante
complesso monastico si parlò nell’estate del 2001 quando le autorità cinesi
deportarono con la forza migliaia di monaci e monache e ne distrussero le
abitazioni costringendo i religiosi a vagare tra i boschi, senza alcun riparo.
L’abate, Kenpo Jigme Phuntsog, che si era rifiutato di partecipare alle
cerimonie per l’intronizzazione del Panchen Lama “cinese” fu arrestato e
trasferito in un ospedale di Chengdu dove morì poco tempo dopo, in circostanze
mai chiarite.
Gli due ultimi
incendi si aggiungono a quello divampato nella notte di sabato 16 novembre 2013
nella contea di Lithang, nel Sichuan. Le fiamme avevano allora gravemente
danneggiato il secolare monastero di Ganden Thubchen Choekhorling e distrutto
la principale sala di preghiera insieme alle statue e ai preziosi manufatti che
la ornavano.
Il verificarsi di tre
grossi incendi nell’arco di soli due mesi pone l’inquietante interrogativo se
siano dovuti a tragiche cause accidentali o frutto di deliberati atti di
sabotaggio. Il sito tibetano Tibettruth ipotizza
che i roghi siano “motivati politicamente” istigati da un regime che vede nei
centri religiosi tibetani un terreno propizio alla crescita del dissenso e alla
resistenza contro la tirannia cinese. La stessa Amministrazione Centrale
Tibetana, deplorando l’incendio sviluppatosi a Gyalthag e auspicando la pronta
ricostruzione dell’antica città secondo le tradizionali caratteristiche
architettoniche, fa sua l’ipotesi di “falsi incidenti” provocati ad arte dal
governo cinese in nome di un presunto “rinnovamento urbano”.
“Nel 1950”, ha
affermato lo scorso dicembre Dichi Chhoyang, dell’Amministrazione centrale
tibetana, davanti alla Commissione straordinaria del Senato italiano, “quando
l’Esercito di Liberazione occupò il Tibet, i cinesi promisero ai tibetani il
“paradiso socialista”. Dopo oltre sessant’anni di cattivo governo, in Tibet non
vi è socialismo ma solo colonialismo, non vi è un paradiso ma soltanto
tragedia. Le notizie che giungono dalla nostra patria raccontano storie di
distruzione - compresi la nostra lingua e il nostro ambiente - di sparizioni,
di discriminazioni, di detenzioni e arresti, di torture e condanne a morte
senza processi. Oggi, in Tibet, ammonta a 1.204 persone il numero dei
prigionieri politici accertati. Solo quest’anno sono stati incarcerati più di
254 tibetani e dal 2008 sono state sentenziate 22 condanne all’ergastolo. Nel
Tibet occupato non conoscono sosta la repressione politica, l’assimilazione
culturale, la marginalizzazione economica e la distruzione ambientale. La nuova
linea ferroviaria che collega Pechino a Lhasa esporta le nostre risorse
naturali e importa un numero sempre maggiore di migranti cinesi. Oggi, circa il
70%delle aziende del settore privato sono possedute o gestite dai cinesi e più
del 50% dei funzionari governativi sono cinesi. Circa il 40% dei tibetani con
un titolo di studio universitario o con un diploma di scuola superiore sono
disoccupati. Un esempio di questa situazione è fornito dalla fotografia,
pervenutaci clandestinamente, di un cartello di ricerca di personale esposto
nella vetrina di un negozio di Lhasa un paio d’anni fa. Venivano offerti 30
remibi per l’assunzione di un tibetano e 50 per l’assunzione di un cinese: un
caso lampante di discriminazione economica. I tibetani sono stati ridotti a
cittadini di seconda classe nella loro stessa terra”.
In
un articolo pubblicato sulla Tibetan Political
Review, Tenzin Dorjee, direttore esecutivo di Students for a Free
Tibet,
ha intnato esposto le motivazioni del “Lhakar Karpo”, letteralmente "Mercoledì Bianco",
movimento di resistenza popolare tibetana contro l'occupazione cinese e il
rischio di una totale sinizzazione del paese. “Lhakar” intende esercitare la
nonviolenza e la non cooperazione in una molteplicità di modi diversi.
“I tibetani – scrive
Tenzin Dorjee - si rendono conto di come le loro azioni individuali possono
cambiare il futuro collettivo. Il discorso sulla resistenza sta cambiando,
anziché porre l'accento sul vittimismo, enfatizza l'azione, la creatività e la
strategia.(…) Come dimostrato più e più volte in altre rivoluzioni, nulla può
più efficacemente abbattere i pilastri di una dittatura che una diffusa e
condivisa campagna di non-cooperazione. (…) Se l'adesione al movimento si
esplicherà in mille modi diversi, come farà il governo cinese a sfidarli tutti? Coloro
che hanno passione per la scrittura potrebbero dedicare ogni settimana almeno
un'ora ad un lavoro di editing delle voci di Wikipedia correlate al Tibet per
verificare che siano veritiere; coloro che hanno piani tariffari illimitati
potrebbero, il mercoledì, passare una "happy hour" a telefonare ai
consolati e alle ambasciate cinesi mettendoli alle strette circa il trattamento
riservato dal loro governo ai tibetani; chi sta imparando il tibetano potrebbe
leggere le notizie in tibetano, almeno una volta alla settimana; chi è
cresciuto in occidente potrebbe sintonizzarsi, ogni mercoledì, sui servizi in
lingua tibetana di Radio Free Asia, di Voice of America o di Voice of Tibet;
gli amanti dello shopping potrebbero dedicare un paio d'ore ogni mercoledì a
convincere i negozianti e i rivenditori a sostituire i prodotti
"Made-in-Cina" con prodotti con "Made-in..."[inserendo il
proprio paese di residenza]; gli studenti potrebbero, ogni mercoledì, ricoprire
i loro campus di volantini di denuncia delle ingiustizie in atto in Tibet e di
come correggerle. Queste sono solo alcune tra le decine di azioni che le
persone potrebbero compiere in sintonia con le proprie capacità, abilità e
interessi. (…) Il fascino di Lhakar sta proprio nel suo essere un movimento
volontario, flessibile e adatto a tutti. Dobbiamo consentire a ogni persona di
contribuire al movimento liberamente e secondo le sue preferenze, non
costringerla a conformarsi a determinate regole e apparenze. (…) In America,
all'epoca del Movimento per i diritti civili, molti professionisti e ricchi
uomini d'affari di colore chiedevano a Martin Luther King di rallentare il suo
impegno nella campagna per l'uguaglianza. "Non agitare le acque", lo
imploravano "Se spingi troppo, potremmo perdere anche quel poco che
abbiamo guadagnato”. Fortunatamente per tutti noi, il Movimento per i diritti
civili ha, invece, continuato ad agitare le acque. (…) Ora è il momento di rafforzare
Lhakar, amplificando la sua filosofia e intensificando la sua pratica non al
ritmo dettato dalla Cina, ma a quello scelto dai tibetani. Questo non è il
momento di dividere i tibetani in attivisti contro pacifisti, in dediti alla
politica contro dediti alla cultura, in laici contro religiosi. Dobbiamo
attenuare i confini tra la cultura e la politica, tra il sociale e lo sviluppo
economico poiché tale divisione in compartimenti stagni non esiste nella vita
reale: viviamo contemporaneamente in ognuna di queste sfere. Non è lontano il
giorno in cui il governo cinese vedrà in ogni tibetano un attivista e
considererà sovversiva ogni sua azione. Quando ciò avverrà sapremo che la Cina
ha perso la battaglia per Tibet”.
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