domenica 26 ottobre 2014

Cancogni e Leone cattolici, Zizek fascista di sinistra



Luciano Lanna

Come altre volte, segnale alcune interviste apparse oggi sui giornali, anche perché le ritengo la cosa più interessante da leggere, soprattutto di domenica. Cominciando dalla bella conversazione di Antonio Gnoli con lo scrittore novantottenne Manlio Cancogni  su la Repubblica. Dove si scopre che, dopo una giovinezza laica e atea, Cancogni oggi si riconosce come credente: “La fede non si rivendica, si testimonia semmai. Sono cresciuto in una famiglia cattolica. Non ho avuto un rapporto facile con la religione. Mia madre se ne serviva per terrorizzarmi. Ogni volta che andavo a confessarmi era una sofferenza enorme. A vent’anni ero un ateo convinto. Poi a poco a poco mi sono riavvicina al cattolicesimo….”. La svolta è datata 1993: “Il rapporto con la fede si è rafforzato con la scomparsa di mia figlia. Ho reagito cercando un senso al dolore”. E quindi la conclusione: “Ma cosa vuol dire laico? È solo un’etichetta. Sono convinto che senza un apporto dell’aldilà non andiamo da nessuna parte”. Non manca, in altra parte dell’intervista, un’analisi del fascismo. I fascisti vengono descritti da Cancogni come “arroganti, violenti, illiberali, retorici”. E il regime con la dittatura produsse, aggiunge lo scrittore, “un diritto che faceva schifo e delle leggi omicide”. L’unica nota positiva, in controtendenza rispetto alla interpretazione canonica e crociana, è sul versante culturale: “La cultura è la cosa migliore che il fascismo abbia prodotto. Sono state realizzate cose che sono sopravvissute: architettura, arte, cinema, editoria, musica. Molto di quello che conosco – conclude Cancogni – e delle mie ambizioni letterarie è nato in quel periodo”.
Sempre su la Repubblica segnalo anche l’intervista postuma di Christopher Fryling a Sergio Leone (anticipazione dal libro C’era una volta in Italia. Il cinema di Sergio Leone, dal 29 ottobre in libreria per le Edizioni Cineteca Bologna). “Alle mie spalle – ammetteva Leone – c’è ovviamente tutta una cultura di cui non posso sbarazzarmi. E non posso neppure negarla. Per esempio, respiriamo quotidianamente il cattolicesimo, anche chi non crede. E ciò traspare in certi aspetti dei miei film. È nell’aria. Inoltre, quando faccio un western, ho delle cose da dire. Mentre preparavo Per un pugno di dollari, il mio primo western, mi sentivo come William Shakespeare che, ho scoperto, avrebbe potuto scrivere ottimi western... Così come sono convinto che il più grande scrittore di western sia stato Omero. Ha scritto storie favolose sulle vicende di singoli eroi come Achille, Aiace, Agamennone, tutti prototipi per i personaggi interpretati da Gary Cooper, Burt Lancaster, Jimmy Stewart e John Wayne…”.
Terza e ultima intervista da segnalare quella di Luca Mastrantonio al filosofo sloveno – hegeliano e lacaniano – Slavoj Zizek e che compare sull’ultimo numero de La lettura, il supplemento domenicale di cultura del Corriere della Sera. Nel suo studio, descrive il giornalista. campeggiano mini-busti di Marx e Lanin, eppure Zizek viene criticato per alcune sue uscite provocatorie e per il suo modo di vestire, gira ad esempio con una maglietta nera di Melville press: “Dicono che è da fascista! Io rispondo con un motto di Mussolini: ‘Cari amici soldati, i tempi della pace sono passati!’…”. Lui è un avversario dichiarato del neoliberismo trionfante e sogna “un super-Stato contro le derive di finanza e biogenetica”. Eppure, qualcosa non gli torna: “Sono uno di sinistra e bla bla… Ma ho avuto problemi con i sindacati che sono nelle mani dei lavoratori, come gli statali, che difendono i propri privilegi e non i diritti dei poveri: giovani, precari, disoccupati. E se li tocchi dicono che sei un neoliberale”. I suoi prossimi lavori? “Mi piacerebbe fare un libro su personaggi da rivalutare, come Cesare Borgia o Galeazzo Ciano: l’Albania fascista con lui visse un’età d’oro…”. Non è un caso che a molti Zizek risulta un po’ urticante. Lui ammette: “Mi odiano, mi danno del fascista di sinistra, dello stalinista, mi accusano di plagi: accetto però il rischio di essere frainteso…”.


venerdì 24 ottobre 2014

Il libro di Griner sulle "anime nere": chi erano gli stupratori del Circeo



Di seguito ampi stralci del capitolo "I fatti del Circeo" dall'ultimo libro di Massimiliano Griner "Anime nere. Personaggi, storie e misteri dell'eversione di destra" (Sperling & Kupfer)

"Una delle foto simbolo della violenza degli anni Settanta l'ha scattata il fotografo del Tempo Antonio Monteforte. La sera del primo ottobre 1975 la sua radio era sintonizzata, come al solito, sulle frequenze della polizia. Aveva captato una richiesta di intervento per uno strano 'miagolio' che proveniva dal bagagliaio di una Fiat 127 parcheggiata in via Pola, nel signorile quartiere del Salario. L'obiettivo del fotografo inquadra il bagagliaio aperto e una ragazza viva, pesta e stravolta, che viene aiutata a uscire dalla polizia. Si chiama Donatella e ha solo 17 anni. Nel bagagliaio c'è anche il corpo della sua amica Rosaria Lopez, diciannove anni, avvolto dal cellophane. Sono sufficienti poche ore per chiarire che cosa si nasconde dietro quell'immagine orribile. Il pomeriggio del 29 settembre le ragazze sono state attirate con il pretesto di una festa in una villa di San Felice Circeo dal ventenne Angelo Izzo e dal suo coetaneo Gianni Guido. Per due giorni i due, sotto l'effetto di cocaina e anfetamina, le hanno denudate, segregate, minacciate con una pistola, costrette ripetutamente a compiere sesso orale e a inscenare un rapporto lesbico. La situazione è precipitata con l'arrivo di un amico dei due carnefici, Andrea Ghira, che ha violentato Rosaria per via vaginale e anale. Tutti poi hanno concorso a toglierle la vita immergendole la testa nella vasca da bagno piena d'acqua. Donatella si è salvata solo perché gli assassini, dopo averle fatto un'iniezione di sedativo, averla percossa con un bastone e soffocata con un cuscino, la credevano morta. Rintracciare Guido, al cui padre è intestata la Fiat 127, e fermare Izzo, è solo questione di ore. La polizia invece non riuscirà mai ad arrestare il più scaltro Ghira, che gode di un'efficace rete di protezione e sparirà nel nulla.
(...)
Lo stupro è ancora considerato un delitto contro la morale, e in molti casi a finire sul banco degli imputati è la donna. Perché se è stata violentata forse è di cattivi costumi, indossava abiti succinti o aveva scatenato il desiderio del maschio, Per il movimento femminista il Circeo rappresenta così un'ottima occasione per denunciare le storture, l'arretratezza e il maschilismo dell'intera società italiana degli anni Settanta dove la condizione della donna rimane quella tipica di un paese premoderno. La presenza in corteo delle donne femministe anima il processo che si tiene a Latina. Le femministe fanno di Donatella un simbolo (...)



Il padre di Izzo, Rocco, è un professionista affermato. La madre di Ghira è una triestina di origini nobili; il padre, Aldo, è un ex atleta olimpionico di nuoto, animatore della squadra Settebello alle Olimpiadi di Londra del 1948, e possiede un'impresa edile. Il padre di Guido è un importante funzionario di banca. Tutti poi li conoscono come fascisti...Izzo era già finito sotto processo, insieme con altri due amici, per aver sequestrato due minorenni, in questo caso di buona famiglia, e averle costrette a un rapporto orale. Era stato condannato a due anni per violenza carnale, ma la pena era stata sospesa con la condizionale. Anche perché Izzo era stato in cura da uno psichiatra, che aveva riscontrato un'alterazione della personalità provocata da un iposviluppo anatomico, da una fimosi operata solo tardivamente, a sedici anni. Ghira invece era stato condannato per rapina a tre anni, ma era uscito dopo soli 18 mesi. La giustizia era stata particolarmente clemente nei loro confronti anche perché i loro famigliari avevano messo mano al portafoglio e risarcito le vittime.



Per l'Europeo sono semplicemente di razza fascista... Antonio Caprarica, che in quel tempo scrive per l'Unità, li definisce "i discendenti dei dignitari del regime mussoliniano". Sulle colonne del Corriere Lietta Tornabuoni parla di "ragazzi della Roma-male, figli di ricchi professionisti, facce carine, pullover alla moda, belle automobili, belle case, belle estati e dietro tutto il nero brulicare che può fare d'un ragazzo un assassino... gli ultimi eredi della colce vita sono neri, e ammazzano"!. Italo Calvino non ha dubbi. Quelli del Circeo sono picchiatori fascisti e quello che hanno commesso è intimamente legato alla loro idoelogia politica. Ancora una volta l'unica voce dissonante dal coro è quella di Pier Paolo Pasolini: 'I poveri delle borgate romane possono fare e fanno effettivamente le stesse cose che hanno fatto i giovani dei Parioli...'.
(...)
Ogni qualvolta Izzo entra in un nuovo carcere, così come farà Guido, si qualifica come detenuto di destra. Fin dalla terza media ha frequentato la sezione del Msi di via Tolmino e la Giovane Italia, e ha un nonno che è stato un acceso fascista ancora prima della marcia su Roma. Ma se riesce a convincere i carcerati per reati comuni non sempre ha successo con i 'politici'. Valerio Fioravanti e Franco Freda, per esempio, lo guardano con fastidio. Per loro non è un fascista ma solo uno stupratore. Questo però non gli impedisce di coltivare rapporti con personaggi noti dell'ambiente, da Ermanno Buzzi a Mario Tuti, da Pierluigi Concutelli e Edgardo Bonazzi. Contatti che gli consentiranno di raccogliere informazioni che poi, a partire dalla metà degli anni Ottanta, quando si trasforma in collaboratore di giustizia, gli risultano estremamente utili.

(Izzo ottiene la libertà anticipata nel 2005 e uccide una donna e sua figlia di soli 14 anni. Gianni Guido fu condannato in primo grado all'ergastolo, poi a 30 anni in appello. Nel 1981 evade e scappa in Argentina. Nel 1994 viene intercettato a Panama e scattano le procedure per l'estradizione. Andrea Ghira, da subito latitante, si arruola nel Tercio spagnolo e muore di overdose nel 1994)

Queste le parole di Donatella Colasanti sui suoi aguzzini: "Sono ragazzi malati che andavano curati. Né estremisti di destra né pariolini. Solo malati bisognosi di cure". (intervista a La Stampa del 3 settembre 1993)

martedì 7 ottobre 2014

"Confini e conflitti" di Marco Valle: il filo perduto dell'identità italiana





Dall'introduzione al libro di Marco Valle "Confini e conflitti. Uomini imperi e sovranità nazionale"(Eclettica)

La memoria di un popolo è il risultato di innumerevoli, minuscole memorie, di una miriade infinita di carte, appunti, documenti, racconti. Un patrimonio immenso di conoscenze, esperienze, sentimenti che, attraverso il passato, si trasmettono da padre in figlio, da generazione a generazione. L'identità di un popolo è un sottile filo d'Arianna snodato tra le porte del tempo, un giacimento spirituale che dà sostanza, forza ai nomi illustri, alle ricorrenze ufficiali. Alla retorica dei vivi, al ricordo dei morti.
La storia di un popolo è un colorato mosaico formato da tante piccolissime tessere, tutte da leggere e interpretare. Per ritrovare un senso. Un destino.
Purtroppo in questo presente superficiale, liquido, comprendere il passato diventa sempre più questione complessa, complicata e la memoria rischia - come nell'Egitto post Tolemaico - di sembrare un incomprensibile geroglifico e l'identità somiglia ormai a una vuota piramide. Immagini pittoresche e inoffensive. 
Per ritrovare il mitico filo e tentare di capire l'Italia - una realtà complessa e incompleta, sorta tra mille incertezze e sviluppatasi in modo strampalato e confuso - non basta l'incandescenza delle passioni, non servono ragionamenti algidi o visioni moralistiche e, tantomeno, ubbie nostalgiche. Per comprendere i crinali di crisi della contemporaneità è urgente scardinare gabbie ideologiche, abbandonare vecchie abitudini e indagare le contraddizioni, ricostruire i contesti, sforzandosi di ritrovare le motivazioni che mossero i protagonisti del nostro ieri. Come ci insegna il grande Marc Bloch non è più tempo d'antiquari rassicuranti ma è ora di "analizzare il passato in funzione del presente e il presente in funzione del passato". Da qui questo libro. Un tentativo di esplorare, attraverso una somma di ipotesi di lavoro aperte e volutamente frammentarie, alcuni passaggi... L'Italia come una tavolozza confusa in cui i colori fiochi del conformismo si alternano ai bagliori d'intelligenza e coraggio dei soliti pochi, un'equazione impossibile in cui l'ignavia dei più si oppone pervicacemente all'orgoglio lungimirante delle minoranze. Ecco, quindi, Luigi Rizzo e Mattei, Missoni e Broglio, Brazzà, Verdi e Cavour. 

L'indagine sul Novecento del libro di Marco Valle esamina anche il "miraggio cattivo" del comunismo e la sua influenza nello scacchiere geopolitico e infine la decolonizzazione in Asia e in Africa dalla quale non si può prescindere per capire la catastrofe umanitaria che oggi oscura il Mediterraneo. 

Occhio all'etichetta/3 Acquistare l'olio



Prosegue il nostro viaggio tra le etichette degli alimenti sulla base della guida di Pierpaolo Corradini "Quello che le etichette non dicono" (edizioni Emi). Dopo uova e latte ci occupiamo dell'olio. 
Com'è noto l'olio extravergine di oliva è solo quello "ottenuto dal frutto dell'olivo mediante processi meccanici o altri processi fisici in condizioni che non alterano l'olio stesso", quello vergine è identico al primo ma di qualità inferiore, mentre la dicitura "olio d'oliva" si riferisce a miscele di olio d'oliva, anche raffinato, e altri oli vegetali in proporzioni variabili.

"Prima spremitura a freddo" significa che le olive sono state spremute meccanicamente a meno di 27 gradi mentre gli "oli estratti a freddo" sono quelli in cui la temperatura è la stessa ma l'estrazione avviene tramite un procedimento di percolazione e centrifugazione della pasta di olive. 
Dal 2009 l'etichetta deve riportare lo Stato o gli Stati in cui le olive sono state raccolte e deve avvertire se l'olio e comunitario o no (l'Europa produce circa l'80 per cento dell'olio di oliva mondiale, e la sola Italia il 40% della produzione europea). Gli altri oli (mais, arachide e girasole) vengono tutti raffinati prima di essere messi in circolazione per la vendita. La raffinazione consiste in una serie di processi utili come la deacidificazione, ma anche superflui, come la decolorazione. Alternativi all'olio di oliva sono l'olio di riso, l'olio di semi di sesamo e l'olio di semi di lino, ricco di Omega 3. 

lunedì 6 ottobre 2014

Perché il contrario dell’amore non è l’odio, ma il potere





Lucilio Santoni

Prendo spunto da una lezione che recentemente Emilio Gentile ha tenuto al Festival del Diritto di Piacenza. Gentile ha trattato con intelligenza e precisione, da par suo, la modalità con la quale il capo gestisce le masse, facendo particolare riferimento alla celebre opera di Gustave Le Bon Psicologia delle folle. Volendo sintetizzare, potremmo dire che la massa segue le opinioni e non certo il pensiero, il quale è troppo difficile e faticoso da coltivare. Allo stesso tempo ha bisogno di un capo, proprio perché le è confacente comportarsi come un gregge. Pertanto, ad esempio nel linguaggio, il capo deve adottare uno stile semplice, chiaro, aforistico e al contempo perentorio, assertivo e ripetitivo. In definitiva, il capo deve guidare la folla dei suoi sottomessi che lo osannano proprio seguendo le loro opinioni, le quali ondeggiano continuamente in modo irrazionale. E proprio in quest'ultimo dato risiede la difficoltà dell'impresa di conquistare e mantenere il potere, impresa non alla portata di tutti, bensì solo di chi ha quella particolare qualità di cogliere tale continuo ondeggiare e legarlo al proprio prestigio personale. A quel libro, datato 1895, novello Principe di machiavelliana memoria, si sono direttamente ispirati Mussolini, Hitler, Lenin, Roosevelt, Da Gaulle, Ataturk e molti altri, evidentemente fino ai giorni nostri, che non nominiamo ma che nessuno farà fatica a riconoscere.
Io vorrei qui, invece, ragionare su coloro che si sottraggono alla logica del potere, sul perché lo fanno e, soprattutto, scoprire se ne traggano “vantaggi” concreti. Per cominciare, mi avvarrò di un semplice schema costituito da una figura geometrica: il triangolo. La base sarà costituita dagli ondeggiamenti, sopra nominati, della massa. Tali ondeggiamenti sono causati da un’infinita serie di paure, angosce, sensazioni, fugaci pensieri, suggestioni, ma anche cose materiali, quali sono i fenomeni della natura o le più recenti invenzioni della tecnica che permettono, apparentemente, di dominare il mondo. Voglio dire che, come infiniti sono i punti che costituiscono la base del triangolo, infinite sono la cause e le ragioni del continuo ondeggiare della massa. Ma, come nel triangolo, salendo verso l'alto, i lati si congiungono in un solo punto, il vertice, così nel nostro caso riguardante il capo e le folle, i molteplici dati di partenza convergono in un unico punto: la vendita del prodotto, cioè la presa del potere. Se questa non si verifica, tutta la costruzione si rivelerà priva di senso. La pubblicità più bella e costosa, se non porta a far decollare le vendite, sarà un disastro su tutti i fronti. Se un aspirante tiranno, seguendo fedelmente l’analisi di Le Bon, non arriverà a conquistare il potere, avrà per sempre le stigmate del fallito.
Si potrà dire che così è la vita. Che è sempre stato così: un gioco di potere. A tutti i livelli, dall’ambito della famiglia, al gruppo, alla nazione, al mondo intero. Che non ci si può sottrarre, a meno che non si voglia scioccamente essere rinunciatari e perdenti. Che vale la pena provarci, salire sul ring e combattere.
Invece, io vorrei ragionare su un altro aspetto della vicenda umana. Vorrei, per esempio, iniziare dicendo che se quella molteplicità, la base del triangolo, viene fatta convergere verso un punto, unico e imprescindibile, allora quella molteplicità verrà necessariamente sacrificata a quell'obiettivo. Ogni sentimento, ogni relazione, ogni poesia, ogni amore, ogni sensibilità, ogni intelligenza verrà sacrificata all'altare del potere e della vendita (i quali termini sono qui intercambiabili). Tali prerogative della natura umana saranno cancellate e non avranno alcuna possibilità di fiorire se costantemente soffocate dalla venerazione di quell’unico dio. Già lo diceva con parole infuocate di poeta Charles Baudelaire quando parlava dei commercianti come di coloro dei quali non ci si può fidare perché ogni momento della propria vita, anche il più intimo, tentano di trasformarlo in denaro e hanno la testa solo lì e da nessun’altra parte.
Il poeta, in effetti, è il contrario del commerciante. È colui che rovescia il triangolo: parte da un punto, parte da quell'unica cosa che dicono (che tentano di dire) tutti i poeti di ogni luogo e di ogni tempo, per arrivare alla massima apertura di senso, per arrivare all'infinito. Pensiamo solo alla differenza abissale che esiste tra la povertà del linguaggio asfittico usato dal capo e dalle folle, descritto da Le Bon, e la ricchezza della poesia. La prima un inferno di stupidità e deprimenti luoghi comuni; la seconda una macedonia di frutti freschi, talvolta aspri e talvolta dolci, ma sempre portatori di eros.
Ma lasciamo un attimo la poesia e torniamo al sistema della vendita e del potere. Se tale sistema è così indiscusso e, molti dicono, connaturato all’uomo, io mi sono sempre chiesto da dove derivi la volontà, che alcuni uomini evidenziano, di sottrarvisi.
Io, personalmente, prendo il mio nome da Lucilio Vanini, un frate carmelitano che aveva grandi doti di intelligenza e di seduzione delle masse. Avrebbe potuto facilmente scalare la gerarchie ecclesiastiche e acquistare un potere enorme. Non lo fece. Si mise contro la Chiesa, scegliendo di coltivare la scienza e la filosofia. Andò in esilio in Inghilterra e Francia. A trentaquattro anni l’inquisizione lo inchiodò con l'accusa di ateismo e lo condannò al rogo. Allora, mi chiedo, se il sistema di potere è connaturato agli uomini, perché Lucilio Vanini fece la scelta opposta? Perché preferì morire pur di seguire la ricerca, sdegnando il potere? Domande che mi hanno accompagnato tutta la vita e alle quali cerco continuamente di dare una risposta. E mi appassiono, e fatico, e dedico amore, e spreco il mio tempo, che non vale denaro alcuno naturalmente, nel dare una risposta possibile.
Utilizzo ora un’immagine fornitami dall'amico e filosofo Alessandro Pertosa. Egli si chiede: se io rifiuto il potere, in tutte le sue forme, mi sfoglio come un carciofo, o come una cipolla se si preferisce, togliendomi via via le strutture, le protesi e gli strumenti che mi consentono di esercitare il potere, anche quello minimo e impercettibile nei confronti di chi mi sta vicino o semplicemente nei confronti di coloro con i quali vengo in contatto, se insisto in tale opera di spoliazione di me stesso, alla fine, cosa rimane? E, soprattutto, rimane qualcosa?
Mi sembrano queste domande fondamentali. La domande che gli anarchici e i libertari di sempre, per esempio, hanno incarnato nella maniera più evidente. Non volendo esercitare potere alcuno, hanno sempre avuto il problema di persuadere gli altri ad abbracciare il proprio ideale di libertà. Ma anche la regola delle suore carmelitane dice: “Le sorelle non devono parlare troppo e, in ogni caso, non tanto da generare ammirazione nelle altre”. Anarchia e cristianesimo si incrociano in questo punto.
La questione è tutta lì, nel carciofo. Forse, davvero, a sfogliare e sfogliare, non rimane nulla. Forse nell’uomo non esiste un nucleo che si possa sottrarre completamente al potere. E allora, questa ammissione vuol dire abbracciare definitivamente la logica del potere? Vuol dire ignorare i tanti Lucilio Vanini che vi si sono opposti nel corso della Storia? Io credo di no. E mi associo a Jean-Jacques Rousseau quando dice: “È molto difficile far obbedire chi non ama comandare”. Voglio dire che qui entra in gioco un elemento basilare nella vita dell'uomo: l’utopia.
La vita dell’uomo, quella vissuta con dignità e passione, non può prescindere da un oltre, un altrove, un mondo da riscattare, un paradiso, terrestre o celeste poco importa, fatto di libertà, di amore e di verità, nel quale vivere bene insieme agli altri. La sua realizzazione non è prossima, certo, forse non è neppure possibile, ma l’anelito verso di essa è scintilla primaria nell'animo umano. Il capo e la massa che lo osanna possono anche vivere senza tale utopia che, per usare un termine soprattutto cristiano, possiamo definire della speranza, ma lo faranno sacrificando ogni poesia, ogni amore, ogni contatto sacro con le cose e ogni dolce ozio creativo. Coloro che, invece, vivono nella propria carne quell’utopia saranno perenni ricercatori, avranno la gioia e il dolore di camminare insieme ad altri, non saranno vincitori ma neppure vinti, saranno se stessi, potranno addirittura arrivare ad assaporare quell'ineffabile sentimento che è l’amore. “Il contrario dell’amore non è l’odio ma il potere”, dice Jacques Lacan.

giovedì 2 ottobre 2014

1974-1994: il ventennio di "quel" Giornale montanelliano



Lorenzo Randolfi

È il 17 ottobre 1973, Indro Montanelli lascia il “suo” quotidiano, quello in cui aveva cominciato da ragazzo a fare il giornalista, cioè il Corriere della Sera per incompatibilità con l’indirizzo culturale politico impresso proprio nel 1973 dai proprietari Crespi e dal direttore Piero Ottone. Da subito Indro, da buon sovversivo cresciuto alla scuola dei Longanesi, Prezzolini e Berto Ricci, raduna un gruppo di fedeli amici e inizia la sua congiura: vuole dar vita a un quotidiano tutto suo, che abbia il suo imprinting e si stagli contro il conformismo e il servilismo della cultura mainstream e di larga parte del giornalismo italiano. L’anno dopo, il 25 giugno 1974, uscirà il primo numero de il Giornale nuovo, poi soltanto il Giornale.
Queste le parole del primo editoriale: [...] Questo quotidiano nasce da una rivolta e da una sfida. La rivolta è contro uno stato di fatto che espone i giornalisti a ogni sorta di condizionamenti padronali e corporativi. La sfida è alla ineluttabilità di questa situazione. Noi siamo convinti che un gruppo di uomini professionalmente selezionati e fermamente decisi a servire soltanto il lettore possono ottenere da lui quanto basta a sostenere la loro impresa senza bisogno di mettersi all’ombra – e alla greppia – di un «protettore». I più benevoli ci definiscono sognatori. I più malevoli, pazzi. Noi ci consideriamo soltanto sensati.[...] Vogliamo creare, o ricreare, un certo costume giornalistico di serietà e di rigore”.
“Uomini professionalmente selezionati” per un quotidiano libero, senza parrocchie presso cui ripararsi o alle quali pagare la decima. Come Montanelli, insomma. Il Giornale, nel ventennio montanelliano ’74-94, diviene uno dei prodotti più alti del giornalismo non solo nostrano ma anche europeo. Vi collaboreranno le firme più raffinate del tempo, accomunate tutte non tanto da un orientamento ideologico, ma da una affinità di stile e di carattere. Indro Montanelli vorrà attorno a se personalità anticonformiste, controcorrente, dal respiro cosmopolita e dalle biografie attestanti l'amore per la libertà. La sua creatura sarà un aggregatore di intelligenze vive provenienti spesso da quella borghesia illuminata, seria e laboriosa che ammirava e a cui si rivolgeva, proprio come Longanesi anni prima aveva cercato di fare con il Borghese. Una borghesia di veri “cives” che in Italia era minoritaria, quasi inesistente, più ideale che reale. Tutta da inventare. Era il sogno dei due irriducibili scettici: Indro e Leo.
Molta importanza venne data alla terza pagina, che si voleva riempisse quel piccolo spazio lasciato libero dal giornalismo ideologizzato da destra o da sinistra e asservito alle ragioni della politica.
Basta leggere alcuni nomi dei collaboratori per farsi un’idea. Enzo Bettiza, ad esempio: italiano di dalmazia, di educazione mitteleuropea, liberale, penna elegante, autore di numerosi reportage dall’Est Europa. Guido Piovene: raffinato scrittore, autore tra gli altri di Lettere di una novizia. Aldo Garosci: torinese, gobettiano, azionista, e pannunziano. Nicola Matteucci: eminente studioso di filosofia politica, liberale, fondatore della rivista “Il mulino” di Bologna. Raymond Aron: politologo francese, liberale di destra. Geno Pampaloni: azionista, poi collaboratore di Adriano Olivetti per molti anni. Giorgio Soavi: ex ragazzo di Salò, liberale, critico d’arte e organizzatore, anche lui stretto collaboratore di Adriano Olivetti. Fu lui a suggerire il nome del quotidiano. Rosario Romeo: liberale e repubblicano, uno dei più importanti storici del Risorgimento. Renzo De Felice: storico, onesto studioso del fascismo. Alain de Benoist: pensatore della Nouvelle Droite francese. Marcello Staglieno: intellettuale conservatore, studioso della Conservative Revolution, in futuro senatore leghista e anche direttore del Secolo d’Italia. Mario Praz: erudito e accademico, critico d'arte e letteratura, amico di gioventù di Giovanni Papini. Nicola Abbagnano: filosofo torinese, esponente dell’esistenzialismo italiano, autore di Manuali per i licei tuttora utilizzati. Masolino D’Amico: studioso di letteratura inglese. Antony Burgess: il celebre scrittore inglese, cattolico e di destra, autore di romanzi come Arancia meccanica o L’uomo di Nazareth. Gregor Von Rezzori: scrittore mitteleuropeo, degno erede di autori come Stefan Zweig o Joseph Roth. François Fejto: intellettuale poliedrico, ungherese vissuto in Francia, accademico all'illustre facoltà di Sciences Po a Parigi. Eugene Ionesco: drammaturgo di origini romene. Vittorio Dan Segre: giornalista e diplomatico israelita, scomparso di recente. Sergio Quinzio: studioso di religioni. Carlo Ludovico Ragghianti: storico dell'arte. Gianni Granzotto: giornalista e storico, poi amministratore Rai, Fieg, Ansa.
E poi una rosa di cronisti del calibro di Egisto Corradi, Lucio Lami, Egidio Sterpa. Il quotidiano arriverà a un picco di 240mila copie di tiratura, stazionandosi comunque attorno a una media 150mila. Un enormità per l'esiguità dei mezzi economici a disposizione e per il pubblico cui naturaliter si rivolgeva.
Poi arrivò il 1994, Il Giornale venne trasformato dall’editore Berlusconi in un’arma di propaganda per lo schieramento di centrodestra. Montanelli di nuovo lasciò. Certamente il Giornale diventò un’altra cosa. E Montanelli prima fonderà La Voce, poi tornerà, collaborandovi fino alla sua morte nel 2001, al Corriere della Sera.