venerdì 29 agosto 2014

Stalin+Bianca. Nel romanzo di Barison il mondo assiderato di due ragazzi in cerca di bellezza






Annalisa Terranova

Stalin+Bianca è prima una scritta incisa sul tronco di un albero (non su un muro, notare la finezza) e poi diventa il titolo di un romanzo (Stalin+Bianca, Tunuè edizioni) scritto da un giovanissimo ma ambizioso letterato, Iacopo Barison. Stalin+Bianca racconta della testa confusa di un protagonista con un soprannome importante (Stalin, appunto) la cui caratteristica principale è di non saper controllare i suoi scatti d'ira. Un disturbato, dunque, che ha la fortuna di avere un'amica-fidanzata-angelo custode, Bianca, che lo segue e lo incoraggia anche se lui si trova nei pasticci, anche se lui la fa fuggire e la fa ammalare, e anche se lui la porta a vivere in uno stabile occupato da un gruppo di sciroccati artisti di strada. Detta così, la trama, uno si ritrae e dice: perché lo dovrei leggere? Il fatto è che questo Barison scrive benissimo, ma proprio benissimo. Non basta, certo. Ma lui vi unisce la capacità di assegnare al racconto valenze simboliche che nella letteratura che va di moda non trovi. Stalin gira con una telecamera, perché vorrebbe dare al mondo un senso che non è quello insensato che il mondo ha. E questo fa tenerezza. Bianca fuma erba ma compone versi, è il suo modo di non rassegnarsi, perché lei è cieca, eppure sa curare, da quel buio dolce, la disperazione del suo ragazzo. E poi nella metropoli senza tempo e ipercinetica in cui alla fine fuggono c'è una fontana di ghiaccio. Un monumento, ma privo di bellezza. Il ghiaccio è il simbolo della vita-non vita, della vita che se n'è andata. Stalin+Bianca è un romanzo che fa paura, perché non c'è luce. Un peccato. Se i due protagonisti alla fine si fossero lasciati illuminare da qualcosa, sarebbe stato un romanzo migliore. Dice: perché ne scrivi? Ero indecisa, infatti. Solo che Stalin  a un certo punto telefona a sua madre. Ne sente il bisogno. E io, da mamma di ventenne inquieto, ho capito un po' di più. Sono stata più indulgente con Stalin, con Bianca, col loro mondo assiderato. 



lunedì 25 agosto 2014

"Via col Vento" compie 75 anni e resta sempre il film più bello, il kolossal ineguagliato





Godibile articolo di Matteo Persivale ieri, domenica 24 agosto, su La Lettura (inserto culturale del Corriere) a proposito dei 75 anni del film cult "Via col Vento". In particolare l'articolo svela retroscena che pochi conoscono e cioè l'attenta cura nella selezione degli sceneggiatori che portò a escludere il futuro premio Nobel William Faulkner. Eccone alcuni passaggi:

"La storia di Via col vento, il film ispirato al romanzo di Margaret Mitchell che il 9 settembre compie 75 anni, e del suo produttore, è quasi più avvincente di quella del romanzo dal quale è tratto: tanto da meritare una grande mostra che aprirà la prossima settimana all'Harry Ransom Center dell'Università del Texas, a Austin. Saranno esposti i memorandum del produttore David O Selznick, e quelli che ricevette nei due anni di preparazione del film dai suoi collaboratori, dagli agenti degli attori e sceneggiatori di mezza Hollywood. Ci saranno i costumi originali restaurati, le foto delle prove di make up, filmati inediti della lavorazione, gli storyboard, i cartelli della campagna pubblicitaria di lancio inedita per quei tempi (...). Ma quello che impressiona di più, tra i documenti che verranno svelati dalla mostra, è il lavoro di preparazione del quale Selznick, meticolosissimo, curò ogni particolare. Soprattutto - una lezione che il cinema di oggi, americano ma anche italiano, dovrebbe tenere in considerazione - la sceneggiatura. (...) Scrittori umiliati a parte, la mostra è piena di gemme. Si vede come la candidatura di Clark Gable per il ruolo del protagonista maschile, Rhett Butler, si faccia strada quasi subito quando Gary Cooper e Errol Flynn risultano bloccati da un'altra casa di produzione. La caccia alla protagonista, l'impulsiva Rossella O'Hara, è ancora oggi un capolavoro di marketing. In esterma sintesi: Bette Davis non è interessata, vengono vagliate le ipotesi Tallulah Bankhead, Jean Arthur, Norma Shearer. Katherine Hepburn che invece sogna di interpretare Rossella viene scartata. Selznick organizza un casting popolare da reality ante litteram, 1400 sconosciute che fanno provini in giro per gli Stati Uniti. Via col vento diventa un fenomeno pop: Selznick riceve 75mila lettere con suggerimenti sul cast. Giornali, radio e il passaparola tra la gente comune tramutano il film in un colossale evento prima ancora che cominci la lavorazione (uscite di scena dopo qualche mese Miriam Hopkins, considerata troppo vecchia, e Joan Crawford, le vere candidate, in realtà, erano sempre state due: la già affermata Paulette Goddard e la giovane Vivien Leigh, il casting popolare era solo una trovata pubblicitaria)...". 

venerdì 22 agosto 2014

Guccini, per brevità chiamato artista



articolo uscito sul quotidiano il “Garantista” venerdì 22 agosto

Luciano Lanna

“C’è un ideale libertario che è sempre esistito nell’uomo e non ha colori o etichette, non può essere fatto proprio da un’ideologia e va ben oltre gli schieramenti di destra e sinistra”. Lo affermava qualche anno fa Francesco Guccini, un cantautore e scrittore che non poteva mancare in questa sorta di Pantheon del Garantista. Pensiamo solo a come si raccontava – e a come destrutturava ogni senso d’appartenenza esclusivo – nella celeberrima L’avvelenata: “Io tutto, io niente, io stronzo, io ubriacone / io poeta, io buffone, io anarchico, io fascista / io ricco, io senza soldi, io radicale / io diverso ed io uguale, negro, ebreo, comunista! / Io frocio, io perché canto so imbarcare / io falso, io vero, io genio, io cretino”. Quello libertario è del resto un atteggiamento istintivo, esistenziale, refrattario a qualsiasi visione del mondo totalizzante. E tipica del libertario è l’avversione a tutte le visioni del mondo dogmatiche,  siano esse religiose o ideologiche. Per non dire dell’allergia a qualsiasi sistema d’organizzazione sociale autoritaria e tendente all’inquadramento coatto e al conformismo.
Ricordate come Guccini ha indicato i suoi nemici in Cyrano? “Facciamola finita, venite tutti avanti / nuovi protagonisti, politici rampanti / venite portaborse, ruffiani e mezze calze / feroci conduttori di trasmissioni false / che avete spesso fatto del qualunquismo un’arte / coraggio liberisti, buttate giù le carte / tanto ci sarà sempre chi pagherà le spese / in questo benedetto assurdo bel Paese…”
Sì, Francesco Guccini ha cantato anche che, proprio per tutto questo, “il libertario è sempre controllato dal clero e dallo Stato”. Ma il suo libertarismo, come lui stesso ha ammesso, si è fondato non tanto Marx e Marcuse, quanto su Jorge Luis Borges e Omar Kayyam, che infatti citava in una canzone dell’epoca. E poi su molti autori americani: Dos Passos, Steinbeck, Caldwell, Hemingway, Kerouac, Salinger. Nonché ovviamente su Bob Dylan, “il poeta in musica difficilmente inscrivibile in una fazione, influenzato com’era sia da Dante e dalla Bibbia, sia da Rimbaud e Blake, sia da Ginsberg e dai grandi beatnik…”.
Nella sua autobiografia, intitolata Non so che viso avesse. La storia della mia vita (Mondadori, 2010, pp. 225, € 18,00), a un certo punto c’è un episodio che dà la chiave di lettura del suo particolare “essere libertario”. Un suo amico modenese raccontando l’epopea beat di loro, ragazzi emiliani, ricorda infatti di due giovani capelloni degli anni ’60 che si chiedono, l’un l’altro nel loro dialetto: “Et un bit tè?”, “No, mè a sun un hippy”. E commenta Guccini: “C’era in questo breve dialogo, in questo lampo di genio, tutta la saggezza contadina di base di noi giovani d’allora che ci sognavano rivoluzionari ma che in fondo erano brava gente, provenienti da famiglie piccolo-borghesi, sognanti di fare qualcosa di nuovo ma radicati bene, profondamente, dentro quelle radici”.
Sì, perché il Francesco Guccini che emerge da queste pagine è quello più vero, quello che lui così tratteggiava in una sua bella canzone: “Io, figlio di una casalinga e di un impiegato / cresciuto fra i saggi ignoranti di montagna / che sapevano Dante a memoria e improvvisavano di poesia / io, tirato su a castagne e a erba spagna / io, sempre un momento fa campagnolo inurbato / due soldi d’elementari e uno di università...”. Oggi 74enne, nato a Modena, ma cresciuto a Pàvana nei suoi primi anni di vita, poi di nuovo modenese, quindi bolognese, e adesso di nuovo pavanese, Guccini è ed è stato soprattutto un raccontatore di storie. Sua mamma, Elsa Prandi, quando qualcuno le chiedeva se era felice d’avere un figlio cantautore, rispondeva sempre: “Be’, cosa vuole mai, noi avremmo preferito che fosse diventato professore di storia...”. Professore o meno, però, tutta la sua vita è stata quella di raccontare storie, prima con le canzoni poi con i romanzi e i racconti. «Raccontare se stesso – ha spiegato l’italianista Alberto Bertoni – e raccontare le persone, o raccontare se stesso attraverso le persone: la verità, per Guccini, deve essere cercata nei particolari delle singole vite e delle singole vicende, mai negli universali e negli slogan delle parole d’ordine collettive, perché le nostre, come la sua, sono in tutto e per tutto storie misteriose scolpite nei sassi…”.
Pochi sanno che nel 1956, colpito dalla repressione sovietica della rivolta ungherese, un Guccini sedicenne insieme ai suoi più stretti amici fonda a Bologna un “movimento laico indipendente”, presieduto dal futuro giurista Gladio Gemma, ispirato a posizioni laiche e non comuniste e ospitato nella sede del moderato Psdi? Come siamo sicuri che pochi sanno che Guccini è stato l’unico, nel 1969, a dedicare una canzone alla Primavera di Praga. “Io non sono mai stato – disse a suo tempo a Edmondo Berselli – un estremista, non è nella mia cultura…”. E prendeva le distanze anche dai comunisti dell’epoca,  “perché il Pci allora era il partito dell’Urss, figurarsi...”. D’altronde il primo vero concerto di Francesco fu, nel dicembre del ’68, alla Cittadella d'Assisi, organizzato dai cattolici: «Quelli – ha ricordato – che avevano fatto trasmettere a Radio Vaticana la mia canzone Dio è morto, allora censurata dalla Rai. Tirava aria di ’68, erano i tempi della Messa beat o qualcosa di simile, ero abbastanza giovane e curioso...”.  E quella sua canzone, scritta nel 1965 e incisa dai Nomadi, è un simbolo del clima libertario degli anni ’60. La Rai democristiana, di fronte a un brano che citava Nietzsche nel titolo e si ispirava all’Urlo di Allen Ginsberg, fece come con le canzoni di Fabrizio De André: ostracismo e censura.
Una cosa però è certa: per tutti Guccini è soprattutto l’autore e la voce di una ballata come La locomotiva. “I primi ad ascoltarla – racconta – sono stati gli amici di Bologna dell’osteria. Quando avevo un brano nuovo lo facevo sempre ascoltare a loro, chitarre, vino e cose così. E non poteva mancare mio cugino, Alberto Prandi, che era iscritto alla federazione anarchica di Carpi…”. E chi potrà mai dimenticare quella canzone? “A noi piace pensarlo / ancora dietro al motore / mentre fa correr via / la macchina a vapore / e che ci giunga un giorno / ancora la notizia / di una locomotiva / come una cosa viva / lanciata a bomba contro l’ingiustizia / lanciata a bomba contro l’ingiustizia”.

giovedì 21 agosto 2014

Oltre la logica del carcere, sulle "ali della libertà"



articolo pubblicato sul quotidiano il "Garantista" giovedì 14 agosto


Luciano Lanna
A un certo punto della storia c’è, non a caso, un dialogo sul romanzo Il conte di Montecristo. “Questo libro parla di un uomo che scappa da un carcere” spiega Andy Drufesne. E la replica di  Red è la migliore introduzione a quello di cui vogliamo parlare: “Allora dobbiamo inserirlo nelle letture didattiche?”. Sì, perché Le ali della libertà (il film) e Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank (il romanzo) è una delle più riuscite metafore narrative sul carcere, gli errori giudiziari e la libertà che siano mai state scritte e realizzate. Parliamo del film di Frank Darabont del 1994, con Tim Robbins e  Morgan Freeman, ma soprattutto della narrazione di Stephen King pubblicata nella raccolta Stagioni diverse (in Italia edita da Sperling & Kupfer). Ricordiamolo: il film è già da qualche anno al primo posto nella classifica Top 250 stilata dagli utenti di Internet Movie Database ed è stato inserito nella lista dei 100 migliori film statunitensi di tutti i tempi. Così come il romanzo è unanimemente considerato – insieme a Il miglio verde, ancora sul carcere e, in questo caso, sulla pena di morte – uno di migliori testi non horror o fantastici di Stephen King.
Per comprenderne il senso, tutto libertario, basterebbe leggere quest’altra frase di Red: “Alcuni uccelli non sono fatti per la gabbia, questa è la verità. Sono nati liberi e liberi devono essere. E quando volano via ti si riempie il cuore di gioia perché sai che nessuno avrebbe dovuto rinchiuderli…”. Tutto parte con un caso di errore giudiziario nel Maine del 1947. Accusato ingiustamente di essere l’omicida di sua moglie e del suo amante, Andy Dufresne, ex banchiere e finanziere, viene rinchiuso nel carcere speciale di Shawshank. Nel carcere le guardie e il corrotto direttore – un puritano fondamentalista religioso, un teocon si sarebbe detto qualche anno più avanti  –impongono la loro legge fatta di violenze gratuite e omicidi impuniti, di nonnismo aberrante e di illegalità attraverso un ipocrita sistema di paura e ricatto quotidiani. “Ma la paura ti rende ancora più prigioniero, solo la speranza può renderti libero” ammette Dufresne.
Un giorno, durante un lavoro forzato di ripristino sul tetto del carcere, Andy sente Byron Hadley, il capitano delle guardie, parlare ai colleghi dei suoi problemi economici e lo convince a farsi aiutare da lui con le sue competenze in ambito finanziario. Chiede e ottiene inoltre in  cambio qualche birra per gli altri detenuti che lavoravano con lui sul tetto. Da quel momento, Andy riscuote le simpatie degli altri detenuti, in particolare di Ellis Boyd Redding detto Red, un ergastolano che controlla il contrabbando all’interno del carcere e che sarebbe in grado di procurare ogni oggetto gli venga richiesto. Andy diventa anche responsabile della biblioteca di Shawshank e, pertanto, potrà assistere direttamente all’istruzione dei detenuti negli anni.
Un giorno, tra i nuovi detenuti in arrivo a Shawshank nel 1964, vi è Tommy Williams, un ragazzo condannato per furto con scasso. Tommy diviene amico di Andy e Red; il primo lo aiuta a studiare e a diplomarsi. Ma un giorno, prima di essere scarcerato, domanda a Red il motivo per cui Andy è in prigione e quando riceve la risposta, ricordando qualcosa, si confida: quando si trovava in un altro carcere, ebbe come compagno di cella un certo Elmo Blatch, che gli raccontò di essere anche un assassino e di aver ucciso per invidia un campione di golf e la sua amante, e che la polizia aveva arrestato al posto suo un bancario, marito della donna uccisa. Andy, in carcere già da 20 anni, capisce che Blatch è il colpevole dell’omicidio per cui è stato accusato ingiustamente, così informa il direttore. Ma questi, pur di tenere con sé l’ex bancario per continuare a truffare e anche per non avere problemi con la riapertura di un caso, allontana Tommy da Byron Hadley, per evitare che il ragazzo dica tutto in un processo. All’ingiustizia e al delitto (di Stato?) si aggiunge poi la beffa: Andy, per aver insultato Norton, viene chiuso in cella d’isolamento per un mese. Ma finito l’isolamento, Andy parla con Red dicendogli che lui ha una speranza, quella di uscire di galera, un giorno, e poter vivere liberamente.
La condanna di un certo sistema carcerario che traspare nel romanzo di King è totale: “Questo è quello che ti fa una vita intera in prigione, trasforma chiunque in una posizione di autorità in un padrone, e te nel cane di ogni padrone. Forse lo sai che sei diventato un cane – ammette nel romanzo Red – ma dato che tutti quelli che hanno la divisa grigia sono anche loro dei cani, questo là non sembra avere troppa importanza, fuori sì…”. E per capire il forte messaggio di libertà della storia non c’è neanche bisogno di raccontare la intelligente e coraggiosa fuga di Andy e la sua vita libera con un’altra identità in Messico, dove lo raggiungerà anche Red, ma una scena centrale che è per noi è la migliore condanna della logica carceraria.
Due secondini si avvicinano a Andy. “E queste da dove vengono?” dice uno dei due indicando un paio di casse. Andy sgrana gli occhi. Dopo aver spedito per anni lettere al Senato finalmente qualcuno ha deciso di stanziare una piccola somma per la biblioteca del carcere e in quelle due casse vede decine di libri nuovi e una serie di dischi in vinile. Non può credere ai suoi occhi. Rovistando tra i dischi, Andy trova un disco doppio: Le nozze di Figaro di Mozart. Chiude a chiave dall’esterno la guardia che stava al bagno e, mentre il secondino protesta, si reca all’ufficio del direttore. Ci si barrica dentro e mette il disco nel grammofono collegandolo al microfono centralizzato che di solito dà gli annunci del direttore del carcere ai detenuti. La musica si diffonde in tutta la prigione. Tutti i carcerati, anche quelli che si trovano sul cortile esterno a lavorare, si fermano ad ascoltare. Per un momento tutti i detenuti si sentono liberi, oltre la logica di potere e ricatto tipica del carcere. Solo per pochi minuti, certo, quelli che separano Andy Dufresne dal momento in cui le guardie sfonderanno la porta e lo puniranno duramente per il suo atto di ribellione. Ma in quei pochi minuti lui e gli altri sperimentano l’alternativa a un mondo concepito sul modello carcerario. Un universo in cui la musica e la bellezza delineano quelle “ali della libertà” che possono sconfiggere, almeno in parte, la prevalenza della prevaricazione, del ricatto fondato sulla paura, della violenza legalizzata.


domenica 10 agosto 2014

Novant'anni fa Mussolini inaugurava il trenino che portava i romani al mare





Dall'articolo di Claudio Rendina su Repubblica di oggi 10 agosto a proposito dei novant'anni dall'inaugurazione del trenino Roma-Ostia voluto dal fascismo perché Roma andasse verso il mare...

"La linea ferroviaria Roma-Ostia fu inaugurata alle ore 10 del 10 agosto 1924 con un convoglio partito dalla stazione di Porta San Paolo e composto da una locomotiva a vapore, quattro vagoni passeggeri, un bagagliaio ed una carrozza panoramica, sulla quale era Benito Mussolini. Dal giorno successivo la linea fu aperta al pubblico con l'utilizzo di dieci coppie di treni giornaliere che percorrevano la tratta in circa 50 minuti. In occasione del Natale di Roma del 21 aprile 1925 furono inaugurati l'esercizio a trazione elettrica e il doppio binario, rendendo la linea definitivamente completa e funzionale. Il tempo di percorrenza da quel giorno fu ridotto a trenta minuti circa. Lo scopo principale della linea consisteva nel sostenere la colonizzazione del litorale romano e delle aree comprese fra la città e il mare". 

mercoledì 6 agosto 2014

Brassens, il gorilla contro giudici, poliziotti e clericali



articolo pubblicato sul quotidiano il Garantista mercoledì 6 agosto

Luciano Lanna

Il paradosso italiano, e il rovesciamento di segno operato da noi, della cultura politica libertaria e garantista è stato descritto al meglio da Guido Vitiello, quando annotava che se “Georges Brassens, seguito da Fabrizio De André, affidava i magistrati alle robuste attenzioni erotiche di un gorilla scappato dallo zoo, ora poco manca che, ascoltando Bocca di Rosa, i nostri libertari parteggino per i gendarmi…”.  Una cosa è infatti certa, e cioè che ci sarebbe tanto bisogno di andarsi a rileggere, e in questo caso anche di riascoltare, le parole di autori, poeti, scrittori, intellettuali garantisti dei cui hanno finito per appropriarsene indebitamente ambienti di tutt’altro segno e orientati al tentativo di imporre, attraverso un uso smodato ed eccessivo del termine legalità, una egemonia modellata sulla triade antigarantista: “clericalismo, ragion di stato, questura”…
Cominciamo allora da Georges Brassens, il cantautore i cui due bersagli polemici sono sempre stati due: l’appellarsi conformista alla ragion di Stato e l’universo dei giudici. Una delle sue canzoni più conosciute, se non la più nota, è quella che racconta, in modo scopertamente goliardico, la storia di un gorilla che va all’attacco di un giudice. E lì la figura del giudice viene presa come metafora delle miserie, dei conformismi e della viltà umana. Chi non la ricorda cantata nella versione italiana di De André? «Piangeva il giudice come un vitello / negli intervalli gridava mamma / gridava mamma come quel tale / cui il giorno prima come ad un pollo / con una sentenza un po’ originale / aveva fatto tagliare il collo / Attenti al gorilla…».
Se nell’ottobre del ’53 c’era stato il suo trionfo dal palco dell’Olympia, nell’ottobre 1963, il nome di Brassens entrava del resto già nei piani alti della cultura con un suo libro pubblicato nella collana poetica dell’editore Seghers, quella che era  inaugurata dal surrealista Paul Eluard e in cui Brassens si troverà in compagnia di Victor Hugo, Verlaine e Aragon. Lo spiegava Alphonse Bonnafé, che era stato suo professore al liceo: “Il pubblico di Brassens è molto vasto e il suo successo ha assunto il carattere di un fatto sociale. Bisogna dunque credere che ognuno di noi porta in sé un ribelle sonnacchioso. Ognuno ha la voglia di recuperare i propri pensieri, i propri gusti che la società gli sottrae sin dai banchi di scuola…”.
Era nato a il 22 ottobre 1921 a Séte, in Linguadoca, morirà il 29 ottobre del 1981 nel paesino di Gély-du-Fesc, vicino a Montpellier. E per tutta la sua vita Brassens fu un libertario senza se e senza ma, refrattario all’incasellamento in qualsiasi ideologia, da lui considerata in quanto tale la causa principale della tragedia delle vittime nella storia. Se nella sua canzone Le deux oncles prendeva le distanze sia dai vincitori che dai vinti della seconda guerra mondiale, in La tondue arrivava coraggiosamente a criticare la ferocia nelle epurazioni. La ballata era infatti la storia di una ragazza accusata di collaborazionismo con i tedeschi e punita con il taglio dei suoi capelli.
Tra la fine degli anni ’50 e i primi dei ’60 qualcuno anche in Italia, soprattutto a Genova, scopre la musica e i testi di Brassens. «La sintonia politica e culturale non guastava, gli stessi interessi estetici ancor meno: senza di lui forse non avrei mai scritto certe canzoni» ha ammesso Bruno Lauzi, riferendosi a brani come La banda o Il poeta. Quindi sarà De André a tradurre e incidere in italiano molte delle ballate dello stesso Brassens, da Il gorilla a Morire per delle idee.
Si può sostenere che quest’uomo massiccio e baffuto ha come pochi intrigato con le sue storie di marginali, puttane, ladruncoli, ex galeotti, disoccupati, immigrati, spesso avanzi di galera, che fanno fatica a mettere insieme il pranzo con la cena. E di contro i suoi obiettivi polemici furono sempre i benpensanti e la triade giudici-poliziotti-clericali. Si vantava di non essere mai entrato dentro una banca e diceva di essere così libertario da attraversare scrupolosamente sulle strisce pedonali, pur di non dover avere a che fare con i gendarmi.
Consigliamo ai nostri lettori un volumetto di Brassens che la casa editrice Coniglio ha mandato in libreria nel 2009, Le strade che non portano a Roma. Riflessioni e massime di un libertario (pp. 91, euro 5,00), una selezione di suoi aforismi raccolti da Jean-Paul Liégeois, un libretto che a nostro avviso non può mancare nello scaffale di ogni vero garantista.
Dalla lettura del libro emerge inoltre il retroterra culturale degli autori che hanno inciso sulla sua formazione e che – anche loro – stanno nel background di una cultura autenticamente garantista: Villon, Baudelaire, La Rochefocauld, Mallarmé, Céline e Rabelais. Un mix culturale che nella Francia conservatrice e benpensante degli anni ’50 e ’60 appariva un po’ urticante. Va infatti anche ricordato che, come accadrà più avanti in Italia per De André e Guccini, più della metà delle sue canzoni erano censurate alla radio e tv e che solo qualcuna poteva andare in onda, ma solo dopo la mezzanotte.
Sin dal liceo Georges amò l’opera di Villon e poi Victor HugoRimbaud, Verlaine e la sua stessa biografia glieli feci “capire”… In seguito a una condanna a 15 giorni di carcere con la condizionale perché coinvolto di striscio in una serie di furtarelli, e migra nel ’40 a Parigi. Lavora alla Renault, collabora alla rivista Le monde libertaire. Nel ’44, in licenza da militare, si nasconde al numero civico 9 di Impasse Florimont, nel 14esimo arrondissement. Ci resterà fino al ’66.
La svolta musicale è datata 1952. È Patachou, cantante e proprietaria di un famoso cabaret parigino, a imporlo nel mondo della canzone. I suoi testi colpiscono: abilità nella metrica, sapiente alternanza di cultura classica e parolaccia da strada. Come nel caso de Il gorilla

“Nel maggio del ’68 – ha ricordato lo scrittore Jean-Pierre Chabrol – io rimproveravo a Georges ciò che chiamavo la sua passività, il suo distacco. Cantautori e intellettuali facevano comizi e barricate, si buttavano nella mischia. Lui restava a casa. Lui, che solo facendosi vedere, avrebbe potuto diventare il profeta o il guru dei sessantottini. Ma ciò che si proclamava alla Sorbona o nelle piazze in fondo era già da molto tempo nelle sue strofe”. Lo stesso Brassens protesterà: “In realtà sono uno dei cantautori più impegnati. Solo che normalmente si intende per impegno l’adesione a un partito e si dà il caso che io non riconosco a nessun partito il diritto di avermi”.

Se Céline e Spengler battono Proust due a zero…



Luciano Lanna

Il giudizio di Louis-Ferdinand Céline è risaputo: “Proust spiega troppo per il mio gusto: trecento pagine per farti sapere che tizio sodomizza tizio, è troppo…”.  Eppure Marcel Proust è a tutt’oggi uno degli autori intoccabili, di cui si deve far sapere non solo di averlo letto, ma anzi è quasi d’obbligo dire di apprezzarlo e di ricorrere a lui come fonte privilegiata d’ispirazione… 
Ma qualcuno, sulla scorta di Céline, comincia ad avere il coraggio di ammettere l’inammissibile. Come  Marco Missiroli che, su La lettura del Corriere della Sera, ha parlato del suo compagno d’università Roberto Martinelli, che il primo anno di corsi girava con uno dei Proust della Recherche nello zaino come antidoto all’ignoranza: “Dopo nove mesi il segnalibro era ancora a pag. 26 e la copertina un cencio. Passata l’estate lo sostituì con il secondo volume, lo tirava fuori prima delle lezioni e lo sfogliava tutto concentrato, se c’era qualche ragazza si metteva a sottolinearlo con righello e matita. ‘Di cosa parla stavolta?’ chiedevo. Martinelli alzava un sopracciglio: ‘Della memoria e cose così...’.  Poi successe il fattaccio, si fidanzò con quella delle ultime file, una morettina di San Giovanni in Persiceto che piaceva a tutti noi e che tutti ritenevano troppo per chiunque….”. Così anche Martinelli va alla Feltrinelli e chiede il libro che credeva avrebbe risolto i suoi crucci di incontinente amoroso... “Arrivai a casa – però ammette adesso Missiroli – e cominciai a leggere ‘Dalla parte di Swann’, ma mi fermai a pagina 20 per incomprensione e terrore…”. E infine il giudizio definitivo: “Fu la noia, e soltanto tempo perduto”.

Lo stesso giorno di questo articolo su la Repubblica, nel corso di un bella e lunga intervista concessa ad Antonio Gnoli, una confessione simile arriva anche da Piero Ottone, giornalista novantenne che è stato anche direttore storico del Corriere della Sera. “Non ho mai letto Proust – ha dichiarato – e quando una volta lo confessai, a un amico, lui mi guardò come fossi un animale strano. Ma cosa avrei dovuto fare? Iscrivermi al partito di coloro che dicono, e temo siano la gran parte, di aver letto questo o quel romanzo quando in cuor loro sanno che non è così?”. E, a riprova, Ottone cita semmai come sua lettura giovanile Il tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler, il classico che fu caro (anche se pochi lo sanno) anche a Henry Miller e Jack Kerouac. “Su sollecitazione di una ragazza di Berlino – confessa Ottone – lo lessi in tedesco in due mesi. La decadenza è un tema che ci interpella a tutti i livelli…”.   

venerdì 1 agosto 2014

Quei film antiretorici sulla guerra in cui quel che conta è la libertà dell’individuo


Lorenzo Randolfi

Come appassionato di cinema italiano, il centenario dello scoppio della Prima guerra mondiale (1914–2014) mi fa venire in mente quel capolavoro che è La Grande Guerra. Mi riferisco al film di Mario Monicelli, del 1959, sceneggiato dal duo Age&Scarpelli e da Luciano Vincenzoni, con attori protagonisti Alberto Sordi, Vittorio Gassman e Silvana Mangano e una corolla di caratteristi di vaglia come Romolo Valli, Bernard Blier, Folco Lulli, Tiberio Murgia. La pellicola vinse quell'anno il Leone d'oro alla XX Mostra del cinema di Venezia, ex aequo con Il Generale Della Rovere di Roberto Rossellini. Cosicché parlare dell'uno ci porta anche a parlare dell’altro e non solo per via di questa simultaneità quanto per una ragione più profonda, di contenuto, che li lega e che vedremo.




Ma andiamo con ordine e cominciamo con il primo: La Grande Guerra. Ecco la trama: l'Italia si prepara alla prima guerra mondiale. Il milanese Giovanni Busacca (Vittorio Gassman) vorrebbe evitare l'arruolamento e il piantone romano Oreste Jacovacci (Alberto Sordi) gli fa intendere che dietro compenso lo farà riformare. Non è così e Giovanni cerca Oreste per dargli una lezione. Tuttavia, quando si ritrovano, i due diventano amici. A Tigliano, piccolo paese delle retrovie, attendono d'essere mandati al fronte. Intanto Giovanni conosce Costantina (Silvana Mangano), una prostituta che gli ruba il portafoglio. Finalmente eccoli al fronte. Incapaci di ammazzare un austriaco indifeso, i due passano per lavativi. Un giorno si offrono volontari per portare un messaggio a un distaccamento. Quando si apprestano a tornare, sulla montagna infuria la battaglia e i due se ne approfittano per riparare in un casolare. Scoperti dagli austriaci e considerati spie sono minacciati di morte se non forniscono informazioni sulla loro missione. Stanno quasi per cedere quando, di fronte all'arroganza dell'ufficiale che li interroga, Giovanni lo insulta e viene fucilato. Oreste segue l’esempio del compagno e viene fucilato mentre grida “Non voglio morire… sono un vigliacco”. Il loro comandante ignaro di tutto ciò, dirà: “E pensare che anche questa volta quei due lavativi se la sono scampata…”. Ecco, già dalla trama, si capisce lo spessore di quest'opera. Non è il solito film che ricostruisce la cronaca della guerra edulcorandola come spesso accade quando si vuole ricordare un evento fondamentale della propria storia patria. Il film assume un punto di vista diverso, più basso, più vicino ai soldati semplici che la combatterono, quegli ex contadini, ex operai o ex piccoli borghesi (i nostri nonni o bisnonni) che si ritrovarono trascinati in un conflitto senza precedenti nella Storia. Come ha detto Monicelli stesso: “Ho narrato la Grande Guerra dal punto di vista dei soldati qualunque, dei tanti poveri diavoli che furono trascinati al combattimento senza vocazione alcuna”. Perché poi è stato così. La guerra ha infatti poco di epico, di eroico. Certo ci sono anche gli Eroi, e ci furono nella Grande Guerra. Mi vengono in mente Enrico Toti, Cesare Battisti, gli aviatori Francesco Baracca o Guido Keller, il Barone Rosso, gli esteti armati come Ernst Junger o Pierre Drieu La Rochelle o D'Annunzio. Anche lo scrittore Louis-Ferdinand Céline fu un eroe di guerra, salvo poi tornarne schifato. Così come ci furono molti eroi anonimi, non riportati nei libri. Eroi per caso, uomini qualsiasi come Busacca e Jacovacci, che non erano andati alla guerra infatuati dal verbo irredentista o futurista, ma che, al contrario, di fronte alla morte, alla violenza, alle mutilazioni, provavano sgomento , paura, pregavano, piangevano. Erano umani. Eppure seppero sopportare virilmente il loro compito. Attaccarono quando c'era da attaccare, digiunarono quando non si poteva che digiunare.... Tutto ciò nel film viene riportato abilmente. Un film quindi antiretorico, antibellicista, antimilitarista, come solo un artista come Monicelli poteva fare. Il regista, si sa, era un toscanaccio irriverente, individualista, e amante del vero. E toscano è anche quel mescolare il comico con il tragico, l’unire il riso all'amarezza. Tutto il film è fatto così: drammatico, ma con una serie di duetti divertenti di Gassman e Sordi, senza per questo cadere nella macchietta. Anzi fornendo sempre un pungolo alla coscienza dello spettatore e spingendolo alla riflessione. Una riflessione che arriva al suo culmine nel finale quando i due protagonisti, che per tutto il film si sono comportati da pavidi e scansafatiche , finiranno per morire con grande nobiltà. È in questo momento che il film smette di essere un film storico per elevarsi ad un livello più filosofico, etico: l'individuo e la sua libertà di saper compiere il bene e il male, di subire gli eventi o di prescindere da essi restando libero nella coscienza. Il principio di responsabilità del singolo.



A questo punto occorre parlare del secondo film del '59, Il Generale Della Rovere del regista Roberto Rossellini, basato su un soggetto di Indro Montanelli che rielabora in chiave romanzesca un’esperienza vissuta nel 1944 dal giornalista. Brevemente la trama: nella Milano occupata dai nazisti, Giovanni Bertone (Vittorio De Sica), un ex ufficiale ridotto a vivere di espedienti, estorce denaro ai familiari dei partigiani caduti in mano alla Gestapo in cambio di false informazioni sulla loro sorte. Viene scoperto e costretto da un ufficiale tedesco a fingersi un generale impegnato nella guerra di liberazione, l’aristocratico e valoroso Fortebraccio Della Rovere, e a spiare nella prigione di San Vittore i capi antifascisti. Ma quando un vero leader della Resistenza viene catturato a Milano, Bertone decide di non collaborare e viene condannato alla fucilazione con altri detenuti. Mentre gli sparano grida “Viva l’Italia!” e alla fine muore meglio del vero Della Rovere. Capirete dalla trama cosa intendevo all'inizio quando ho parlato di un affinità tra i due film. Anche in questo secondo film un fatto storico, diviene il motivo per una riflessione etica: ancora una volta un individuo capace di compiere meschinità e bassezze ma anche di ritrovare la sua umanità, il suo posto al di sopra delle bestie; di ritrovare, come direbbe Ernst Jünger, “l’uomo che è in ciascuno di noi”. Per chiudere è molto azzeccata la citazione delle Storie Chassidim, riportata da Gianni Riotta nella sua prefazione all’ultima edizione del romanzo di Montanelli: “Quando ti presenterai davanti all'Eterno, l'Eterno non ti chiederà: perché non sei stato Mosè? Ti chiederà: perché non sei stato te stesso?”