Annalisa Terranova
Stalin+Bianca è prima una scritta incisa sul tronco di un albero (non su un muro, notare la finezza) e poi diventa il titolo di un romanzo (Stalin+Bianca, Tunuè edizioni) scritto da un giovanissimo ma ambizioso letterato, Iacopo Barison. Stalin+Bianca racconta della testa confusa di un protagonista con un soprannome importante (Stalin, appunto) la cui caratteristica principale è di non saper controllare i suoi scatti d'ira. Un disturbato, dunque, che ha la fortuna di avere un'amica-fidanzata-angelo custode, Bianca, che lo segue e lo incoraggia anche se lui si trova nei pasticci, anche se lui la fa fuggire e la fa ammalare, e anche se lui la porta a vivere in uno stabile occupato da un gruppo di sciroccati artisti di strada. Detta così, la trama, uno si ritrae e dice: perché lo dovrei leggere? Il fatto è che questo Barison scrive benissimo, ma proprio benissimo. Non basta, certo. Ma lui vi unisce la capacità di assegnare al racconto valenze simboliche che nella letteratura che va di moda non trovi. Stalin gira con una telecamera, perché vorrebbe dare al mondo un senso che non è quello insensato che il mondo ha. E questo fa tenerezza. Bianca fuma erba ma compone versi, è il suo modo di non rassegnarsi, perché lei è cieca, eppure sa curare, da quel buio dolce, la disperazione del suo ragazzo. E poi nella metropoli senza tempo e ipercinetica in cui alla fine fuggono c'è una fontana di ghiaccio. Un monumento, ma privo di bellezza. Il ghiaccio è il simbolo della vita-non vita, della vita che se n'è andata. Stalin+Bianca è un romanzo che fa paura, perché non c'è luce. Un peccato. Se i due protagonisti alla fine si fossero lasciati illuminare da qualcosa, sarebbe stato un romanzo migliore. Dice: perché ne scrivi? Ero indecisa, infatti. Solo che Stalin a un certo punto telefona a sua madre. Ne sente il bisogno. E io, da mamma di ventenne inquieto, ho capito un po' di più. Sono stata più indulgente con Stalin, con Bianca, col loro mondo assiderato.
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