Lorenzo Randolfi
Come
appassionato di cinema italiano, il centenario dello scoppio della Prima guerra
mondiale (1914–2014) mi fa venire in mente quel capolavoro che è La Grande Guerra. Mi riferisco al film
di Mario Monicelli, del 1959, sceneggiato dal duo Age&Scarpelli e da
Luciano Vincenzoni, con attori protagonisti Alberto Sordi, Vittorio Gassman e
Silvana Mangano e una corolla di caratteristi di vaglia come Romolo Valli,
Bernard Blier, Folco Lulli, Tiberio Murgia. La pellicola vinse quell'anno il
Leone d'oro alla XX Mostra del cinema di Venezia, ex aequo con Il Generale
Della Rovere di Roberto Rossellini. Cosicché parlare dell'uno ci porta anche
a parlare dell’altro e non solo per via di questa simultaneità quanto per una
ragione più profonda, di contenuto, che li lega e che vedremo.
Ma
andiamo con ordine e cominciamo con il primo: La Grande Guerra. Ecco la trama: l'Italia si prepara alla prima
guerra mondiale. Il milanese Giovanni Busacca (Vittorio Gassman) vorrebbe
evitare l'arruolamento e il piantone romano Oreste Jacovacci (Alberto Sordi)
gli fa intendere che dietro compenso lo farà riformare. Non è così e Giovanni
cerca Oreste per dargli una lezione. Tuttavia, quando si ritrovano, i due
diventano amici. A Tigliano, piccolo paese delle retrovie, attendono d'essere
mandati al fronte. Intanto Giovanni conosce Costantina (Silvana Mangano), una
prostituta che gli ruba il portafoglio. Finalmente eccoli al fronte. Incapaci
di ammazzare un austriaco indifeso, i due passano per lavativi. Un giorno si
offrono volontari per portare un messaggio a un distaccamento. Quando si
apprestano a tornare, sulla montagna infuria la battaglia e i due se ne
approfittano per riparare in un casolare. Scoperti dagli austriaci e
considerati spie sono minacciati di morte se non forniscono informazioni sulla
loro missione. Stanno quasi per cedere quando, di fronte all'arroganza
dell'ufficiale che li interroga, Giovanni lo insulta e viene fucilato. Oreste
segue l’esempio del compagno e viene fucilato mentre grida “Non voglio morire… sono
un vigliacco”. Il loro comandante ignaro di tutto ciò, dirà: “E pensare che
anche questa volta quei due lavativi se la sono scampata…”. Ecco, già dalla
trama, si capisce lo spessore di quest'opera. Non è il solito film che
ricostruisce la cronaca della guerra edulcorandola come spesso accade quando si
vuole ricordare un evento fondamentale della propria storia patria. Il film
assume un punto di vista diverso, più basso, più vicino ai soldati semplici che
la combatterono, quegli ex contadini, ex operai o ex piccoli borghesi (i nostri
nonni o bisnonni) che si ritrovarono trascinati in un conflitto senza
precedenti nella Storia. Come ha detto Monicelli stesso: “Ho narrato la Grande
Guerra dal punto di vista dei soldati qualunque, dei tanti poveri diavoli che
furono trascinati al combattimento senza vocazione alcuna”. Perché poi è stato
così. La guerra ha infatti poco di epico, di eroico. Certo ci sono anche gli
Eroi, e ci furono nella Grande Guerra. Mi vengono in mente Enrico Toti, Cesare
Battisti, gli aviatori Francesco Baracca o Guido Keller, il Barone Rosso, gli
esteti armati come Ernst Junger o Pierre Drieu La Rochelle o D'Annunzio. Anche
lo scrittore Louis-Ferdinand Céline fu un eroe di guerra, salvo poi tornarne
schifato. Così come ci furono molti eroi anonimi, non riportati nei libri. Eroi
per caso, uomini qualsiasi come Busacca e Jacovacci, che non erano andati alla
guerra infatuati dal verbo irredentista o futurista, ma che, al contrario, di
fronte alla morte, alla violenza, alle mutilazioni, provavano sgomento , paura,
pregavano, piangevano. Erano umani. Eppure seppero sopportare virilmente il
loro compito. Attaccarono quando c'era da attaccare, digiunarono quando non si
poteva che digiunare.... Tutto ciò nel film viene riportato abilmente. Un film
quindi antiretorico, antibellicista, antimilitarista, come solo un artista come
Monicelli poteva fare. Il regista, si sa, era un toscanaccio irriverente, individualista,
e amante del vero. E toscano è anche quel mescolare il comico con il tragico,
l’unire il riso all'amarezza. Tutto il film è fatto così: drammatico, ma con
una serie di duetti divertenti di Gassman e Sordi, senza per questo cadere
nella macchietta. Anzi fornendo sempre un pungolo alla coscienza dello
spettatore e spingendolo alla riflessione. Una riflessione che arriva al suo
culmine nel finale quando i due protagonisti, che per tutto il film si sono
comportati da pavidi e scansafatiche , finiranno per morire con grande nobiltà.
È in questo momento che il film smette di essere un film storico per elevarsi
ad un livello più filosofico, etico: l'individuo e la sua libertà di saper
compiere il bene e il male, di subire gli eventi o di prescindere da essi
restando libero nella coscienza. Il principio di responsabilità del singolo.
A questo punto occorre parlare
del secondo film del '59, Il Generale
Della Rovere del regista Roberto Rossellini, basato su un soggetto di Indro
Montanelli che rielabora in chiave romanzesca un’esperienza vissuta nel 1944
dal giornalista. Brevemente la trama: nella Milano occupata dai nazisti,
Giovanni Bertone (Vittorio De Sica), un ex ufficiale ridotto a vivere di
espedienti, estorce denaro ai familiari dei partigiani caduti in mano alla
Gestapo in cambio di false informazioni sulla loro sorte. Viene scoperto e costretto
da un ufficiale tedesco a fingersi un generale impegnato nella guerra di
liberazione, l’aristocratico e valoroso Fortebraccio Della Rovere, e a spiare
nella prigione di San Vittore i capi antifascisti. Ma quando un vero leader
della Resistenza viene catturato a Milano, Bertone decide di non collaborare e
viene condannato alla fucilazione con altri detenuti. Mentre gli sparano grida
“Viva l’Italia!” e alla fine muore meglio del vero Della Rovere. Capirete dalla
trama cosa intendevo all'inizio quando ho parlato di un affinità tra i due
film. Anche in questo secondo film un fatto storico, diviene il motivo per una
riflessione etica: ancora una volta un individuo capace di compiere meschinità
e bassezze ma anche di ritrovare la sua umanità, il suo posto al di sopra delle
bestie; di ritrovare, come direbbe Ernst Jünger, “l’uomo che
è in ciascuno di noi”. Per chiudere è molto azzeccata la citazione delle Storie
Chassidim, riportata da Gianni Riotta nella sua prefazione all’ultima edizione
del romanzo di Montanelli: “Quando ti presenterai davanti all'Eterno, l'Eterno
non ti chiederà: perché non sei stato Mosè? Ti chiederà: perché non sei stato
te stesso?”
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