Lucilio Santoni
Prendo spunto da una lezione che recentemente
Emilio Gentile ha tenuto al Festival del Diritto di Piacenza. Gentile ha
trattato con intelligenza e precisione, da par suo, la modalità con la quale il
capo gestisce le masse, facendo particolare riferimento alla celebre opera di
Gustave Le Bon Psicologia delle folle.
Volendo sintetizzare, potremmo dire che la massa segue le opinioni e non certo
il pensiero, il quale è troppo difficile e faticoso da coltivare. Allo stesso
tempo ha bisogno di un capo, proprio perché le è confacente comportarsi come un
gregge. Pertanto, ad esempio nel linguaggio, il capo deve adottare uno stile
semplice, chiaro, aforistico e al contempo perentorio, assertivo e ripetitivo.
In definitiva, il capo deve guidare la folla dei suoi sottomessi che lo
osannano proprio seguendo le loro opinioni, le quali ondeggiano continuamente
in modo irrazionale. E proprio in quest'ultimo dato risiede la difficoltà
dell'impresa di conquistare e mantenere il potere, impresa non alla portata di
tutti, bensì solo di chi ha quella particolare qualità di cogliere tale
continuo ondeggiare e legarlo al proprio prestigio personale. A quel libro,
datato 1895, novello Principe di machiavelliana memoria, si sono
direttamente ispirati Mussolini, Hitler, Lenin, Roosevelt, Da Gaulle, Ataturk e
molti altri, evidentemente fino ai giorni nostri, che non nominiamo ma che
nessuno farà fatica a riconoscere.
Io vorrei qui, invece, ragionare su coloro che
si sottraggono alla logica del potere, sul perché lo fanno e, soprattutto,
scoprire se ne traggano “vantaggi” concreti. Per cominciare, mi avvarrò di un
semplice schema costituito da una figura geometrica: il triangolo. La base sarà
costituita dagli ondeggiamenti, sopra nominati, della massa. Tali ondeggiamenti
sono causati da un’infinita serie di paure, angosce, sensazioni, fugaci
pensieri, suggestioni, ma anche cose materiali, quali sono i fenomeni della
natura o le più recenti invenzioni della tecnica che permettono,
apparentemente, di dominare il mondo. Voglio dire che, come infiniti sono i
punti che costituiscono la base del triangolo, infinite sono la cause e le
ragioni del continuo ondeggiare della massa. Ma, come nel triangolo, salendo
verso l'alto, i lati si congiungono in un solo punto, il vertice, così nel
nostro caso riguardante il capo e le folle, i molteplici dati di partenza
convergono in un unico punto: la vendita del prodotto, cioè la presa del
potere. Se questa non si verifica, tutta la costruzione si rivelerà priva di
senso. La pubblicità più bella e costosa, se non porta a far decollare le
vendite, sarà un disastro su tutti i fronti. Se un aspirante tiranno, seguendo
fedelmente l’analisi di Le Bon, non arriverà a conquistare il potere, avrà per
sempre le stigmate del fallito.
Si potrà dire che così è la vita. Che è
sempre stato così: un gioco di potere. A tutti i livelli, dall’ambito della
famiglia, al gruppo, alla nazione, al mondo intero. Che non ci si può
sottrarre, a meno che non si voglia scioccamente essere rinunciatari e
perdenti. Che vale la pena provarci, salire sul ring e combattere.
Invece, io vorrei ragionare su un altro
aspetto della vicenda umana. Vorrei, per esempio, iniziare dicendo che se
quella molteplicità, la base del triangolo, viene fatta convergere verso un
punto, unico e imprescindibile, allora quella molteplicità verrà
necessariamente sacrificata a quell'obiettivo. Ogni sentimento, ogni relazione,
ogni poesia, ogni amore, ogni sensibilità, ogni intelligenza verrà sacrificata
all'altare del potere e della vendita (i quali termini sono qui
intercambiabili). Tali prerogative della natura umana saranno cancellate e non
avranno alcuna possibilità di fiorire se costantemente soffocate dalla
venerazione di quell’unico dio. Già lo diceva con parole infuocate di poeta
Charles Baudelaire quando parlava dei commercianti come di coloro dei quali non
ci si può fidare perché ogni momento della propria vita, anche il più intimo,
tentano di trasformarlo in denaro e hanno la testa solo lì e da nessun’altra
parte.
Il poeta, in effetti, è il contrario del
commerciante. È colui che rovescia il triangolo: parte da un punto, parte da
quell'unica cosa che dicono (che tentano di dire) tutti i poeti di ogni luogo e
di ogni tempo, per arrivare alla massima apertura di senso, per arrivare
all'infinito. Pensiamo solo alla differenza abissale che esiste tra la povertà
del linguaggio asfittico usato dal capo e dalle folle, descritto da Le Bon, e
la ricchezza della poesia. La prima un inferno di stupidità e deprimenti luoghi
comuni; la seconda una macedonia di frutti freschi, talvolta aspri e talvolta
dolci, ma sempre portatori di eros.
Ma lasciamo un attimo la poesia e torniamo al
sistema della vendita e del potere. Se tale sistema è così indiscusso e, molti
dicono, connaturato all’uomo, io mi sono sempre chiesto da dove derivi la
volontà, che alcuni uomini evidenziano, di sottrarvisi.
Io, personalmente, prendo il mio nome da
Lucilio Vanini, un frate carmelitano che aveva grandi doti di intelligenza e di
seduzione delle masse. Avrebbe potuto facilmente scalare la gerarchie
ecclesiastiche e acquistare un potere enorme. Non lo fece. Si mise contro la
Chiesa, scegliendo di coltivare la scienza e la filosofia. Andò in esilio in
Inghilterra e Francia. A trentaquattro anni l’inquisizione lo inchiodò con
l'accusa di ateismo e lo condannò al rogo. Allora, mi chiedo, se il sistema di
potere è connaturato agli uomini, perché Lucilio Vanini fece la scelta opposta?
Perché preferì morire pur di seguire la ricerca, sdegnando il potere? Domande
che mi hanno accompagnato tutta la vita e alle quali cerco continuamente di
dare una risposta. E mi appassiono, e fatico, e dedico amore, e spreco il mio
tempo, che non vale denaro alcuno naturalmente, nel dare una risposta possibile.
Utilizzo ora un’immagine fornitami dall'amico
e filosofo Alessandro Pertosa. Egli si chiede: se io rifiuto il potere, in
tutte le sue forme, mi sfoglio come un carciofo, o come una cipolla se si
preferisce, togliendomi via via le strutture, le protesi e gli strumenti che mi
consentono di esercitare il potere, anche quello minimo e impercettibile nei
confronti di chi mi sta vicino o semplicemente nei confronti di coloro con i
quali vengo in contatto, se insisto in tale opera di spoliazione di me stesso,
alla fine, cosa rimane? E, soprattutto, rimane qualcosa?
Mi sembrano queste domande fondamentali. La
domande che gli anarchici e i libertari di sempre, per esempio, hanno incarnato
nella maniera più evidente. Non volendo esercitare potere alcuno, hanno sempre
avuto il problema di persuadere gli altri ad abbracciare il proprio ideale di
libertà. Ma anche la regola delle suore carmelitane dice: “Le sorelle non
devono parlare troppo e, in ogni caso, non tanto da generare ammirazione nelle
altre”. Anarchia e cristianesimo si incrociano in questo punto.
La questione è tutta lì, nel carciofo. Forse,
davvero, a sfogliare e sfogliare, non rimane nulla. Forse nell’uomo non esiste
un nucleo che si possa sottrarre completamente al potere. E allora, questa
ammissione vuol dire abbracciare definitivamente la logica del potere? Vuol
dire ignorare i tanti Lucilio Vanini che vi si sono opposti nel corso della
Storia? Io credo di no. E mi associo a Jean-Jacques Rousseau quando dice: “È molto
difficile far obbedire chi non ama comandare”. Voglio dire che qui entra in
gioco un elemento basilare nella vita dell'uomo: l’utopia.
La vita dell’uomo, quella vissuta con dignità
e passione, non può prescindere da un oltre, un altrove, un mondo da
riscattare, un paradiso, terrestre o celeste poco importa, fatto di libertà, di
amore e di verità, nel quale vivere bene insieme agli altri. La sua
realizzazione non è prossima, certo, forse non è neppure possibile, ma l’anelito
verso di essa è scintilla primaria nell'animo umano. Il capo e la massa che lo
osanna possono anche vivere senza tale utopia che, per usare un termine
soprattutto cristiano, possiamo definire della speranza, ma lo faranno
sacrificando ogni poesia, ogni amore, ogni contatto sacro con le cose e ogni
dolce ozio creativo. Coloro che, invece, vivono nella propria carne quell’utopia
saranno perenni ricercatori, avranno la gioia e il dolore di camminare insieme
ad altri, non saranno vincitori ma neppure vinti, saranno se stessi, potranno
addirittura arrivare ad assaporare quell'ineffabile sentimento che è l’amore.
“Il contrario dell’amore non è l’odio ma il potere”, dice Jacques Lacan.
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