mercoledì 15 gennaio 2014

Il masochismo italiano all'opera con "La grande bellezza": perché si deve sempre attaccare chi ha successo?


Luciano Lanna

Con il successo internazionale del film di Paolo Sorrentino La grande bellezza si stanno inevitabilmente ripetendo tutti i riflessi condizionati connaturati alla cosiddetta "ideologia italiana". Il film colpisce e stupisce il pubblico da noi e nel mondo, si svela per quello che è, un capolavoro, ma in Italia scatta subito la presa di distanza pubblica e la critica gratuita. Un fenomeno che non è nuovo e che ha colpito negli anni, chiunque ha avuto successo nel nostro Paese. Pensiamo, per limitarci ai primi esempi che ci vengono in mente, al cinema di Sergio Leone, oppure alla narrativa di Giuseppe Berto… Più che significativo uno sguardo alla vicenda delle opere di quest’ultimo, il narratore nativo di Mogliano Veneto, i cui due primi romanzi – Il cielo è rosso e Il brigante – solo in Russia e negli Stati Uniti vendettero in poco tempo più di due milioni di copie. Alcuni dei tanti film che Berto sceneggiò per il cinema – Anonimo veneziano e Oh Serafina! – sono considerati veri e propri cult movie. Il suo capolavoro, Il male oscuro, del 1964, è indiscutibilmente il romanzo italiano del Novecento più conosciuto nel mondo. Fu un imprevisto successo straordinario: un libro totalmente nuovo per l’Italia, profondamente innervato della lettura e della lezione di Freud e si aggiudicò subito due premi in contemporanea: il Viareggio e il Campiello. Entusiasmò Dino Buzzati e fu osannato da Indro Montanelli. Eppure, nonostante venne tradotto in tutto il mondo e in tutte le lingue, venne attaccato dalla critica italiana… «Berto ottenne – ha raccontato il suo amico e collega Gaetano Tumiati – molti e molti consensi in America, venne elogiato pubblicamente da Hemingway, mentre i nostri critici letterari non ebbero mai la giusta percezione del suo talento, marchiandolo superficialmente come autore “fascista”… ». Tra i pochissimi, l’irregolare Sergio Saviane ha ad esempio ricordato come negli ambienti dell’establishment culturale fosse stato comunque decretato «l’ostracismo, anzi, l’eliminazione totale, per Giuseppe Berto, uno dei pochi scrittori autentici d’Italia…». E questo probabilmente, come suggerì Carlo Bo, perché i critici «non gli perdonavano la colpa del successo…».
Il successo è sempre una colpa in Italia, insomma… L’invidia pubblica è da noi più efficace che altrove, e produce anche questo… Paradossale, inoltre, che anche stavolta, nel caso de La grande bellezza, gli ambienti conservatori e di destra sono poi i primi a mobilitare l’attacco… Ripetendo quello che accadde, ad esempio nel 1960, per il film che è stato da molti paragonato proprio a quest’ultimo di Sorrentino, La dolce vita di Federico Fellini. Eppure, La grande bellezza è un film che parte esplicitamente da una citazione di Céline e che è profondamente immerso in una visione proustiana della decadenza… Cosa c’entra l’anti-italianità con uno straordinario affresco sull’esito degli ultimi quarant’anni di vita italiana, con il fallimento esistenziale, morale e culturale di un’élite culturale e di una intera classe dirigente, che il film descrive e racconta alla grande?

Certo, come abbiamo detto, anche nel 1960 fu proprio il Secolo d'Italia a contraddistinguersi per la campagna di stampa contro La dolce vita. E questo, anche in quel caso, nonostante il regista per la figura del protagonista, interpretato da Marcello Mastroianni, si fosse in parte ispirato a un giornalista di destra (e futuro cineasta) come Gualtiero Jacopetti e malgrado il film fosse piaciuto (e molto) a uomini non certo di sinistra come il cardinale di Genova, Giuseppe Siri, e al giornalista più famoso d’Italia, Indro Montanelli. Anche in quell’occasione la destra fu critica e becera, accodandosi alla stessa reazione che anche i comunisti provavano nei confronti dell’opera felliniana. “Sacrosanti i fischi a Milano” si leggeva il 7 febbraio sulla prima pagina del Secolo d’Italia, in quella fase condiretto a tre da Giorgio Almirante, Franz Turchi e Filippo Anfuso, con un’ampia spalla di prima intitolata “Vergogna! La dolce vita di Fellini è un oltraggio all’Italia e a Roma: lo si ritiri dalla circolazione”. E nell’articolo si poteva leggere: “Questo film attentato, questo film menzogna, questo film laido è passato tra le maglie della nostra stranissima censura: noi speriamo che le distratte autorità lo tolgano dagli schermi”. Tutto ci conferma una cosa: certi ambienti non riescono a non adeguarsi ai riflessi condizionati che pensano debbano essere i propri. L’establishment deve, per forza, criticare chi ha successo, mentre i conservatori debbono, è più forte di loro, attaccare qualsiasi opera che descriva artisticamente la decadenza. Ma, diciamo allora noi, perché non mandate al rogo anche i libri di Proust, Spengler, Céline, JüngerDrieu, Cioran e tanti altri? Se preferiscono le fiction retoriche e edificanti sulla storia ricostruita ex post lo dicano chiaramente… Noi, tranquillamente preferiamo dire, invece, che La grande bellezza è un capolavoro al quale auguriamo anche l’Oscar…

3 commenti:

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  2. non ti nascondo che sto film all inizio mi ha annoiato tantissimo al punto di non vederlo, sembrava un voler rincoglionire con la solita barbaria mediatica.. poi ho visto dei video su youtube dove c erano delle scene molto critiche ed interessanti.. ora voglio rivederlo meglio, sforzandomi nonostante la noia iniziale... forse questo film ha la unica colpa di essere prodotto da quella casta intellettuale che oltre alle parole non riesce ad andare, è la metafora emblematica della pigrizia del ceto colto nei confronti dell'impegno civile sociale e nei confronti della propria vita, lasciando tutto correre in un fiume di parole che hanno piu l effetto catartico che di risveglio delle coscienze...

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  3. Ah, se insistete a proporre paradossalmente di bruciare certi capolavori letterari, potrebbero darvi retta!

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