Luciano Lanna
Non ne scriviamo solo perché Sergio Leone nasceva a Roma ottantacinque anni fa, il 3 gennaio 1929, ma perché nelle librerie è arrivato un saggio che fa finalmente giustizia dell’essenza profonda dell’opera del cineasta romano: quella di essere un autore “politico”. Già il titolo del libro – Sergio Leone. Il cinema come favola politica (edizioni Fondazione Ente dello Spettacolo, pp. 220, euro 12,90) – sembrerebbe una provocazione, ma leggendolo ci si rende conto, invece, della fondatezza dell’assunto. “Il cinema leoniano – annota l’autore, Christian Uva – è anzitutto la testimonianza di uno sguardo profondamente critico tanto nei confronti della materia raccontata quanto nei riguardi degli stessi dispositivi linguistici e drammaturgici che ne presiedono la messa in forma. Lontana da qualsiasi intenzionalità ‘militante’ e sfuggente a qualsiasi classificazione ideologica, quella abbracciata da Leone è una prospettiva profondamente problematica e non riconciliata poiché intimamente fondata sulla compresenza di istanze in perenne, ma produttiva, tensione e instabilità. L’aggettivo politico assume poi ulteriore significato nel momento in cui segnala una lucida capacità di raccontare e interpretare aspetti salienti dell’identità italiana…”.
Fondamentale, almeno a nostro avviso, il capitolo “Metafore del mondo e modelli di pensiero tra Gramsci e Jünger”, in cui Christian Uva – che insegna Storia del Cinema all’Università Roma Tre e dirige la rivista Cinema e Storia (edita da Rubbettino) – dipana la cifra apparentemente irrisolta e sempre aperta del cinema di Leone, apparentata all’ideale del libertarismo dell’Anarca jüngeriano. “Che cosa accomuna – si domanda Uva – l’Anarca jüngeriano e le figure nodali del cinema di Leone? Certamente il ribellismo individuale contrapposto a qualsivoglia partigianeria collettiva che agisca all’interno del partitismo sociale o nazionale, e quindi la capacità (o quanto meno, in Leone, il tentativo) di vivere il proprio innato sentimento di libertà e di individualità senza doverlo sorreggere su alcuna stampella ideologica. Il personaggio-tipo del cinema leoniano condivide insomma con quello jüngeriano il ribaltamento della canonica condizione (propria soprattutto del cinema western classico americano) dell’uomo che è bandito dalla società in uomo che ha bandito la società da se stesso…”.
Forse sta anche in questa chiave metapolitica il successo dei film di Sergio Leone – da Per un pugno di dollari a Giù la testa sino a C’era una volta in America – che continuano a costituire dei veri e propri cult per intere generazioni: i ragazzi under 35 citano a memoria interi dialoghi delle sue pellicole, la pagina di Sergio Leone su facebook batte in numero di fan quella di tutti gli altri autori di cinema, sono oltre 50mila i suoi appassionati già registrati. Non solo: le grandi istituzioni culturali e le università di tutto il mondo continuano a studiarlo. Eppure, forse proprio per la sua chiave metapolitica, e nonostante tutto ciò, Leone è ancora un autore outsider, non solo perché non ha mai goduto dei consensi dell’establishment politico-culturale: «Molto dipende dal fatto – ha ricordato tempo fa la vedova, Carla Ramalli, intervistata da Paolo Conti sul Corriere della Sera – che Sergio non era un uomo di sinistra e la sinistra non lo ha mai perdonato per questo. Gli davano dell’uomo di destra, quasi del fascista…».
D’altronde, Leone non fu mai premiato con l’Oscar. «La morte lo ha forse preso troppo presto» ha annotato a suo tempo il critico Massimo Bertarelli. Nonostante ciò, per la sua importanza nello sviluppo del cinema nel 1992, Clint Eastwood, nel suo film Gli spietati, inserì nel titolo di coda l’esplicita dedica (un vero e proprio omaggio) «A Sergio» (ma anche "a Sam"). Su tutto la sua grande vocazione: «Il cinema – disse una volta lo stesso Leone – dev’essere spettacolo, è questo che il pubblico vuole. E per me lo spettacolo più bello è quello del mito». Spiegò prima di girare C’era una volta in America: «Fare un film di contestazione o di critica sarebbe al tempo stesso temerario e ridicolo, una dimostrazione di ambizione mal riposta, priva di qualunque credibilità. Un film è invece un racconto di fantasia, una favola... scritta naturalm ente per gli adulti, ma sempre una favola».
Qualche anno fa Giorgio Cingolani – rievocando le mitologie di una certa destra eretica giovanile degli anni ’70 – ha spiegato come molti «si ritrovavano nei film di Sergio Leone perché riconoscevano tutti temi cari al loro mondo: il disprezzo per l’utilitarismo, il coraggio, la vita avventurosa...». In Francia, alla fine di quello stesso decennio, uscì un libro di Pascal Ory, docente di storia all’università di Nanterre, intitolato L’anarchismo di destra, con un sottotitolo molto significativo: “Da Céline a Clint Eastwood”, in cui la cinematografia di Sergio Leone la faceva da padrona. In proposito, lo sceneggiatore Luciano Vincenzoni – che per Leone scrisse Per qualche dollaro in più, poi Il buono, il brutto e il cattivo e Giù la testa – ricorderà nella sua bella autobiografia Pane e cinema (Gremese): «Tra le motivazioni che mi hanno portato a fare cinema ce n’è una più forte delle altre: il mio incontro con Louis Destouches, in arte Céline. L’incontro fatale, la vera svolta. Avevo sedici anni, c’era la guerra, e una mattina, a Padova, dopo una grandinata di bombe americane, le sirene avevano dato il segnale di cessato allarme. Mi diressi verso casa, quando su una bancarella di libri usati vidi e comprai Viaggio al termine della notte, di Céline. Quella vecchia copia, polverosa e ingiallita, è anche ora davanti a me». Quel romanzo, prosegue lo sceneggiatore, è stato il sogno di tanti registi, lo avrebbero voluto realizzare Renoir, Carné, Clément...». E, alla fine, anche Leone: «Aveva visto la copia del romanzo sul mio tavolo, quella polverosa e ingiallita. Lo lesse e mi chiese cosa ne pensassi per un film. Gli comunicai tutto il mio entusiasmo. Lui andò anche in Francia con l’intenzione di realizzarlo...». Il tratto céliniano è del resto palese in molte suggestioni de Il buono, il brutto e il cattivo e in Giù la testa, dal disincanto nichilistico nei confronti della guerra al ridimensionamento del rapporto consueto tra vincitori e vinti... E sarà un passione, quella per il capolavoro di Céline, che unirà Leone a un altro grande regista nonconformista: Sam Peckinpah, l’autore di un indimenticabile western eretico come Il mucchio selvaggio. Non a caso il cineasta californiano (ma mezzo irlandese e mezzo pellerossa) verrà celebrato in Il mio nome è nessuno, un film del 1973, realizzato da Tonino Valeri ma su un’idea di Sergio Leone che ne era anche il produttore. Il nome del regista americano appare infatti visibile su una tomba di fronte alla quale i due protagonisti – Henry Fonda e Terence Hill – celebrano il tramonto dell’epopea del West. Molto, infatti, accomunava Peckinpah a Leone, a cominciare dalla passione per Viaggio al termine della notte, un romanzo – diceva il cineasta romano – in grado di evidenziare al massimo «le contraddizioni della vita del mondo moderno». A cominciare da una certa idea dell’America. «Uno dei primi amori della mia generazione – ha raccontato Leone – è l’America come ce l’ha mostrata Hollywood... Poi col tempo cominciai a capire che gli americani non sono aquile e, anzi, hanno il dannato vizio d’annacquare il vino delle loro idee mitiche con l’acquetta dell’american way of life di cui, tra parentesi, non importa niente a nessuno che abbia la testa avvitata sulle spalle. C’è una visione dell’America totalitaria e quasi sovietica. Un mondo senza conflitti, Abele senza Caino. Per un pugno di dollari nasceva anche da qui. Volevo rendere conto anche del ghigno crudele dell’America, ero stufo dei suoi sorrisi brillanti d’ingegneria dentaria. L’igiene e l’ottimismo sono i tarli che rodono il legno americano...».
In uno straordinario libro-intervista di Diego Gabutti – in cui, oltretutto, il noto giornalista segnava, nel 1984, il passaggio dalla sua formazione anarco-situazione a un libertarismo oltre la sinistra, preludio di quanto stava avvenendo nella cultura italiana in quella stagione – e intitolato C’era una volta in America (Rizzoli), Leone definisce il suo primo film della “trilogia del dollaro” nient’altro che «un film sull’America e la mia giovinezza nel cinema». Leone, d’altronde, era figlio di Roberto Roberti, regista-pioniere dell’industria cinematografica italiana ai tempi del muto e di Bice Walerian, un’attrice di quegli anni. Cresciuto praticamente a Cinecittà, rivelò subito una stupefacente abilità tecnica nel girare per i kolossal dei mitici anni Cinquanta le scene di battaglia e le sequenze di massa. Tutte di stampo mitico le sue prime collaborazioni, tra le quali Quo Vadis? di Mervyn Le Roy, primo dei grandi film storici realizzati in Italia, Elena di Troiadi Robert Wise, e, soprattutto, Ben Hur di William Wyler, in cui molti lo indicano come il vero artefice dell’indimenticabile corsa delle bighe. Assistente alla regia, quindi, ma anche sceneggiatore per Gli ultimi giorni di Pompei di Mario Bonnard, un kolossal tutto italiano spettacolare e grandioso, in cui Sergio Leone dovette trasformarsi in regista per sostituire Bonnard ammalato. Poi la sua prima regia ufficiale con Il colosso di Rodi, sempre in ambito mitologico-avventuroso. Poi la svolta western.
«Avevo visto – ha raccontato Leone a Gabutti – quel meraviglioso film di Kurosawa, La sfida del samurai, uscito nel 1961, e pensavo che sarebbe stato possibile trasformarlo in un magnifico western. Anche John Sturges, poco tempo prima, aveva tratto un grosso western, I magnifici sette, da un altro film di Kurosawa, I sette samurai...». D’altronde lo stesso Kurosawa s’era ispirato al nostro Luigi Pirandello per il suo Rashomon... Fu quella l’idea per il primo western di Leone: «Scrissi la sceneggiatura con Duccio Tessari, al quale continuavo a ripetere che dovevamo ispirarci all’Iliade di Omero, perché quella era l’origine di tutto, del western come della storia umana... ». Nella scelta degli attori, prevalse l’idea di trasformare i caratteristi in protagonisti. Da cui la scelta dell’americano Clint Eastwood per il ruolo dell’Uomo senza nome: «Sfogliando l’annuario degli attori vidi questa figura dinoccolata e sottile, dai lineamenti precocemente scavati, non ebbi più dubbi. Qualche ruga intorno agli occhi, un cigarillo tra le labbra, due dita di barba e avrebbe fatto la sua porca figura». E poi Gian Maria Volonté per la figura di Ramon: «Era un caratterista di razza pura. In quegli anni era molto sbilanciato a destra. Nero come l’anima di un bugiardo...». Era il 1964, quarant’anni fa, e Per un pugno di dollari riscosse uno straordinario successo di pubblico. L’anno successivo ancora successo con Per qualche dollaro in più... «La critica – ricordava Leone a Gabutti – s’era divertita a gettare palate di fango su Per un pugno di dollari, bollandolo come un inno alla violenza. La criticuzza pontificava, spaghetti western di qua e spaghetti western di là, tirando sempre in ballo fenomeni di costume e regressioni di massa, persino il centrosinistra e la Madonna di Loreto....». E con quel tipo di critico Leone era lapidario: «Stempiato, contorto di modi, moscio, con l’accento blasé. Un pubblico esegeta de Il posto delle fragole, che magnificava in terza pagina, senza averne capito nulla...».
Il successo dei suoi film fu il più grande schiaffo nei confronti di tutti questi ambienti mainstream. E quando, colpito da un infarto, il regista moriva il 30 aprile dell’89, rimasero incompiuti i suoi ultimi tre sogni: il film sul Viaggio al termine della notte, il rifacimento “all’italiana” di Via col vento e il kolossal su I 900 giorni di Leningrado. Un’idea che – lo ha ricordato Bertarelli – gli fece lanciare l’ultimo sberleffo a quegli intellettuali che non l’avevano mai amato: «Che ignoranti, lo confondono ancora con la battaglia di Stalingrado…».
«Avevo visto – ha raccontato Leone a Gabutti – quel meraviglioso film di Kurosawa, La sfida del samurai, uscito nel 1961, e pensavo che sarebbe stato possibile trasformarlo in un magnifico western. Anche John Sturges, poco tempo prima, aveva tratto un grosso western, I magnifici sette, da un altro film di Kurosawa, I sette samurai...». D’altronde lo stesso Kurosawa s’era ispirato al nostro Luigi Pirandello per il suo Rashomon... Fu quella l’idea per il primo western di Leone: «Scrissi la sceneggiatura con Duccio Tessari, al quale continuavo a ripetere che dovevamo ispirarci all’Iliade di Omero, perché quella era l’origine di tutto, del western come della storia umana... ». Nella scelta degli attori, prevalse l’idea di trasformare i caratteristi in protagonisti. Da cui la scelta dell’americano Clint Eastwood per il ruolo dell’Uomo senza nome: «Sfogliando l’annuario degli attori vidi questa figura dinoccolata e sottile, dai lineamenti precocemente scavati, non ebbi più dubbi. Qualche ruga intorno agli occhi, un cigarillo tra le labbra, due dita di barba e avrebbe fatto la sua porca figura». E poi Gian Maria Volonté per la figura di Ramon: «Era un caratterista di razza pura. In quegli anni era molto sbilanciato a destra. Nero come l’anima di un bugiardo...». Era il 1964, quarant’anni fa, e Per un pugno di dollari riscosse uno straordinario successo di pubblico. L’anno successivo ancora successo con Per qualche dollaro in più... «La critica – ricordava Leone a Gabutti – s’era divertita a gettare palate di fango su Per un pugno di dollari, bollandolo come un inno alla violenza. La criticuzza pontificava, spaghetti western di qua e spaghetti western di là, tirando sempre in ballo fenomeni di costume e regressioni di massa, persino il centrosinistra e la Madonna di Loreto....». E con quel tipo di critico Leone era lapidario: «Stempiato, contorto di modi, moscio, con l’accento blasé. Un pubblico esegeta de Il posto delle fragole, che magnificava in terza pagina, senza averne capito nulla...».
Il successo dei suoi film fu il più grande schiaffo nei confronti di tutti questi ambienti mainstream. E quando, colpito da un infarto, il regista moriva il 30 aprile dell’89, rimasero incompiuti i suoi ultimi tre sogni: il film sul Viaggio al termine della notte, il rifacimento “all’italiana” di Via col vento e il kolossal su I 900 giorni di Leningrado. Un’idea che – lo ha ricordato Bertarelli – gli fece lanciare l’ultimo sberleffo a quegli intellettuali che non l’avevano mai amato: «Che ignoranti, lo confondono ancora con la battaglia di Stalingrado…».
Nel suo ultimo film, C’era una volta in America, tra i due personaggi principali, Max che intende “rientrare nei ranghi” e Noodles che vuole “restare libero”, Leone – annota Uva – “è indiscutibilmente schierato con quest’ultimo, il quale mentre la Storia va avanti rimane quello di sempre: il progresso non lo riguarda, visto che esige un prezzo troppo alto da pagare. Non è un reazionario o un nostalgico, ma soltanto un idealista destinato a non lasciar traccia del suo passaggio nella Storia”. Un libertario céliniano come pochi...
Nessun commento:
Posta un commento