Annalisa Terranova
Ha
vinto il prime time la fiction “Anni spezzati” che ha raccontato
la strage di Piazza Fontana, la morte di Pinelli e l'uccisione del
commissario Luigi Calabresi. E una fiction, in effetti, ha questa
funzione: attirare pubblico, divulgare, spingere ad approfondire. Non
si può chiedere a una serie tv di fare luce su anni complessi e bui.
Si può dire però che questa serie - mandata in onda tra l'altro il
giorno dopo che Presadiretta su Raitre aveva mostrato i video dei
pestaggi e le storie delle vittime di settori violenti delle forze
dell'ordine – rientra a pieno titolo nel filone riabilitativo di
polizia e carabinieri programmato dalla Rai a partire dallo
squalificante episodio della Diaz. Ma questo è solo un primo
livello, che si manifesta nei discorsi fatti dal personaggio Luigi
Calabresi sulla verità, sulla trasparenza, sulla correttezza delle
procedure degli interrogatori, sull'intransigenza e sul dovere delle
divise di dare il buon esempio, quelle divise che portano pace e
ordine perché stanno in mezzo agli odii contrapposti. Auspici che
stridono alquanto con anni in cui, nel clima generale di tensione
sobillata ad arte, l'insabbiamento era all'ordine del giorno (e ne è
prova proprio il processo su Piazza Fontana) così come la
criminalizzazione di alcuni settori della società.
Ma
più ancora “Anni spezzati” (nonostante il meritevole sforzo di
sollevare il sipario sulle mistificazioni ieologiche di quegli anni
grazie alla consulenza di Baldoni e Provvisionato) rientra pienamente
il quella gestione della memoria nazionale che lo storico Giovanni De
Luna ha chiamato opportunamente “la democrazia del dolore”(La Repubblica del dolore, Laterza). Un
Paese come l'Italia dunque, incapace di fare i conti con il proprio
passato, preferisce incentivare il dolore per le vittime (tutte
uguali dinanzi alla morte esattamente come Pinelli e Calabresi nella
fiction di cui stiamo parlando) e per le sofferenze dei familiari, e
chiama tutto ciò “memoria condivisa” evitando accuratamente di
spiegare i ruoli, i contesti e gli intrecci che determinarono certe
scelte violente e di terrore. La narrazione televisiva si presta
molto bene a questa operazione di celebrazione della religione civile
delle vittime che, evitando ogni giudizio storico, è l'unica
possibile base – accettata dalle forze politiche in campo – per
una posticcia pacificazione. Mettere in mostra il dolore, allora,
anziché sforzarsi di spiegare i contesti. Il sentimentalismo che ne
deriva produce un chiaroscuro che distilla bontà: il buon padre
Calabresi (anche nei confronti dei suoi uomini), il buon anarchico
Pinelli, il buon utopista Feltrinelli, il buon poliziotto Boccia che
si innamora di un'anarchica sbandata. A fianco a tutta questa bontà
che prepara il finale commovente, appena accennati i livelli
superiori che si occupavano delle grandi manovre stabilizzatrici del
regime. Ma almeno, va detto, l'accenno c'è stato. Un ottimo
precedente per passare da una memoria pubblica fondata sul solo
ricordo assolutorio per tutte le vittime a una memoria davvero
condivisa basata sulla conoscenza reale dei fatti, perché – come
cittadini e non come spettatori – a quella abbiamo diritto.
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