giovedì 9 gennaio 2014

Anni spezzati: una fiction di successo adatta alla "democrazia del dolore"



Annalisa Terranova

Ha vinto il prime time la fiction “Anni spezzati” che ha raccontato la strage di Piazza Fontana, la morte di Pinelli e l'uccisione del commissario Luigi Calabresi. E una fiction, in effetti, ha questa funzione: attirare pubblico, divulgare, spingere ad approfondire. Non si può chiedere a una serie tv di fare luce su anni complessi e bui. Si può dire però che questa serie - mandata in onda tra l'altro il giorno dopo che Presadiretta su Raitre aveva mostrato i video dei pestaggi e le storie delle vittime di settori violenti delle forze dell'ordine – rientra a pieno titolo nel filone riabilitativo di polizia e carabinieri programmato dalla Rai a partire dallo squalificante episodio della Diaz. Ma questo è solo un primo livello, che si manifesta nei discorsi fatti dal personaggio Luigi Calabresi sulla verità, sulla trasparenza, sulla correttezza delle procedure degli interrogatori, sull'intransigenza e sul dovere delle divise di dare il buon esempio, quelle divise che portano pace e ordine perché stanno in mezzo agli odii contrapposti. Auspici che stridono alquanto con anni in cui, nel clima generale di tensione sobillata ad arte, l'insabbiamento era all'ordine del giorno (e ne è prova proprio il processo su Piazza Fontana) così come la criminalizzazione di alcuni settori della società.
Ma più ancora “Anni spezzati” (nonostante il meritevole sforzo di sollevare il sipario sulle mistificazioni ieologiche di quegli anni grazie alla consulenza di Baldoni e Provvisionato) rientra pienamente il quella gestione della memoria nazionale che lo storico Giovanni De Luna ha chiamato opportunamente “la democrazia del dolore”(La Repubblica del dolore, Laterza). Un Paese come l'Italia dunque, incapace di fare i conti con il proprio passato, preferisce incentivare il dolore per le vittime (tutte uguali dinanzi alla morte esattamente come Pinelli e Calabresi nella fiction di cui stiamo parlando) e per le sofferenze dei familiari, e chiama tutto ciò “memoria condivisa” evitando accuratamente di spiegare i ruoli, i contesti e gli intrecci che determinarono certe scelte violente e di terrore. La narrazione televisiva si presta molto bene a questa operazione di celebrazione della religione civile delle vittime che, evitando ogni giudizio storico, è l'unica possibile base – accettata dalle forze politiche in campo – per una posticcia pacificazione. Mettere in mostra il dolore, allora, anziché sforzarsi di spiegare i contesti. Il sentimentalismo che ne deriva produce un chiaroscuro che distilla bontà: il buon padre Calabresi (anche nei confronti dei suoi uomini), il buon anarchico Pinelli, il buon utopista Feltrinelli, il buon poliziotto Boccia che si innamora di un'anarchica sbandata. A fianco a tutta questa bontà che prepara il finale commovente, appena accennati i livelli superiori che si occupavano delle grandi manovre stabilizzatrici del regime. Ma almeno, va detto, l'accenno c'è stato. Un ottimo precedente per passare da una memoria pubblica fondata sul solo ricordo assolutorio per tutte le vittime a una memoria davvero condivisa basata sulla conoscenza reale dei fatti, perché – come cittadini e non come spettatori – a quella abbiamo diritto. 

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