lunedì 30 dicembre 2013

Storia del Secolo. In tipografia lavorava l'autore di "Faccetta nera"



Annalisa Terranova

Quando nel 2002 il Secolo celebrò il suo cinquantesimo compleanno fu redatta un’edizione speciale e i giornalisti si riunirono a cena con i direttori e gli ex direttori. All’epoca il giornale aveva due direttori: Gennaro Malgieri e Marcello Staglieno, che veniva dal Giornale di Montanelli e che al Secolo aveva portato come collaboratore il segretario di Togliatti Massimo Caprara. Fu Staglieno, a cena finita, a voler cantare “Faccetta nera” purché la prima strofa fosse intonata da una “gentile signora”, che poi ero io. Quella canzone in ogni caso è intrecciata alla storia del Secolo perché chi ne aveva scritto le parole, Renato Micheli, aveva lavorato alla tipografia del giornale in qualità di “proto”, termine tecnico per indicare il supervisore che alla fine licenzia le pagine per la stampa. 

Micheli arrivò al Secolo all’età di 40 anni e ci restò fino al 1974 quando con la sua liquidazione e qualche altro risparmio acquistò una piccola tipografia in via di Torpignattara per creare il giornale di cultura romanesca “La Boccaccia” dove scrisse anche Aldo Fabrizi, unico vip con Montanelli a partecipare ai funerali di Giorgio Almirante nel 1988. Al Secolo Micheli era una sorta di cimelio vivente, tanto che ogni volta che arrivavano ospiti in visita al quotidiano Franz Turchi li conduceva in tipografia, chiamava Micheli e lo presentava con orgoglio: “Ecco, lui è l’autore di Faccetta nera…”. La canzone venne inizialmente scritta in romanesco per la festa di San Giovanni nel 1935, musicata da Mario Ruccione e lanciata dal cantante Carlo Buti al teatro Capranica. La prima versione dunque faceva così: “Si mo’ dall’artipiano guardi er mare/ moretta che sei schiava tra le schiave/ vedrai come in un sogno tante nave/ e un tricolore sventolà pe’ te…”. Il regime poi la modificò con un testo simile a quello che tutti conoscono approvato dal ministero per la Stampa e Propaganda che vietò altre versioni anche se la gente cantava la versione originale il cui ritornello era “Faccetta nera, bell’abissina/ aspetta e spera che già l’ora si avvicina./ Quando saremo insieme a te/ noi ti daremo un’altra legge e un altro re”. Invece la versione di regime recitava: “Faccetta nera ch’eri abissina/ aspetta e spera – si cantò – l’ora è vicina/ or che l’Italia veglia su te/ avrai tu pure a imperatore il nostro re…”.  La canzone Faccetta nera, che indubbiamente favoriva accoglienza e integrazione verso la popolazione etiopica, fu durante il fascismo più famosa di “Giovinezza”, nonostante fosse una canzone di musica leggera e non un inno politico.

Il 31 dicembre del 1988 l’allora direttore Giano Accame la citò in un editoriale contro la destra xenofoba, suggerendo un atteggiamento di tolleranza verso gli immigrati: “La nostra educazione sentimentale – scriveva – si è alimentata anche con il popolarissimo motivo di Faccetta nera, con Mussolini che brandiva la spada dell’Islam, e non la tradiremo oggi per eccitare ondate di disprezzo e odio contro i vu’ cumprà”. L’editoriale compariva in una particolare prima pagina del Secolo in cui una foto ritraeva Gianfranco Fini con in braccio una bimba etiope e il titolo a nove colonne “Solidarietà”. La cronaca della visita di Fini alla comunità etiope di Roma era firmata da Francesco Storace.
Grazie a due firme, Leonida Fazi e Franz Maria D’Asaro, il Secolo aveva sempre rivendicato la particolarità dell’esperienza coloniale italiana in Etiopia anche facendo riferimento a questa canzone e nello speciale pubblicato dal Secolo per la morte del generale Rodolfo Graziani nel pezzo relativo ai funerali si ricorda la presenza degli ascari in lacrime vicino al feretro nella chiesa di San Bellarmino.
Nel 2002 titolai un mio libro sulla destra “Aspetta e spera che già l’ora s’avvicina”, utilizzando un verso di Faccetta nera per dire che l’arrivo al governo dei “camerati” di Alleanza nazionale aveva comunque lasciato la destra nel limbo dell’attesa, e che quell’attesa si sarebbe completata solo se si fosse avuto il coraggio di liberarsi dall’ingombrante sudditanza a Silvio Berlusconi. Come si vede, siamo ancora allo stesso punto.    

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