Lorenzo Randolfi
G.R.A. è una sigla che sta per Grande Raccordo Anulare. Chi non vive a Roma non
può immaginare cosa sia. Doveva essere un percorso stradale che consentisse ai
cittadini di viaggiare in auto lungo la circonferenza della Capitale.
Accorciare i tempi e snellire la viabilità. Oggi è molto di più, è un luogo, è un
habitat, e anche un “non luogo” umano. Dal secondo dopoguerra (già nel 1946)
quando fu progettato dall’ingegnere Eugenio Gra, ai giorni nostri, tanta storia
è passata. Anzi, si può dire che la storia recente di Roma come centro urbano è
per lo più la storia delle sue periferie, e del Gra che le attraversa.
Periferie sorte in pochi decenni in maniera irrazionale,
casuale, senza un vero criterio urbanistico che ne ispirasse lo sviluppo. Senza
Piano regolatore. Nello stesso tempo, la storia di questi luoghi è anche la
storia dell’Italia degli ultimi sei decenni, visto che la crescita urbana di
Roma è dovuta per lo più alle migrazioni di lavoratori provenienti da tutta la
penisola, specie dal Sud. Se Roma divenne un polo d’attrazione fu a causa di
scelte politiche più generali, di mancate soluzioni a problemi antichi, come il
sottosviluppo del Mezzogiorno o l’eccessiva centralizzazione della burocrazia.
Ecco che attorno a Roma si venne a creare un'altra Roma. Pier Paolo Pasolini,
profondo conoscitore di queste realtà, diceva: “Attorno a Roma vi è quella
immensa e spappolata cosa che è Roma”.
Un microcosmo, quindi, che non poteva non incuriosire uno come
Gianfranco Rosi, regista specializzato in documentari attorno a “luoghi dell’uomo”.
Per due anni Rosi, veste i panni dell’esploratore metropolitano e gira nelle
zone attraversate dal GRA filmando la vita dei suoi abitanti. Come uno zoologo.
Il risultato il film vincitore del Leone
d'oro all'ultima Mostra di Venezia (la 70 esima). Sacro Gra, il titolo. Docu-film o film documentario è stato definito, e tecnicamente
lo è, in quanto si limita a osservare, registrare, descrivere senza giudicare.
Lo stesso regista ha spiegato che “è Roma ad avermi consegnato questo film”,
sottolineando appunto la sua ottica spuria da intenti che non sia quello
puramente descrittivo. E in questo il film è riuscito. Nella narrazione non vi
è traccia di alcuna impostazione sociologica o politica; ne tanto meno è
presente una prospettiva di denuncia sociale. Certo, le vite mostrate
appartengono più che altro a delle categorie di frontiera, borderline: nobili
decaduti, prostitute, persone prossime allo sfratto… Ma non è questo che
interessa al regista.
A Rosi preme di raccogliere materiale per un vero e proprio studio
antropologico alla Marc Augé. Uno studio che ha come oggetto non tanto le
periferie e le esistenze disagiate quanto piuttosto la vita umana in sé e il
rapporto uomo-habitat. Guardando il film con attenzione ci si rende conto che
l'ottica descrittiva, l'intento esplorativo sono sorretti da una poetica,
questa si, personale dell’autore. L'imparzialità del regista, la sua apparente
assenza dalla narrazione sono la forma che assume la sua filosofia. Una visione
filosofica che nel suo non voler giudicare la vita e limitarsi a mostrarla
sembra figlia della lezione di Nietzsche o Schopenhauer. Il tema del film non è
tanto una certa umanità (quella di Roma), ma l'Umanità in sé, la vita dell'uomo
nel suo divenire caotico fino alla morte, la sua condizione esistenziale.
Quella di un’umanità che cerca di vivere come gli viene, che non conosce un
modo giusto di vivere e se anche lo conosce non sempre è in suo potere. Allora
a che serve giudicarla? Comunque vada, la vita resta sacra. Ecco allora che
sacra la vita, sacro il... Gra.
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