lunedì 11 novembre 2013

"Sacro Gra", fotogrammi di vita



Lorenzo Randolfi
G.R.A. è una sigla che sta per Grande Raccordo Anulare. Chi non vive a Roma non può immaginare cosa sia. Doveva essere un percorso stradale che consentisse ai cittadini di viaggiare in auto lungo la circonferenza della Capitale. Accorciare i tempi e snellire la viabilità. Oggi è molto di più, è un luogo, è un habitat, e anche un “non luogo” umano. Dal secondo dopoguerra (già nel 1946) quando fu progettato dall’ingegnere Eugenio Gra, ai giorni nostri, tanta storia è passata. Anzi, si può dire che la storia recente di Roma come centro urbano è per lo più la storia delle sue periferie, e del Gra che le attraversa.
Periferie sorte in pochi decenni in maniera irrazionale, casuale, senza un vero criterio urbanistico che ne ispirasse lo sviluppo. Senza Piano regolatore. Nello stesso tempo, la storia di questi luoghi è anche la storia dell’Italia degli ultimi sei decenni, visto che la crescita urbana di Roma è dovuta per lo più alle migrazioni di lavoratori provenienti da tutta la penisola, specie dal Sud. Se Roma divenne un polo d’attrazione fu a causa di scelte politiche più generali, di mancate soluzioni a problemi antichi, come il sottosviluppo del Mezzogiorno o l’eccessiva centralizzazione della burocrazia. Ecco che attorno a Roma si venne a creare un'altra Roma. Pier Paolo Pasolini, profondo conoscitore di queste realtà, diceva: “Attorno a Roma vi è quella immensa e spappolata cosa che è Roma”.


Un microcosmo, quindi, che non poteva non incuriosire uno come Gianfranco Rosi, regista specializzato in documentari attorno a “luoghi dell’uomo”. Per due anni Rosi, veste i panni dell’esploratore metropolitano e gira nelle zone attraversate dal GRA filmando la vita dei suoi abitanti. Come uno zoologo. Il risultato  il film vincitore del Leone d'oro all'ultima Mostra di Venezia (la 70 esima). Sacro Gra, il titolo. Docu-film o film documentario è stato definito, e tecnicamente lo è, in quanto si limita a osservare, registrare, descrivere senza giudicare. Lo stesso regista ha spiegato che “è Roma ad avermi consegnato questo film”, sottolineando appunto la sua ottica spuria da intenti che non sia quello puramente descrittivo. E in questo il film è riuscito. Nella narrazione non vi è traccia di alcuna impostazione sociologica o politica; ne tanto meno è presente una prospettiva di denuncia sociale. Certo, le vite mostrate appartengono più che altro a delle categorie di frontiera, borderline: nobili decaduti, prostitute, persone prossime allo sfratto… Ma non è questo che interessa al regista.
A Rosi preme di raccogliere materiale per un vero e proprio studio antropologico alla Marc Augé. Uno studio che ha come oggetto non tanto le periferie e le esistenze disagiate quanto piuttosto la vita umana in sé e il rapporto uomo-habitat. Guardando il film con attenzione ci si rende conto che l'ottica descrittiva, l'intento esplorativo sono sorretti da una poetica, questa si, personale dell’autore. L'imparzialità del regista, la sua apparente assenza dalla narrazione sono la forma che assume la sua filosofia. Una visione filosofica che nel suo non voler giudicare la vita e limitarsi a mostrarla sembra figlia della lezione di Nietzsche o Schopenhauer. Il tema del film non è tanto una certa umanità (quella di Roma), ma l'Umanità in sé, la vita dell'uomo nel suo divenire caotico fino alla morte, la sua condizione esistenziale. Quella di un’umanità che cerca di vivere come gli viene, che non conosce un modo giusto di vivere e se anche lo conosce non sempre è in suo potere. Allora a che serve giudicarla? Comunque vada, la vita resta sacra. Ecco allora che sacra la vita, sacro il... Gra.

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