Pubblichiamo un intervento sul tema della diffusione della cultura delle identità di genere e dell'introduzione del concetto di "gender". Al di là della condivisibilità o meno delle tesi sostenute lo riteniamo un modo argomentato e culturalmente fondato per avviare un dibattito....
Marina Maugeri
Norme
sul femminicidio, legge contro l’omofobia, ampliamento dei diritti sessuali e
riproduttivi, burocrazie su gentore 1 e genitore 2: la trama regolatrice di
«nuovi diritti» si dipana a colpi di leggi, forgiando un’ipotesi della realtà
che poggia su assunti teorici, apparentemente razionali, ma non del tutto
razionalizzabili. All’apice di questo processo si dispiega un’ideologia sotterranea
ma sempre più diffusa identificabile nel termine gender, vocabolo che compare in occasione nella quarta Conferenza
mondiale sulla donna tenuta nel 1995 a Pechino, quando sostituì la parola di
antico conio sesso, dal latino
sexum che significa diviso, separato, differente con il termine che va nella direzione opposta di
significato, perché in italiano "genere” identifica una categoria
concettuale che raggruppa individui con proprietà simili, mentre l’originario
significato inglese richiama l’identità sessuale intesa però come mero prodotto
di una costruzione sociale e come autodeterminazione individuale.
All’epoca
della Conferenza di Pechino la traslazione lessicale passò quasi inosservata e
sembrò supportasse l’istanza di una riformulazione del concetto di uguaglianza
alla luce dello specifico femminile nelle diverse culture, assumendo la valenza
di parola d’ordine destinata a un cambiamento culturale, ma interno al processo
di ridefinizione dei ruoli tra uomo e donna nella società, sinonimo quindi di
pari dignità e pari opportunità tra i sessi.
La
nuova parola, gender, poneva invece una
falsa equivalenza fra i concetti di differenza e disuguaglianza, creando la
premessa per cancellare con un colpo di spugna, una pratica, oppure un semplice
modulo, la specificità del maschile e del femminile, la differenza, la
specificità.
La
considerazione che prevalse nella Conferenza voluta dall’ONU è che le donne
dovessero vedere riconosciuti i loro “diritti umani”, i quali si possono
ottenere solo con il riconoscimento dei diritti sessuali, ivi inclusi i“diritti
riproduttivi” che richiamano il diritto all’aborto e il controllo della
fertilità con i contraccettivi, schiacciando la donna sull’identità biologica a
scapito dell’istruzione, del lavoro, dei diritti politici, considerati invece
irrilevanti nell’agenda di genere. Nella realtà, malgrado l’apparente
disinvoltura a ripensare il mondo in termini “pan-sessualisti” con una scala di
valori che preconfeziona diritti pronti all’uso, il gender ha inflitto un duro colpo soprattutto all’amore, sminuito a
sentimento, e al desiderio, depotenziato nelle sue implicazioni creative, che
ne escono vistosamente scansati.
La
sessualità non è mai neppure pensata come comunione con l’altro ed è invece percepita
come una disciplina letale che suscita panico e dalla quale occorre “preservarsi”,
mettendola moralisticamente sotto controllo chimico, costruendo a tale scopo l’artificioso
immaginario di una Venere che si unisce ai “molti”, ma più che una dea
inarrivabile è una mortale che basta a se stessa, mentre tutto intorno a lei muore
e chi combatte per lei muore per un simulacro di donna, portatrice di una
sessualità rassicurante perché scissa dal desiderio, dunque prevedibile. Donare
la vita è poi considerata una vera e propria minaccia di morte di proporzioni
incommensurabili, un’eventualità che richiede uno sforzo sovrumano cui sarebbe
preferibile anteporre qualsiasi altra pratica si possa configurare all’interno
di modalità tecniche o consumistiche descrivibili, nelle quali includere anche
l’omosessualità ma in una visione borghese che implica la regolamentazione
burocratica dei rapporti. La Chiesa cattolica, considerata
da sempre l’interlocutore scomodo in questo genere di simposi internazionali e
accusata strumentalmente di bigottismo, si mostra perciò al contrario l’unica a
non aver paura di liberare il sesso e a volere accendere l’uomo di desiderio per
trascinarlo in uno sconvolgimento che possa lanciarlo oltre se stesso,
impegnando in questa sfida la sua vita fino in fondo.
La
Conferenza di Pechino non fa dunque che riproporre schema in cui è riconoscibile
una matrice simbolica e ideologica che reitera il dramma dell’uccisione non
fisica, ma ideologica e antropologica dell’idea stessa di donna, spogliata dell’antico lignaggio della domina, intesa come Signora del creato e declassata a mera femmina,
prodotto casuale di un cieco processo biologico, per rimuovere ciò che dal
medioevo eleva ogni “ma-donna”, al rango della Madre di Dio, in corrispondenza
dell’archetipo della Vergine capace di donare la vita e che accettare di
avventurarsi nell’iniziazione profonda della realtà. L’eclissi di significato
ha perciò un riflesso immediato anche sul piano maschile perché la natura
femminile esiste nell’uomo come creatura interiore che possiede questo
mondo invisibile.
Il
progetto di genere prende dunque le
mosse da un’asportazione che richiede anche un’esportazione perché per
fermentare necessita come l’impasto del pane di un pezzetto di lievito della madre, archetipo della matrice, e di un’identità
femminile labile come un riflesso di luce della luna, illusoria sia quando la
luna è bianca e piena, che quando la luna scompare dal cielo ed è perciò muta e
nera. Una luce che non spezza la paura, non possiede l’ampio raggio dell’aurora
del giorno che rende visibile la forma.
Le
lobby femministe legate all’ideologia gender s’impegnano concretamente nel
ruolo di tessitrici, compiendo questa mansione stanziale e ordinaria,
prevedibile e circolare che punta a riscrivere il linguaggio. Tessere è una
pratica misteriosa e nascosta, basata sulla reiterazione. Le
tessitrici erano costrette a una vita durissima, in apparenza senza storia, ma
quando tagliavano i fili della tela, l’ordito includeva tutte le immagini
archetipiche del collettivo. Simili a Parche, temibili figure
mitologiche decadute, le moderne ideologhe del gender si sporgono sulla soglia della vita e della morte per
presiedere al compito smisurato di filare il “destino” degli uomini per renderlo
misurabile e infine tagliarlo, mentre con zelo da massaie mettono in ordine il
mondo, smacchiando le “impurità” lessicali per rispondere a quella legge
dell’utilità che riguarda la fisica e presiede alla formazione della materia,
ma la cui evoluzione pratica si riferisce al mondo della funzionalità dell’oggetto, all’economia e alla tecnica
della costruzione.
Gli
attori principali che soffiano il vento gender
sull’Europa sono riconoscibili perciò in quegli ambienti del post-femminismo
postmodernista, affiancati dalle organizzazioni abortiste e dai gruppi
impegnati nella diffusione della contraccezione che annoverano fondazioni di
tipo “filantropico”, il cui reale obiettivo è solo quello di riscrivere le
leggi sui “diritti umani”, utilizzando un linguaggio che renda funzionale la
promozione dell’agenda di genere.
«Gender
Mainstreaming» è letteralmente il “genere all'interno della società che si
muove”, ovvero il genere che si pone al centro delle politiche e delle azioni e
non al di fuori di queste. Sotto questa egida si articola molto più di una
semplice teoria, ma un movimento che ha l’obiettivo di scardinare la “persona
umana” per poterla ridisegnare, con una strategia che poggia sulle tesi del pensiero
strutturalista e costruttivista, che fa da sfondo all’ipotesi che l’uomo sia un oggetto effimero,
generato nel quadro di una precisa episteme e proiettato in una cultura in
evoluzione che lo determina, dove il sapere però si limita a costruire la forma
organizzata, mentre l’uomo è solo il risultato di modelli sociali che lo
plasmano e di strutture che egli eredita come un’accozzaglia derivante da
avvenimenti senza senso. L’uomo in quanto persona
non sarebbe perciò che un mero risultato di modelli e di ruoli sociali in cui è
stato costretto, la sua storia solo il risultato di un’assurdità che giustifica
pienamente il conio di una semantica che permette di descrivere qualcosa che in
realtà non esiste, cancellando dal vocabolario ogni riferimento alla differenza
maschile e femminile.
Se
la modernità aveva posto l’uomo sotto un cielo vuoto e lo aveva spiegato in
modo autoreferenziale - l’uomo con l’uomo, la sua chimica, la sua psicologia -
la teoria di genere costruisce un’ipotesi e in nome di qualcosa che dipende
dalla volubilità di una teoria astratta contesta la realtà, proclamando che le
caratteristiche di virilità dell’uomo e quelle di accoglienza della donna non
sono affatto patrimonio della “natura” della persona, ma “ruoli artificiali”,
quindi né definitivi, né determinati ed estromette tutto ciò che la sua ragione
non riconosce come analizzabile, violando l’ordine naturale. Ne consegue che la
sessualità possa essere facilmente dislocata in modo deterministico, affinché
il corpo che è il grande indiziato e il “portatore della colpa” non obbedisca
più alla vita e non parli più della persona,
le tracce del suo sesso possano essere cancellate e la complementarietà dei
sessi non esprima in sé il potenziale della storia, scritto nel codice segreto
dell’uomo, che è la vocazione alla donazione reciproca, la vocazione all’amore,
ma solo il risultato di una serie accidentale di fenomeni meccanici, calati in
una natura ostile che nega all’uomo anche la possibilità di essere libero da
qualunque legame deterministico con la storia. Sebbene perciò l’esperienza del
limite costituisca la condizione umana perché qualcosa possa esistere e la
forma concorra a definire lo spazio nel quale l’uomo é in relazione con l’altro,
l’ideologia di genere “ricrea” l’uomo dalla disgregazione di uno spazio e lo
dissolve nel molteplice, svincolandolo dal tempo storico, disimpegnandolo dalla
politica e dai condizionamenti che la natura, la cultura, gli antichi retaggi
religiosi gli avrebbero imposto per farlo rientrare nei cicli naturali, ponendo
la priorità del genere sul sesso e della volontà sul limite della natura, che
significa ritenere che ogni orientamento sessuale possa valere quanto un altro,
equiparando di fatto l’etero-sessualità alla omo-sessualità, con la conseguenza
di porre la condizione per la "neutralità" sessuale, condizione che
proietta l’uomo in una soglia d’indifferenziazione nel momento stesso in cui la
diversità non corrisponde più ad una legge imprescindibile alla cui
inviolabilità non si può derogare pena la distruzione di quell’umanità che è
fondamento della vita e del diritto naturale. Nel gender l’identità è piuttosto quella di non averne proprio nessuna,
di realizzare una sorta di jolly, la cui sensazione d’onnipotenza è oltremodo
ingannevole perché la tensione vitale muove dall’espansione del desiderio ma è
destinata ad espandersi come vuoto e l’apparenza non è che la maschera che
copre un volto proprio per riuscire ad assumere qualsiasi identità, per vivere difendendosi.
Al pari di un qualsiasi prodotto costruito in serie, l’uomo è trasformato in un
essere virtuale, cui pesa l’incompiutezza della forma, che percepisce il caos
che lo sconnette, mentre nella realtà prima ancora di vivere un come dovrebbe semplicemente accettare di
vivere, essere felice di essere.
L’ideologia
di genere s’infiltra in modo subdolo
nella mentalità e nel costume, nelle normative internazionali e nazionali,
ponendosi al centro delle agende politiche, approfittando dell’ambiguità insita
nel termine per diffondersi nel diritto. Compiuti i primi passi, si spinge in
avanti, dettando i tempi della vita politica, culturale, economica e giuridica
e una volta imboccata la negazione percorre la strada dell’indifferenziato,
rimodellando l’umanità a partire dalla costruzione di insiemi che riflettono i suoi
presupposti teorici e determinano leggi antidiscriminazione dell’orientamento
sessuale e dell’identità, come quelle sull’omofobia e sul femminicidio, che
raggruppano generi d’individui simili fra loro, capaci di assumere forme
contrapposte, eccitate nella loro contrapposizione e che concorrono alla
costruzione di un mondo posto sotto l’egida della “non discriminazione”, voluttuosamente
imposta a colpi di proibizioni.
Il
punto di arrivo immaginato dall’ideologia gender
è un individuo solo con il proprio vuoto, vuoto pieno però di un delirio per
qualcosa percepito come estraneo, da cui si libera solo a sua volta
perseguitando, al punto che quando i soggetti coinvolti subiscono il delirio
non si capisce più se sono perseguitati o se perseguitano e sono alla perenne
ricerca di un “capro espiatorio”, qualcuno verso cui fare convergere e
trasferire efficacemente tutte le tensioni e l'aggressività sociale che
contrappone “persecutori e perseguitati”.
La
traccia della persona deve essere
perciò cancellata in quanto “creatura” considerata superflua, proprio perché in
lei risiede tutto ciò che rende distinguibile l’uomo dalla cosa ed esprime la radice
che ha in sé il limite della finitezza e al tempo stesso la vocazione alla
bellezza, qualcosa che ostacola il volo, ma anche lo straordinario che lancia l’uomo
nel suo impossibile. Uccidere l’essenza profonda dell’uomo – la sua sostanza
divina - e uccidere l’uomo significa, perciò, la stessa identica cosa, vuol
dire ridurlo a un oggetto insignificante,
un prodotto biologico casuale, trasformando la sua vita in una caduta colpevole e la storia in una
maledizione senza senso, una vita e una storia da “pidocchi”.
Nel
cristianesimo la nozione di persona è
presente perché il Dio cristiano è relazione e l’uomo creato a sua immagine e
somiglianza è relazione, la persona
umana è dunque un volto rivolto verso qualcuno che è diverso e il crollo della relazione è la falsificazione del volto
di Dio, da cui discende la violenza che contagia la collettività e la rende
anche contagiosa, precipitandola nella reciprocità del “tutti contro tutti”, dove l’altro è fisicamente l’ostacolo da superare
in quanto latore del limite, che fornisce al tempo
stesso l’unico parametro per essere
qualcosa e dunque anche per associarsi, ma solo con quelli con i quali si ha un
antagonista in comune, un nemico da abbattere, al quale in fondo somigliare.
La
teoria di genere è impersonale, non
considera l’alterità feconda, né una ricchezza da coltivare; non è perciò in
alcun modo collegabile ad un’antropologia cristiana, ma si appropria invece delle
virtù cristiane, falsificandole e privandole della speranza cristiana - che
imporrebbe un cambiamento radicale di prospettiva - per renderle del tutto
immanenti e trasformarle in teorie moraliste e buoniste basate sul concetto
moderno di volontà per dislocare la rivelazione dal Logos incarnato, l’uomo dal
suo destino di vita eterna, dalla possibilità stessa che il Dio trascendente,
insieme uno e trino, restando trascendente, possa condurre la storia insieme
all’uomo, misconoscimento che si riflette in tutta la dimensione politica che a
partire dal deismo moderno priva la storia del suo potenziale.
La risposta culturale
alle tesi dello strutturalismo ha dato impulso negli ultimi decenni ad una
ricerca che trova nell’antropologo francese René Girard un significativo,
articolato e strenuo oppositore ai suoi esiti scontati, intesi soprattutto come
espressione di un umanesimo privo di comprensione per l'uomo nella sua
relazione con la storia e con l’origine, il cui fondamento, secondo Girard, risiede
nel divino che egli restituisce alla sfera del sacro e da cui fa discendere la
genesi del processo culturale, politico e sociale umano. Girard si oppone alle
tesi dello strutturalismo di Lévi-Strauss, dal quale ritiene si sarebbe affermato
un modo di pensare che facendo a meno dell’identità, fa a meno del reale e
della comprensione della reciprocità dei rapporti umani.
L'uomo
esiste, nell’analisi di Girard, non solo come animale simbolico e non solo come
costruttore di simboli, ma calato nel sacro e la verità sul misconoscimento
della violenza umana è quella pienamente rivelata agli uomini dall’evento della
Croce, che illumina la fondazione violenta e rivela il vero volto e l’innocenza
di Dio, inceppando il meccanismo che è alla base del misconoscimento stesso e rendendo
perfettamente leggibile come il sacro e la violenza siano una stessa cosa.
Il
misconoscimento del sacro ritorna, invece, perciò nella nostra epoca ad essere
un fluido che tutto permea, nonostante l’oblio dei moderni, proprio perché un
modello che nega ad ogni costo l’alterità in nome dell’indifferenziazione di
tutti i significati ripropone per paradosso continuamente la Croce, il problema
dell’Altro, la “pietra d’inciampo” di cui parla il Vangelo. La presunta “liberazione”
promossa dal gender s’ispira, invece, al decadimento moderno
nell’evoluzionismo, nel progressismo materialista, in certa religione cosmica deliberatamente
ispirata ai sistemi panteistici arcaici e non può che promuovere nei suoi esiti
più contorti una cultura che fa leva sull’istinto di morte e sulla disperazione
dell’uomo, un tipo di umanesimo che detesta l’uomo e vorrebbe avere a che fare
con tutto tranne che con qualcosa di umano.
Dopo
il diritto all’aborto, l’agenda di genere punta all’ampliamento dei “diritti
umani” naturali promuovendo addirittura la regolamentazione del suicidio, lo
svuotamento di significato del matrimonio fra uomo e donna, l’aggressione strategica
alla famiglia in quanto soggetto forte, resistente e solidale, il diritto
all’adozione nelle coppie LGBT, la separazione del genere come ruolo
socialmente costruito dal sesso biologico, l’inclusione dei diritti sessuali e
riproduttivi; il diritto alla prostituzione, l’eliminazione del disturbo
dell’identità di genere dall’elenco dei disturbi psicologici, l’introduzione di
leggi antidiscriminazione dell’orientamento sessuale e dell’identità e
manifestazione di genere, ecc. L’obiettivo di questo impressionante programma é
realizzare concretamente una “cultura dello scarto”, favorendo lo slegamento
sociale a vantaggio dell’astrattezza di un’etica civica.
“Quando
la vita diventa la posta in gioco della politica e questa si trasforma in
bio-politica, tutte le categorie fondamentali della riflessione dai diritti
dell’uomo alla democrazia, alla cittadinanza entrano in un processo di
svuotamento”, scrive il filosofo Giorgio Agamben, nel saggio “Homo sacer. Il
potere sovrano e la nuda vita”, in cui richiama già nel titolo una figura
presente nel diritto arcaico romano che fornisce la chiave per una rilettura
critica delle categorie politiche e s’inscrive nelle tematiche sviluppate da Foucault,
intorno al biopotere.
Questa
figura è l’”homo sacer”, l’uomo che nel diritto romano arcaico era un
fuorilegge, un messo al bando che chiunque poteva uccidere senza commettere
reato di omicidio e che non doveva però essere messo a morte nelle forme
prescritte dal rito. La consacratio
dell’homo sacer necessitava, infatti,
di una colpevolezza particolare, perché l’espulsione
dalla comunità determinava che il reo fosse immediatamente fuori tanto dal
diritto umano e di conseguenza anche dalla protezione divina.
Nel
mondo antico, sacro e funesto avevano infatti lo stesso significato, perché s’ignora
il punto di vista etico moderno, derivante dalla visione cristiana che vi
affianca il termine sanctus, rimandando
al significato esclusivamente benefico e salvifico dell’esperienza della
santità.
L’uomo
impuro era perciò colui che, abbandonato dalle regole, era
allontanato dalla collettività e designato come uomo sacro nel significato attribuito al termine sacer esto, propriamente ciò che era destinato ad essere il “portatore
della colpa”. La sacertà della vita
si esprimeva perciò in un corpo e
consisteva nella vita stessa allo stato
effettivo, la vita debole, la nuda vita allo stato naturale.
Nell’analisi
di Agamben, la violenza sovrana ed il diritto non sono perciò concetti astratti
e se esercitati ed attuati attraverso il loro rapporto necessitano di un
portatore, perché solo mediante questo trasferimento su un portatore, la
violenza ed il diritto hanno ragione d’essere e possono realizzare le loro funzioni.
Il canale con il quale questo rapporto si concretizza è la vita effettiva, la
vita allo stato essenziale, che è la vita debole che si realizza in un corpo
biologico e si riveste di una presunzione di colpevolezza. In questa accezione
il corpo biologico diviene perciò un oggetto, una cosa, nella misura in cui è
il corpo di un portatore di vita effettiva, vita debole e indifesa.
“La
sacertà della vita, che si vorrebbe oggi far valere contro il potere sovrano
come un diritto umano in ogni senso fondamentale, esprime invece in origine la
soggezione della vita a un potere di morte” scrive Agamben, intravvedendo
nell’orrore del campo di concentramento nazista il paradigma bio-politico nascosto
nella modernità che si ripresenta sotto mutate spoglie.
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