Francesco Pullia
L’ultimo libro di Paolo Flores d’Arcais, La democrazia ha bisogno di Dio. Falso! (Laterza), partendo
dall’assunto, per certi aspetti lapalissiano, dell’autonomia della sfera
pubblica rispetto a quella religiosa e dell’estromissione della seconda dalla
prima, offre lo spunto per alcune riflessioni di fondo. L’autore, infatti,
nella sua foga antireligiosa, finisce per contrapporre alla visione
totalizzante dell’integralismo un’altra, la sua, che di fatto ne è l’esatto
speculare, basata sull’esaltazione della razionalità e di una scienza
fideisticamente elevata a termine di confronto apodittico. È certamente
condivisibile, e la facciamo nostra, la preoccupazione di salvaguardare la
libertà di ogni credo e di ogni fede rifiutando il controsenso (o, se vogliamo,
la bestemmia) di una religione di Stato. La questione è, però, un’altra ed è
racchiusa nell’atteggiamento refrattario, affermato e ostentato dallo stesso
autore, verso ogni forma di religiosità. L’esito materialistico,
riduzionistico, appare palese soprattutto se la posizione espressa non concede
appelli. Così ad un dogma se ne sostituiscono altri (scienza contro Dio,
assolutizzazione antropocentrica al posto del senso del divino) e ad una
concezione teocratica ne subentra un’altra (ateistica) parodistica. Come dire,
parafrasando Artaud, Dio (inteso qui come sistema di valori) e il suo doppio,
uguale e contrario, fondato sulla sua espulsione. Ma le cose stanno davvero
semplicisticamente così?
È proprio vero che tolto Dio debba subentrargli, come
accentratore e misura di tutte le cose, l’uomo, specialmente nella versione
spocchiosa, arrogante, cartesiana? E, ancora, siamo sicuri che “laicità” debba
essere, per forza, sinonimo di “ateismo”? E fino a che punto la scienza (che,
come si sa, è umana, troppo umana, quindi parziale, faziosa e limitata) può
essere assunta come paradigma di presunta oggettività? Il libro di Flores d’Arcais
evidenzia, in questo senso, fortissime lacune e incongruenze e, senza nulla
togliere al suo ruolo stimolante, merita alcune risposte o, se si preferisce,
precisazioni. Innanzitutto è avvilente che in pieno XXI secolo si sia ancora al
punto di partenza, ci si attardi, cioè, in nome di una razionalità fondante
(quindi metafisica), su una dialettica degli opposti (Dio-uomo, Dio-ragione)
che speravamo francamente ormai alle spalle. Flores d’Arcais non può ignorare
la problematica complessità di visioni come quelle, tra loro differenti ma
tutte con una effettiva radicalità in comune, prospettate da Bonhoeffer, Ernst
Bloch (valgano Ateismo nel cristianesimo
e Il principio-speranza), Walter
Benjamin, dai teologi della “morte di Dio” (Hamilton, Altizer, van Buren),
senza tralasciare Bataille e Klossowski. A fare da battistrada sono stati
Nietzsche e Kierkegaard. Da loro in avanti è risultato sempre più evidente che
lo smantellamento di Dio (e dell’apparato che lo sorregge) portasse inevitabilmente
con sé lo smantellamento dell’uomo e delle nefandezze perpetrate
dall’antropocentrismo.
Albert Camus (nella foto qui sopra) e Günther Anders hanno dato, a questo proposito, il
loro fecondo apporto. Riportare l’uomo al centro e divinizzarlo significa fare
un pericolosissimo passo indietro (“l’uomo è antiquato” direbbe Anders) e
cadere in una metafisica che non ha il coraggio di confrontarsi con i mostri
causati dalla prometeica esaltazione dell’umano, con orrori che si chiamano
Auschwitz e Treblinka, Hiroshima e Nagasaki, i gulag “tritacarne” del comunismo
reale, genocidi, stermini a non finire e, last
but non least, olocausto degli altri esseri viventi animali, specismo
(senza dubbio il primo degli abomini, perché dalla pretesa dell’uomo di avocare
a sé una presunta superiorità sulle altre specie viventi, arrogandosi il
diritto di dominarle, sfruttarle, annientarle, deriva tutto il resto). Non
solo. Flores d’Arcais non prende in considerazione quanto, nel nostro ambito, è
stato elaborato da filosofi come Michelstaedter, Martinetti, Rensi e,
soprattutto, Capitini (che anziché “credente” preferiva definirsi, con chiara
influenza michestaedteriana, “persuaso”) e Tartaglia, fino ai più vicini Italo
Mancini, Sergio Quinzio, Ferruccio Masini (si pensi alla sua rilettura di
Nietzsche e nonché di autori scomodi come, ad esempio, quel Jean Paul, alias
Friedrich Richter, che scrisse il Discorso
del Cristo morto in cui Cristo, dall'alto dell'edificio del mondo, proclama
che non vi è alcun Dio). Cosa vogliamo, dunque, sostenere? Che la
contrapposizione Dio-uomo (o Dio-Dea Ragione) è fittizia e, anche nelle
implicazioni politico-sociali, è stata ampiamente oltrepassata da una congerie
di visioni ben più profonde di quella perorata da Flores d’Arcais. Il passaggio
è dalla contrapposizione di comodo allo sfondamento della metafisica e da
quest’ultimo alla costruzione di una nuova socialità in cui la religiosità
svolga un ruolo dirompente. Ma di quale religiosità parliamo? Della compresenza
omnicratica capitiniana che s’appella ad ogni essere senziente, senza alcuna
distinzione di specie, chiamandolo a dare un diuturno e fecondo apporto di
“aggiunte”. Dimensione nonviolenta e dialogica che, oltre Capitini, motivò e
appassionò Danilo Dolci. Una società “laica” non è, dunque, atea (laicismo e
laicità non possono essere equivocati con ateismo, tanto meno ne sono sinonimi)
ma, al contrario, religiosamente aperta, orizzontale, dove l’apertura va intesa
nell’accezione di non dogmatica, non irretita e immiserita in sterili
cristallizzazioni (già Bergson, in ben altri contesti, aveva parlato di
“religione statica” e di “religione dinamica”). Professarsi, poi, come fa
l’autore, devoti della scienza significa cadere e scadere in aporie tardo
positivistiche, nelle sabbie (im)mobili del riduzionismo.
La scienza, come non solo Feyerabend ma Bateson,
Capra, Mathurana fino alle frontiere più avanzate della fisica odierna
insegnano, tutto è fuorché il terreno dell’obiettività. Al contrario, è il
regno dell’opinabilità in cui s’annidano le ingannevoli seduzioni del mercato,
delle multinazionali farmaceutiche. Pietro Croce e Hans Ruesch hanno detto in
merito molto, moltissimo. Il “progresso” dell’umanità non si misura sulla
possibilità o meno di staccare spine e spinotti, di modificare geneticamente, e
pertanto di violentare, la natura (a ridurre la fame nel mondo contribuiscono
più gli ogm, le sementi brevettate, o non piuttosto, come Jeremy Rifkin ha
ampiamente dimostrato, nero su bianco, in Ecocidio,
un’alimentazione radicalmente diversa dalla “cultura della bistecca”, da quella
che Melanie Joy ha efficacemente chiamato “carnocrazia”?). Più “scienza per
tutti” ricorda tanto uno slogan coniato dal comico Antonio Albanese. Il guaio è
che non siamo al cinema, non siamo comparse, ma protagonisti della nostra vita.
Una vita che, almeno secondo le convinzioni di chi scrive, nella sua
finitudine, nella sua transitorietà, reca in sé la responsabilità di un
passaggio che inevitabilmente si ripercuoterà nel futuro, sugli altri esseri
(di ogni specie) che dopo di noi verranno, senza dimenticare il famoso “effetto
farfalla”.
Nessun commento:
Posta un commento