Luciano Lanna
A cent’anni dalla nascita di Albert
Camus, condividiamo quello che ha scritto Goffredo Fofi: “È forse per la sua
grande capacità di fare romanzo e filosofia, insieme e separatamente, che egli
è riuscito a toccarci così profondamente, e a rivelarsi a cinquant’anni dalla
morte come uno dei pochi autori del Novecento a esserci ancora indispensabili,
nonostante i nuovi tempi…”. Il 7 novembre ricorre infatti il centenario della
nascita del filosofo e scrittore francese, al quale il pensatore Michel Onfray
ha dedicato una ampia e intrigante biografia teoretica – L’ordine libertario. Vita filosofica di Albert Camus (pubblicata in
Italia da Ponte alle Grazie, pp. 574, euro 28,00), che in pochissimi mesi ha
venduto 100mila copie solo in Francia. Un caso editoriale di cui uno dei
segreti sta forse nell’ossimoro del titolo, in quella dimensione di un “ordine
libertario” che è il cuore stesso del pensiero e della vita di Camus.
Nato ad Algeri, Camus apprese la
filosofia nello stesso tempo in cui scopriva e si radicava in un mondo al quale
rimase fedele tutta la vita: il mondo del popolo, dei semplici, del poveri. Il
mondo di suo padre, contadino morto in guerra, e quello di sua madre, donna
delle pulizie, semplice e non scolarizzata, ma autentica e modello di vita e di
principi “mediterranei”: coraggio, senso dell’onore, del lavoro, umiltà,
dignità, solarità… E la vita filosofica di Albert Camus, che fu libertario,
anticolonialista e visceralmente ostile a ogni totalitarismo, illustra
pienamente – come dimostra Onfray – lo svolgersi di questa visione solare e
mediterranea della vita. Molti hanno sottolineato che assomigliava a Humphey
Bogart, e che anche in questa sua immagine stava un po’ del suo fascino.
“Amo
Camus – annotò a suo tempo Bernard-Henry Levy, il capofila di quel gruppetto di
ex sessantottini che alla fine degli anni Settanta rivolsero la loro vis
polemica libertaria contro l’Urss e il comunismo – fino in fondo. È uno dei
rari pensatori e letterati, nella galleria degli avi, a cui mi sento davvero
vicino…”. D’altronde, Camus è stato affiancato a
figure a lui apparentabili come Simone Weil, Hannah Arendt, Bruce Chatwin o
Jürgen Habermas. E alle quali si possono senz'altro accostare anche Ernst
Jünger, Indro Montanelli, Arthur Koestler, Ignazio Silone, Bertrand Russell, André
Malraux, George Orwell, Raymond Aron... Personalità del secolo scorso che si
sono contraddistinte per il fatto di aver “attraversato” integralmente e criticamente
il Novecento, essersi quindi abbeverati alle sue passioni incandescenti, ma che
a un certo punto sono riuscite a prendere le distanze da quelle tempeste a cui
essi stessi avevano partecipato o che addirittura avevano contribuito a mettere
in campo. Jünger, ad esempio, lo dimostrò arrivando a scrivere un
romanzo-metafora contro la degenerazione totalitaria di quel nazionalismo che
lo aveva visto entusiasta da adolescente come Sulle scogliere di marmo,
partecipando al fallito putsch contro Hitler e lavorando
teoricamente, nel secondo dopoguerra, a un libertarismo spiritualista. Allo
stesso modo di Silone, Malraux e Orwell, che ribaltarono gli
entusiasmi giovanili per il comunismo nel più coerente impegno intellettuale
antitotalitario. Ma Albert Camus fu senz’altro il più precoce, il più lucido,
il meno compromesso e il più incisivo di tutti gli altri.
Giovanissimo, aveva aderito ad Algeri,
dove trascorse gran parte della sua adolescenza e della sua giovinezza, alla
locale sezione del partito comunista a soli ventuno anni, nel 1934. Ma lo fece
solo per potersi occupare politicamente delle rivendicazioni e dei diritti
della popolazione araba. E si dimette già nel 1935, meno di un anno dopo: i
motivi di dissenso erano già tanti, ma fu soprattutto la posizione dei
comunisti favorevole alla repressione poliziesca contro Messali Hadj, leader
del movimento indipendentista Etoil Nord Africaine, a fargli intravvedere come
inevitabile la rottura. Non a caso Albert, che intanto si è laureato in
filosofia, sceglie un'altra via per il suo impegno politico: insieme a un
gruppetto di intellettuali delle varie etnie algerine fonda una Casa della
cultura con l’obiettivo di dar vita a quello che potremmo chiamare il
libertarismo mediterraneo. «Al suo tempo – ha ricordato sua figlia Catherine –
la maggior parte degli intellettuali francesi erano dei borghesi che avevano
frequentato le migliori scuole. Lui era diverso e per di più veniva
dall'Algeria, in un’epoca in cui la Francia guardava soprattutto al Nord,
rimuovendo la sua dimensione mediterranea. Per lui invece la mediterraneità era
importante. Amava moltissimo anche la Spagna, la Grecia e soprattutto l’Italia.
Per lui il mare e il sole erano fondamentali. Ha anche scritto che gli sarebbe
piaciuto morire sulla strada che sale verso Siena...». Morì invece in Francia,
sulla strada Sens-Parigi, per un fatale incidente d'auto il 4 gennaio del 1960.
La macchina era una Facel-Vega, alla guida Michel Gallimard, editore. «Albert
Camus, scrittore, nato il 7 novembre del 1913 a Mondovi, dipartimento di
Costantine (Algeria)», c’era scritto sulla carta d’identità ritrovatagli in una
tasca della sua giacca dopo l’incidente d’auto in cui trovò la morte.
Aveva scritto da qualche parte che non
gli sarebbe spiaciuto morire in una camera d’albergo, libero da qualsiasi
«senso di possesso». Non amava le facili rassicurazioni, le comode ossessioni
identitarie, i feticci della modernità. E restò fino alla fine coerente con
questi suoi assunti. Alla notizia dell’incidente, l’allora ministro della
Cultura francese, André Malraux, spedisce immediatamente un segretario a
ritirare la borsa di Camus. Nella borsa c'è un manoscritto, centoquaranta fogli
coperti da una scrittura fitta: è il romanzo Il primo uomo. La casa
editrice decise di non pubblicarlo perché politicamente non opportuno. Eppure
quel romanzo era la risposta di Camus alla questione algerina, che dal 1954
lacerava la Francia, l’Algeria e l’Europa, e che fu storicamente il primo
laboratorio di quei conflitti che, a cinquant'anni da quell'incidente
automobilistico, agitano i nostri tempi.
D’altronde è un dato storico che negli
anni Sessanta, alla vigilia di quella contestazione studentesca di Berkeley che
anticipò il nostro Sessantotto, gli universitari tenevano sul comodino
due livre de chevet: Sulla rivoluzione di Hannah Arendt e L’uomo
in rivolta di Albert Camus. In quel fermento studentesco anglosassone,
lontano dal marxismo-leninismo e spinto soprattutto sul fronte dei diritti
civili, della lotta contro la segregazione razziale e del libertarismo, l’autore
di romanzi come Lo straniero e La peste, il
giovane premio Nobel nel 1957, veniva letto come uno scrittore “politico” tout court. D’altronde, da avversario
dei totalitarismi, Camus non ebbe problemi a battersi per la grazia e
la vita di personaggi di cui pur non condivideva le scelte, come Robert
Brasillach – per il quale fu uno dei firmatari della richiesta di grazia, non
accordata da De Gaulle – o Lucien Rebatet…
Nel 1946, a dopoguerra avviato, Camus da
giornalista impegnato – cominciò a scrivere prima su Paris Soir poi
su Combat dopo la pubblicazione dei suoi primi famosi romanzi –
pubblicò una serie di articoli dal titolo “Né vittime né carnefici", in
cui delineva una prima critica profondo dello stalinismo e di tutti i
totalitarismi. Dal 1949 è tra i promotori di un’organizzazione che si propone
di dare aiuto materiali ai dissidenti dei regimi comunisti dell’Est, delle
colonie africane in esilio e delle dittature militari. Nel 1950 interviene pubblicamente
nel dibattito tra Palmiro Togliatti e Ignazio Silone, di cui è amico, in merito
alla rottura dello scrittore italiano col Pci in nome delle ragioni della
libertà. Nel 1951, infine, esce il suo saggio filosofico L’uomo in
rivolta che segna la rottura tra lui e Jean-Paul Sartre. «Fu – ha raccontato
sua figlia – un vero scandalo, fu accusato di essere di fatto un alleato della
destra. Molti si allontanarono da lui. Solo alcuni amici gli rimasero vicini,
come Nicola Chiaromonte e Ignazio Silone». Il primo gli restò vicino fino alla
fine e lo fece collaborare sin dal 1956 alla rivista Tempo Presente, in
nome della comune avversione per il pensiero ideologico: «La cultura non è il
terreno – diceva – della verità, ma della disputa intorno alla verità…».
Nel 1953, alla notizia della rivolta anticomunista
di Berlino, Camus prende posizione a favore delle ragioni degli insorti. Tra il
1955 e il 1956 Camus collabora poi al settimanale L’Express con una
lunga serie di articoli sulla guerra civile algerina scoppiata nel 1954.
Impegnato nella ricerca di una soluzione politica per quella crisi, nel gennaio
1956 torna ad Algeri e Orano sostenendo quei movimenti che lottano per la fine
del regime coloniale ma anche per la convivenza etnica, partecipando a diverse
manifestazioni. Nel 1957, ancora, scrive Riflessioni sulla ghigliottina,
una serie di testi contro la pena di morte, all'epoca ancora in vigore a Parigi
come a Washington, a Madrid come ad Algeri.
In Italia, oltre ovviamente ai suoi
amici e sodali Silone e Chiaromonte, si interessarono di lui Mario Gozzini
sulla rivista papiniana L'Ultima, poi Guido Piovene, i pensatori
cattolici Armando Rigobello e Armando Carlini, e i critici letterari Luigi
Baccolo e Carlo Bo, accostandolo quest’ultimo alla letteratura di Pierre Drieu
La Rochelle. Sul piano generazionale, vale quanto scritto a suo tempo da Massimo
Fini: «Coloro che, come me, erano adolescenti – ha scritto il giornalista – nella
seconda metà degli anni Cinquanta, si sono formati su Sartre e su Camus. Fummo esistenzialisti
anche se non sapevamo bene cosa fosse l’esistenzialismo. Da lì nasceva la
nostra inclinazione per l’individualismo, il nichilismo, l’assurdo, il
libertarismo che, sostanzialmente, non ci ha più abbandonato. Alla rivoluzione
preferivamo, con Camus, la rivolta».
Nei primi anni Sessanta in Italia se ne
occupano almeno due libri pubblicati dalle edizioni dell’Albero di Piero
Femore: L’uomo in allarme dell'allora giovane critico
letterario cattolico Fausto Gianfranceschi e Il declino
dell'intellettuale di Thomas Molnar. Il primo accostava la rivolta
esistenziale evidente negli scritti di Camus a tutti i “ribelli” che dalla
letteratura dei “giovani arrabbiati” britannici alla beat generation statunitense stava caratterizzando nei romanzi il
bisogno di libertà delle giovani generazioni. Nella figura dello “straniero” di
Camus si ravvisava l'escluso «che si pone il problema della libertà, l’uomo che
è interessato a sapere come dovrebbe vivere invece di prendere semplicemente la
vita come viene». E Gianfranceschi apparentava la figura del Mersault
camusiano, il protagonista de Lo straniero, a personaggi letterari
contemporanei come il “lupo della steppa” di Herman Hesse o all'outsider di
Colin Wilson. Thomas Molnar invece, anche sulla scorta dell'interpretazione dell’esistenzialista
cattolico Gabriel Marcel, lo avvicinava al connazionale André Malraux: «Si può
dire – scriveva – nonostante il loro pensiero sia meno sistematico di quello di
Sartre, che abbiamo rappresentato meglio l’umanesimo esistenzialista poiché hanno
afferrato e colto le sue motivazioni sotterranee con l’intuizione propria
dell'artista». E in particolare su Camus, annotava: «Scrittore più vivo, più
caldo, più mediterraneo, rappresenta l’altra faccia del culto dell’azione: la
giustificazione dell’impegno quotidiano, di quelle che lui chiama le “fatiche
di Sisifo” che conferiscono dignità all’uomo attraverso la schiavitù di un’esistenza
media. Anch’egli, senza alcun dubbio, parla dell’artista come di un ribelle che
tenta di strappare alla storia i suoi inafferrabili valori». Anche lo scrittore
Giuseppe Berto, nel suo ultimo romanzo, La
gloria, nel 1978 rese un omaggio a Camus citandolo espressamente in una
pagina della sua opera dedicata alla fede, scritta “per tutti coloro che non
credono in Dio ma sentono l’angoscia di non credere…”.
L’impulso libertario di Camus non si è però
mai crogiolato nella santificazione di un comodo individualismo narcisista.
«Visto che non viviamo più i tempi della rivoluzione – scrisse – impariamo a
vivere il tempo della rivolta». Ed è anche per questo che Massimo Fini ha
annotato: «Il Sartre che cercava di coniugare esistenzialismo e marxismo non ci
finì mai di convincere. Camus, che ebbe la fortuna di morire presto, invece lo
amammo sempre. Tutto». Lo confermava anche Bernard-Henry Levy: “Alla fine, Camus ha avuto
ragione su Sartre. E non si dirà, non si ripeterà mai abbastanza quanto ebbe
ragione su Sartre e su la banda dei Temps
modernes”.
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