martedì 4 febbraio 2014

“Tayatha”, quando la voce del Tibet è grande musica


Francesco Pullia

Dopo quattro splendidi cd, Tibetan prayer (1995), Tibet,Tibet (1996), Coming Home (1998) e  Ama (2006), incisi per la Real World di Peter Gabriel, la compositrice e cantante tibetana (è nata a Lhasa nel 1966 ma dal 1989 è stata costretta a vivere in esilio, prima in Australia, poi negli Stati Uniti) Yungchen Lhamo torna con un nuovo lavoro realizzato insieme ad Anton Batagov (Mosca, 1965), considerato “il Terry Riley russo”, musicista post-minimalista (ma anche sensibile interprete ed esecutore di autori classici) voltosi da tempo al buddhismo.
In Tayatha, opera di rara bellezza e intensità, permeata dall’inizio alla fine di struggente poesia, si riscontrano i temi che caratterizzano il discorso espressivo dell’artista: la nostalgia e la preoccupazione per la tragica situazione in cui, a causa della dominazione cinese, dal 1950 versa il suo popolo, il retaggio culturale millenario, la religiosità buddhista, la devozione nei confronti della figura materna, la speranza  che, prima o poi, il Paese delle nevi riesca ad affrancarsi dalla morsa sanguinaria del regime di Pechino.
Abbiamo appena accennato al sentimento di gratitudine e profondo amore nutrito da Yungchen Lhamo per la madre. Ama (in tibetano “madre”), il disco precedente, costituiva il tributo di una figlia per una donna che ha patito l’occupazione cinese, perso il padre e il marito per le violenze e le persecuzioni, visto morire bambini per fame nei durissimi campi di concentramento comunisti dove è stata detenuta e torturata. Eppure, ricordava la cantante, nonostante le inenarrabili sofferenze provate, “in mia madre non hanno mai albergato sentimenti di rabbia e vendetta”.
Anche in Tayatha (dal sanscrito, “È come questo”, con allusione al mantra del Buddha della medicina, “Tayatha om bekandze bekandze maha bekandze radza samudgate soha”) aleggia la presenza-assenza della madre, in modo particolare negli oltre dodici minuti del delicatissimo, evocativo (come, d’altronde, tutto il cd), trasognato My mother’s words (“Le parole di mia madre”). “Mamma”, canta Yungchen Lhamo, “mi hai insegnato amore e tenerezza e tua figlia serberà nel cuore questa lezione (…) Mamma voglio spartire con te queste parole che tengo nel mio cuore, ma adesso che sei andata via, non c’è nessuno che possa ascoltare quanto ho da dirti. Non sentirti sola, tu non sei sola. Ciao, bellissima, apri gli occhi. Molte cose buone ti circondano”. Toccante, apparente esile, la voce, sul tessuto sonoro del piano di Bagatov, produce un effetto straniante. Giunge come da un’altra dimensione e, volteggiando a mo’ di piuma, sfiora l’animo aprendolo ad orizzonti introspettivi. Non a caso dopo Good times will come e Medicine Buddha, c’è Flying Dakini. Gli spiriti buddhisti femminili (le Dakini appunto) arrivano in volo per mettere in moto energie e rivelarci che il vuoto, l’impermanenza sono sottesi ad ogni aspetto della vita. Segue Ungrateful child (“Figlio ingrato”), brano di nove minuti sulle giovani generazioni di oggi che, interamente fagocitati dal materialismo della tecnologia, finiscono per dimenticarsi troppo facilmente dell’insegnamento dei loro genitori. Il riferimento allo stravolgimento culturale e di costumi attuato in Tibet dal colonialismo cinese è palese. Per fortuna, però, dice Yungchen Lhamo, non tutti sono così, c’è ancora qualcuno che comprende quanto il potere dell’amore sia più forte e importante delle sirene del denaro. Nei sedici minuti del successivo incantevole e incantatorio, quasi ipnotico, Your kindness (“La tua gentilezza”) insiste: “È meglio donare che ricevere”. Dal seme di questa verità è possibile concepire un nuovo mondo.
In White Palace (7:39), penultimo pezzo, prima di My mother’s words su cui ci siamo già soffermati, si fa un parallelo tra il Potala, l’imponente palazzo dove, prima dell’avvento del comunismo cinese, risiedeva a Lhasa il Dalai Lama, e la Casa bianca statunitense. Da un lato, c’è il ricordo per la terra lasciata, dall’altro, il sentito omaggio da parte dell’esule per la terra che la ospita. Tayatha, non c’è che dire, è un disco imperdibile che invita a meditare, con la sua impronta spirituale, i suoi slanci mistici.



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