venerdì 7 febbraio 2014

In Tibet sempre più preoccupante la situazione dei diritti umani


Francesco Pullia

Il processo a Xu Zhiyong, svoltosi a Pechino nello stesso posto dove nel 2009 si celebrò il processo a Liu Xiaobo,  si è concluso senza una sentenza definitiva anche se, al termine della sua requisitoria, il pubblico ministero ha chiesto una pena severa.  Attivista cinese per i diritti civili, in un articolo intitolato “Tibet is Burning” , pubblicato nel dicembre di due anni fa dal New York Times , Xu Zhiyong aveva raccontato le difficoltà che aveva incontrato per esternare ai familiari di Nangdrol, uno degli autoimmolati tibetani, le proprie condoglianze: “Mi dispiace constatare – aveva scritto – che noi cinesi “han” restiamo in silenzio mentre Nangdrol e i suoi compagni tibetani stanno morendo per la libertà. Siamo noi stessi delle vittime in quanto ci estraniamo, non lottiamo, coltiviamo sentimenti di odio e distruzione”. Xu Zhiyong, che nel 2012, assieme ad altri cinque attivisti, aveva lanciato il Movimento dei Nuovi Cittadini, era nel mirino della polizia cinese per “riunioni di gruppo e disturbo dell’ordine in luogo pubblico”.

Fuori dal palazzo, sostenitori del dissidente sono stati fermati e trattenuti in custodia mentre i reporter della BBC e della CNN, che trasmettevano in diretta, sono stati strattonati e malmenati.
In Tibet, invece, oltre quattrocento tibetani, tra i quali sessanta monaci, hanno inscenato recentemente una manifestazione silenziosa per chiedere la liberazione di Khenpo Kartse, l’abate trentottenne del monastero di Jhapa, arrestato il 6 dicembre scorso mentre si recava a Chengdu perché sospettato di “attività contro lo stato”.Conosciuto anche come Karma Tsewang, Khenpo Kartse è conosciuto per l’incessante impegno in campo sociale e per l’attività a sostegno della salvaguardia della lingua, della religione e della cultura tibetana. Nei giorni successivi al suo arresto sonoi stati trattenuti altri ventuno tibetani, compresi sedici monaci, che avevano chiesto la sua liberazione. Interrogato il 31 dicembre, Kartse aveva fatto sapere di non avere subito torture.
L’organizzazione Free Tibet è riuscita a fare trapelare la notizia che il tribunale supremo della cosiddetta Regione Autonoma Tibetana intende colpire duramente coloro che sono sospettati di “sabotare e minacciare la sicurezza nazionale”. Sono state istituite forze speciali per combattere le “organizzazioni clandestine” che si giovano dell’”influenza religiosa”.
Il Centro tibetano per i diritti umani e la democrazia (TCHRD) ha pubblicato il rapporto annuale per il 2013 sulla situazione dei diritti umani in Tibet. Una speciale sezione (Gulags of Tibet) è dedicata all’analisi del sistema della “rieducazione tramite il lavoro” imposto dai cinesi. Viene inoltre esaminata in modo esaustivo la questione del trasferimento della popolazione nomade. A questo proposito, si afferma che i nomadi tibetani sono stati in gran parte obbligati “a lasciare le loro terre d’origine e trasferiti in aree urbane contro la loro volontà e senza adeguate misure di compensazione: ricevono molto meno dei migranti cinesi in termini di sussidi e non vengono aiutati nella ricerca di un lavoro”. Secondo il TCHRD la politica dei trasferimenti ha il suo fondamento nel desiderio del governo cinese di sfruttare le ricche risorse minerarie reperibili nei territori dei nomadi. “Le compagnie minerarie statali” – si legge – “hanno già iniziato ad estrarre dalle aree storicamente abitate dalle popolazioni nomadi minerali preziosi quali il litio, il rame, l’oro e il petrolio”.
Il rapporto denuncia inoltre la violenta repressione di ogni forma di manifestazione pacifica, le detenzioni arbitrarie, le limitazioni alla libertà di movimento e le vessazioni a danno degli artisti e degli intellettuali. Molte delle direttive politiche attuate dalla Cina hanno provocato danni irreversibili alla cultura e all’ambiente del Tibet. Il Centro Tibetano per i Diritti Umani e la Democrazia rende noto che in Tibet ci sarebbero 896 prigionieri politici e che nel 2013 sono stati arrestati e condannati 119 tibetani. Dal 2009 si contano 125 casi di autoimmolazione, di cui 27 nel solo 2013. “I durissimi interventi contro gli autoimmolati e i loro familiari e amici non hanno tuttavia prodotto i risultati sperati: anziché generare armonia e stabilità, la repressione non fa che rinfocolare il risentimento dei tibetani”.
Intanto, qualche giorno fa, nella città indiana di Guwarati, nello regione dell’Assam, dove si era recato per presenziare all’inaugurazione del primo festival di cultura tibetana, Tenzin Gyatso, XIV Dalai Lama, ha detto che saranno i tibetani a decidere se l’istituzione del Dalai Lama dovrà proseguire e se il lignaggio potrà essere detenuto da una donna.
Parlando a centinaia di devoti arrivati dall’Arunachal Pradesh, dal Buthan, dal Mustang e dal Nagaland, il Dalai Lama ha affermato: “Alla mia morte si presenterà la questione della ricerca del prossimo Dalai Lama: se il popolo tibetano non la ritiene più necessaria, questa tradizione potrebbe essere abolita, non vi sarebbe nulla di strano, mantenerla o no dipende dalla volontà del popolo tibetano”.  A chi gli ha chiesto se in futuro sarà possibile il riconoscimento di un Dalai Lama donna, il leader spirituale tibetano ha così risposto: “Certamente! Se le circostanze esigeranno il riconoscimento di una donna da parte della maggioranza dei tibetani, non vi sarà alcun problema”. Scherzando, ha soggiunto: “Il Dalai Lama donna dovrà essere molto attraente: questo farà sì che molte persone verranno ad ascoltarla!”.
Il premio Nobel per la pace ha affermato di essere contrario alla designazione del nuovo Dalai Lama secondo il metodo tradizionale e al conferimento dei poteri politici alla sua persona o ai suoi successori. “Nel 2011 ho rinunciato al potere politico – ha ricordato – e nel futuro il Dalai Lama non avrà alcuna autorità in questo campo ma sarà solo la guida spirituale del popolo tibetano”.

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