sabato 22 febbraio 2014

I Coen tornano a cantare gli spiriti solitari d’America


Federico Magi

Era l’inizio dei Sessanta, e il Greenwich Village era il cuore pulsante di una Grande Mela in cui Bob Dylan muoveva i primi passi di una carriera straordinaria. Ma per un Bob Dylan che si apprestava a diventare una stella luminosa del panorama cantautoriale d’America, c’erano tanti folksinger destinati a rimanere nell’oblio, per i quali le grandi aspirazioni erano destinate a infrangersi contro la dura realtà delle leggi del mercato discografico. A una di queste volatili e malinconiche figure, i fratelli Coen hanno dedicato la loro ultima opera cinematografica, un’intima ballata che regala ai loro affezionati spettatori un nuovo personaggio destinato ad entrare nell’immaginario del loro strano e bizzarro mondo.


Siamo nel Greenwich Village, come detto, nel 1961, e il panorama della musica folk non è mai stato così esplosivo e fervido di novità. Tra i tanti musicisti in cerca di fortuna, disposti a vagare senza una fissa dimora e con rinnovate aspirazioni per il futuro c’è Llewin Davis, trentenne dotato chitarrista che si esibisce nei locali newyorchesi e che passa le notti sui divani di chi è disposto ad ospitarlo. Girando col suo strumento, i vestiti che ha indosso e uno scatolone di dischi pubblicati ma invenduti, Llewin porta avanti con fatica la sua carriera da solista, dopo la scomparsa dell’amico e collega con cui aveva formato un duetto che aveva pur ottenuto qualche piccolo successo. Gira tra New York e Chicago, sperando che la vita gli conceda quell’occasione che gli consenta di vivere di musica. Ma tra strani incontri e improbabili compagni di viaggio (tra i quali anche un gatto), si renderà conto che far fortuna con la sua musica è davvero una missione impossibile.
I fratelli Coen tornano a cantare gli spiriti solitari d’America, raccontandoci un’epoca di attesa e speranza a cavallo tra crudeltà e bellezza, filtrando il tutto attraverso gli occhi di uno strampalato protagonista che sembra subire i rovesci della sorte con una certa noncuranza e un'improbabile leggerezza, come consueto al loro cinema, ma tradendo una malinconia di fondo che lo rende a tutti gli effetti uno dei loro figli più riusciti, privo di quel fascino che contraddistingueva Drugo Leboswky, ma molto più vicino Barton Fink o al protagonista di A serious man. Nonostante una vicenda che, nel loro stile, vira nel grottesco e nei momenti ilari, il retrogusto malinconico e a tratti cupo e pessimista di A proposito di Davis si fa più percepibile col procedere della storia, seguendo le sorti di un personaggio in parte vittima della sfortuna, di sé stesso, del suo carattere e dei suoi modi non proprio accomodanti, e in parte del sogno americano, sempre evocato, immaginato, braccato, ma sempre sfuggente, precario e irraggiungibile, nonostante le promesse di rivoluzione e cambiamento – di un posto al sole per chi prova ad inseguire le sue velleità artistiche - degli anni Sessanta.
Ottima la rievocazione storica, che restituisce perfettamente le atmosfere del Greenwich Village con i suoi musicisti in cerca di sogni di gloria destinati a confrontarsi con una realtà spesso avara di soddisfazioni. Credibile e calzante il protagonista scelto dai Coen, un Oscar Isaac che recita mantenendo la misura del suo personaggio; buone le prove anche di Carey Mulligan e Justin Timberlake, coppia sulla scena; note di merito per l’apparizione di John Goodman, in un ruolo sopra le righe che gli calza a pennello e F.Murray Abraham, che nel suo breve ingresso in scena sentenzia in qualche modo la morte delle aspirazioni di Llewin. Ma la vera protagonista, in A proposito di Davis, è quasi scontato rilevarlo, è proprio la musica, le tante ballate folk che i Coen ci propongono coraggiosamente nella loro interezza, cantate in maniera magistrale dagli stessi attori sulla ribalta (brillantemente supportati dal lavoro musicale di T-Bone Burnett); una colonna sonora spesso in campo ma che non ruba la scena ai protagonisti ed anzi lega perfettamente i gesti all’atmosfera, mai dando il senso d’invadenza ed evitando così ogni possibile sovraccarico di pathos.

Tutto fluisce armoniosamente, nell’opera dei fratelli di Minneapolis, tanto armonicamente che si segue una storia intima di un personaggio qualunque in una vita qualunque. E qui c’è il grande pregio dei Coen, come avvenuto in altre importanti pellicole (in particolare, a preferenza di chi vi parla, L’uomo che non c’era), quello di rendere importante, grazie al cinema, ciò che probabilmente raccontato in altra forma non lo sarebbe affatto, creando un nuovo antieroe da inserire nella loro folta galleria di antieroi da ricordare. Il tutto sempre affidandosi a una regia e a un montaggio degni del loro nome, a una struttura filmica che porta lo spettatore per mano senza apparenti sussulti ma grazie a una potenza geometrica delle immagini e di una storia che chiude in maniera circolare, con una sequenza emblematica della vita di Llewin Davis che si fa paradigma di tutta la sua storia. Una storia intimista, ispirata in parte al memoir del folksinger Dave Van Ronk, che riesce a suscitare interesse nonostante il suo andamento lento, proprio perché raccontataci dai Coen.

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