lunedì 22 aprile 2013

Ma i gesuiti lo sanno che oggi c'è la famiglia postmoderna





Ivo Germano

Ne parlo martedì 23 aprile, alle ore 16, insieme a padre Miguel Yanez e Maria Cruciani, all’Università Gregoriana di Roma, l’ateneo della Società di Gesù, i gesuiti di Papa Francesco. Il tema è d’altronde centrale e alla Gregoriana ne hanno piena consapevolezza: “Il matrimonio postmoderno: un legame liquido?”. L’indebolimento e la frammentazione del legame matrimoniale e non solo è, infatti, uno degli elementi maggiormente dibattuti della e sulla “società liquida”. Ogni rapporto sociale è come la notissima marca di caffè liofilizzato, cioè solubile, anonimo, interscambiabile. Ben di più il matrimonio, da qualche anno, accoppiato con la parole crisi, fine, declino, ridimensionamento.
Certo, la liquefazione del legame sociale è un dato stoirco, almeno stando a quanto sostenuto, teorizzato, replicato ad libitum dalla sofisticata teoria neo-marxista di Zygmunt Bauman della “società liquida” e, circa il tema proposto dell’ “amore liquido” e delle sue conseguenze sociali e culturali. Al pari del lavoro l’amore diventa infatti precario, decisamente “a tempo” surrogato da “relazione complicate”, “prove generali” di giovani adulti che non finiscono mai, egolatrie, narcisismi, fughe in avanti, troppo avanti davanti a siti mirabolanti che tutto promettono: dall’anima gemella alle diverse e, sempre più specifiche, categorie del genere porno. Facendo di nuovo capo alla tesi di Bauman sulla volatilità assoluta dei legami da parte e sotto la spinta d’individui che intendono liberarsi da ogni vincolo, legame e dall’impossibile tenuta dei corpi intermedi e delle agenzie istituzionali d’intermediazione sociale, la società liquida sembra prospettare una sempre più frequente difficoltà non tanto a concepire il matrimonio "per sempre" o "per tutta la vita" quanto, in realtà, a riconoscerne un certo appeal. Una diversa cultura del legame di coppia sfocia nella criticità del matrimonio, come unione e promessa davanti alla società. A essere in crisi risulta la cifra simbolica delle nozze, tanto che la rilevanza sociale e culturale di un’alleanza fra uomo e donna è fragile e, appunto, in "crisi di liquidità" relazionale e responsabile". Inseguire le passioni non è più la chanche, ma una forma nuovissima di cattività, di blocco o impedimento per quegli stessi individui che tentano e ritentano di cambiare chi è al loro fianco oltreché il destino. La vecchia silloge marxiana del Manifesto (1848) per cui tutto ciò che era solido diventa liquido passa da “strutturale” a esistenziale, da mezzo e modo di produzione capitalistico a vettore della dissoluzione di quella particolare e delicata forma d’appartenenza significativa, stabile, duratura che chiamiamo famiglia. Nella misura in cui la stabilità non appare più il pre-requisito fondamentale il tessuto diventa più importante della stoffa, il contenitore più affascinante dei contenuti stessi, la performance più del progetto. La consunzione dei legami caldi in favore di fredde ipotesi e distratte promesse tecnologicamente mediate dal “Megalon digitale”, laddove il mascheramento e le identità fittizie, parzialmente, consentono di evitare il confronto con l’altro e la grande scoperta dell’autenticità e della centralità affettiva del legame matrimoniale. Ben oltre l’ipoteca meccanicistica del funzionamento e la coltivazione paziente e tollerante di un sentimento che farà da argine al puzzle intermittente di emozioni stanche, vezzi e tic alla moda.

Mino Milani, il Pratt della scrittura: l'avventura come vocazione




Alberto Pezzini
Ha da non molto superato gli ottantacinque anni d’età e in libreria è apparso il libro a fumetti Capitan Cormorant e altre storie (edizioni Rizzoli Lizard), firmato da Hugo Pratt per i disegni e da lui e Alberto Ongaro per i testi e le sceneggiature. Si tratta del ritorno di un classico del fumetto a cinquant’anni dalla pubblicazione a puntate sul Corriere dei Piccoli: dopo Sandokan  e L'isola del tesoro, un nuovo omaggio, non solo al genio del creatore di Corto Maltese, Hugo Pratt, e al genere da lui prediletto, l’avventura, ma anche al nostro Mino Milani, uno scrittore per il quale l’avventura ha a sua volta coinciso col suo specifico angolo visuale dell’intera storia umana.
Guglielmo Milani, detto Mino, conosciuto anche con gli pseudonimi di Stelio Martelli, Eugenio Ventura e Piero Selva, nasce a Pavia il 3 febbraio del 1928, di segno zodiacale Acquario, si laurea in Lettere nel 1950 e comincia a scrivere per il Corriere dei Piccoli. Quando si butta nel mondo dei giornali è un giovane sconosciuto. Gli brucia addosso una voglia terribile di scrivere storie, e avventure. Fa una scorta di prammatica dei rifiuti delle case editrici. In cima ci tiene a ricordare quello della Rizzoli: una lettera che apre con le mani un po’ tremolanti, piena di insulti (!). Soltanto nel 1990 ne parla con Edmondo Araldi, direttore della narrativa italiana Rizzoli, e gli racconta di quelle parole che lo avevano fatto piangere di rabbia. Gli avevano detto che la Rizzoli era una casa editrice con la C maiuscola e di smetterla di scrivere. Milani conclude dicendo che gli fece più bene che male. Ma sarebbe stato un insulto per tutti noi se non avesse più scritto. Ci saremmo persi Tommy River, un cow-boy malinconico e riflessivo, un personaggio alla Clint Eastwood, oppure Efrem, contadino che diventa cavaliere sotto Giovanni Acuto, oppure Sir Crispino, un inglese nobile con l’avventura  nelle vene.


Come si legge nell’introduzione che gli scrisse Gianni Rodari a Efrem, Soldato di ventura (Mursia), i suoi finali non sono mai ottimistici, ma problematici. “Dopo la parola fine il lettore non può sentirsi del tutto tranquillizzato…Un problema si risolve solo per far posto a un nuovo problema”. Questo è il motivo per cui i ragazzi si innamorarono delle storie d’avventura di Milani. Era il fatto che non usava pastelli per le sue storie, non adoperava silenziatori linguistici per una narrativa da ragazzi. Li trattava alla pari, senza fronzoli e se li faceva amici con un tono sempre asciutto, molto teso, senza inganni. Leggere Efrem – oggi – significa per un ragazzo riuscire ancora una volta a percepire cosa è veramente una storia. Milani riesce a fare in modo che la realtà – fuori dal libro – scompaia. Non si ha bisogno di iPod, di televisioni, o di Sky quando si legge un suo romanzo d’avventura e di vita spiattellata nella sua versione più disincantata. Questo perché – e anche qui Gianni Rodari ci aveva reso lungo grazie a quella sensibilità percettiva di cui era dotato come un mago di Oz – Milani si forma dentro una realtà narrativa già in presa diretta con la televisione, la radio ed il cinema. Sapeva già che – se avesse voluto lasciare un’eredità alla parola scritta  – avrebbe dovuto corazzarla contro la forza visiva delle immagini. Ecco perché Milani è un creatore di immagini con le parole. E’ un maledetto vasaio che impasta storie alle quali ci si abbandona come dentro un labirinto senza  pietà.Del resto, la sua stessa vita è emblematica e malinconica, in qualche modo. Due sono i libri che la raccontano oggi, quasi una sorta di liberazione. Il primo è L’autore si racconta (Franco Angeli, pagg. 104, euro 14,00) e l’altro è Piccolo destino (Mursia, pagg. 182, euro 14,00). Con Mursia, con Ugo Mursia, Milani ebbe un rapporto amicale molto profondo, in cui ci si beccava anche da lasciarsi addosso i segni, perché si era diversi. Ma che bei tempi, però. Mursia gli pubblicò tutto il ciclo di Tommy River, quel cow – boy così problematico, così pallido dentro un West selvaggio e arido come soltanto saprà essere quello di Tex Willer. Fu un’intuizione esplosa una sera, con la febbre addosso, dentro un cinema di città, quando la voglia di andare a casa proprio non riesci a fartela montare nelle gambe.Mino s’era i ritrovato a guardare Ombre rosse, a restare annichilito dentro il buio e a guardarsi quella pellicola, anzi a bruciarla con gli occhi per due volte. Di lì nacque Tommy River, da un film storico, dalla febbre, dalla capacità di emozionarsi di Mino Milani. La sua cifra è infatti questa, il suo segreto più vittorioso: la capacità di trovare le emozioni, prima per sé, e poi per gli altri. Il segreto dei bambini, delle puttane, e dei marinai che guardano il mare.



D’altro canto Milani è sincerissimo in questo. Ci lascia la pagina sullo scrivere più diretta  che uno scrittore possa dare: “Cerco di capire se scrivano (gli aspiranti scrittori che gli si presentano, NdR) per loro intima necessità, ma non lo chiedo più, da quando uno di loro mi rispose: ‘Sì, perché sono andato in pensione e devo pur fare qualcosa, no? C’è molta fretta, spesso poca voglia di faticare e di attendere. Quasi nessuna accettazione di una critica negativa. Nella maggior parte dei casi, una mancanza di talento, irrimediabile come la persuasione d’esserne dotati. Il libro a tutti i costi, il libro come vittoria. Quanta amarezza a venire… Ci sono però anche veri e bravissimi scrittori in nuce;  ne ho conosciuti e…  mi glorio d’averli spinti a tener duro a lavorare a non badare ai rifiuti…Mi è molto bello”. In queste frasi c’è tutto Milani. Non un maestro bacchettone, o arcigno come alcune vicende della sua vita potrebbero far presagire sotto pelle. Milani vive le vicissitudini della vita in un pensiero sempre alla ricerca di una chiave:tenta di  capire la vita nella sua forza d’impatto, non cerca il destino per i suoi sotterranei più oscuri, ma cerca di accettarlo, si lascia condurre da lui. Armato, però. Non si fa mai trovare senza almeno un colpo in canna da sparare.
Nel 1986, il 30 luglio, Milani si pose una pistola al cuore e quella sparò. Questa è la parentesi scura della sua vita. Non aveva più voglia, o forse gli premeva addosso quel “male oscuro” di cui Giuseppe Berto ha offerto un ritratto tanto vero quanto senza punteggiatura. La depressione e la malinconia hanno bisogno di punti e virgola ? La pallottola non lo uccise e venne deviata quasi per un miracolo, o per il destino. Milani si trovò dentro la morte e ne uscì poi dopo. Quanto avrà pesato su quella decisione – sarà stata una decisione poi – la letteratura, è da vedere. In questo caso non va dimenticato quale uomo di letture sia Mino, e del fatto che la sua laurea fu in storia, e che anch’egli fu bibliotecario. Quanto peso ebbe sulla sua mente Martin Eden di Jack London ce lo dice Milani, direttamente. Il più grande romanzo sul suicidio, scritto da chi conobbe da vicino la gloria letteraria alla massima espressione, la dice lunga. E’ lo stesso spleen che forse ci rivela Tullio Pironti nell’ultimo suoi libro Il Paradiso al primo piano dove in fondo ci dice che ci vuole una vita per capire che – vincere o perdere – non significa niente. E’ quel senso di dismissione dalla vita ad assalire Mino quando la vita si fa più sotto e le avventure magari non gli parlano più come un tempo ? Non sappiamo.
Di certo è che Milani vive ancora oggi in una maniera vitale come gabbiano di mare nelle menti e nei cuori di tutti coloro ai quali i suoi libri arrivano. Rodari ha scritto che Milani non aveva preso in giro i ragazzi e – per questo – lo amarono. Non gli aveva ammannito una letteratura fatta di dolcezze. In Efrem, soldato di ventura, esistono passaggi capaci di far indugiare anche il cuore più inesorabile su alcune verità indicibili e che si ha difficoltà a confessarci. Efrem dice che gli animali – quando muoiono – si nascondono per farlo. E’ una frase molto semplice con un potere detonante terribile. Sono parole antiche, fatte di timori arcani, e vere di una realtà che sappiamo esistere in qualche modo. Oscura, ma presente. Milani ha saputo rendere le proprie storie partecipi di un destino che è quello dell’uomo. Ma quello di un uomo che sa dire di no e per questo riesce a farsi condurre da un destino pietoso, alla fine, anche se inflessibile. A costo della vita, a costo di farsi scuoiare. Efrem è un soldato di ventura, ma è stato un contadino, che diventa consapevole della sua ignoranza, e per questo impara a leggere e scrivere. Sa che non potrà più tornare indietro, e perde anche la memoria dei suoi genitori per poter andare avanti. Piange alla prima battaglia, perché un vero soldato e cavaliere non potrà più farlo. Sa che essere soldato di ventura significa vendere la propria spada per uccidere. Conserva un cuore cosciente, però, ed è quello che lo salva dagli altri, da quei soldati induriti che lui non diventerà MAI! Sa dire di no, quando vogliono fargli uccidere una donna anziana ed un ragazzo, a costo di farsi uccidere. E’ quel no! così imperativo e determinato, senza neanche un punto esclamativo, l’arma più forte di Efrem, la spada più pericolosa che Milani fa brandire al suo contadino nato per la guerra, un no che fa intuire l’esistenza – sopra tutto – di un “anima”.

sabato 20 aprile 2013

Con il Pd muore l'ultimo dei partiti. Ma è il funerale della politica




Annalisa Terranova

Attenzione: la morte del Pd non c’è stata ieri, con il segretario che getta la spugna dinanzi alle lobby interne, grida al tradimento e se ne va. C’è stata con la diretta streaming dell’incontro con i Cinquestelle. Pochi minuti in cui è andato in scena il pietoso spettacolo del partito tradizionale che si dissolve e della democrazia di sorveglianza che avanza. Perché quello di Grillo non è un partito personale come è stato scritto. L’ex comico è solo il rappresentante momentaneo di ciò che i sociologi chiamano “democrazia della sfiducia organizzata” il cui fine è dare voce al popolo-controllore, al popolo-giudice, al popolo-sorvegliante (si veda, sul tema, il bel saggio di Pierre Rosanvallon, Controdemocrazia, Castelvecchi). Ma torniamo a Bersani: dunque il partito-apparato se ne va in fumo con la complicità dello streaming, il partito decisore si dissolve nel confronto estenuante, il partito che dovrebbe puntare all’egemonia si piega al giudizio degli infanti del Parlamento. E solo dopo, solo dopo che il re è apparso nudo e in qualche modo simbolicamente ghigliottinato (e per re ovviamente non si intende Bersani ma una certa visione della politica), parte l’assalto di Matteo Renzi, cominciano le rivendicazioni di D’Alema, le cinquanta cartelle di Fabrizio Barca (uno che neanche aveva la tessera) sui destini del partito, i malumori ribollenti degli ex popolari. Quello è il passaggio dalla politica che legge La psicologie delle folle di Le Bon e L’Arte della guerra di Sun Zu alla politica che si perde nei mille rivoli dei tweet che diventano livoroso cinguettìo, orgia di disappunto, dissacrazione, veleno, resistenza, botta e risposta, paranza del giornalismo vip. E pensare che solo vent’anni fa Ciriaco De Mita regalava in Parlamento un libricino che si chiamava L’arte del silenzio. E come può resistere un partito in questa morsa? Come può resistere un partito (al di là degli innegabili, pervicaci errori di Bersani) quando le sue correnti pur di farsi la guerra mettono a repentaglio l’esistenza stessa della casa cui appartengono? E le correnti non sono più a loro volta portatrici di una sintesi di cultura politica, di un’idea di società e del modo di affrontare le trasformazioni economiche ma sono cordate che cercano più potere e più poltrone.
Mai come in queste ore è apparso evidente il dramma del Pd: in parte erede dell’antica serietà del partito comunista, in parte, in larga parte divenuto partito contenitore senza più alcun addentellato nella vivacità del Novecento che aveva dato i natali ai partiti fondati su una causa nobile, su un ideale, su un idea di rivoluzione. E il partito contenitore, lo sappiamo perché lo si vede anche sul fronte opposto, quello del Pdl, è solo insieme di interessi, convergenza di apparati che sopravvivono a se stessi, meccanismo senza alcuna ventata di energia e di spirito. Resta da vedere se il saluto all’ultimo dei partiti sia qualcosa da festeggiare o di cui rammaricarsi. Bè, per l’incapacità dimostrata dai suoi dirigenti (compreso l’arrembante Matteo Renzi) la fine del Pd appare come epilogo più che giusto. Non lo è per chi è cresciuto ripetendo a se stesso una famosa frase di Adriano Romualdi, uno dei pochissimi intellettuali transitati per il Msi: “Sogno un partito come la Compagnia di Gesù o come il Partito comunista”. Una frase dietro la quale c’era l’idea, molto vintage, molto anni Settanta, per cui se si faceva politica doveva esistere qualcosa di superiore al singolo individuo, qualcosa per la quale valesse la pena perdere e disperdere energie. Un partito, appunto. Il tramonto definitivo di questo concetto, lo sappiamo, lascia spazio ai partiti-contorno (Pdl), ai partiti tematici, ai partiti di nuovo conio buoni al massimo per una-due tornate elettorali, alle sigle che nascondono solo gruppi di potere e di interesse (si veda la candidatura di Alfio Marchini a Roma). Si dirà che con il Pd muore la sinistra e dunque chi sta dall’altra parte deve esserne contento. E perché mai? Senza avversari muore anche la politica. E del resto anche la destra è morta da un pezzo, e anche in quel caso per colpa dei colonnelli che hanno a un certo punto scaricato il vecchio leader per diventare loro stessi interlocutori del nuovo e più ricco e più potente capo. E anche allora i segnali di disfacimento non vennero colti. Anche allora si brindava e si cantava, come ha fatto ieri sera Berlusconi alla cena elettorale di Alemanno, per un Fini cacciato via. Ora si canta e si balla per un Prodi affondato, per una Bindi dimissionaria, per un Bersani KO. Finché la gigantesca onda anomala che sta seppellendo la politica non finirà il suo percorso, lasciando tra i detriti anche i brindisi frettolosi e le canzoncine allegre. Brindisi e canzoncine, peraltro, che hanno avuto come scenario una cena elettorale del sindaco di Roma uscente Gianni Alemanno il quale forse ha dimenticato, nell’ebbrezza dei festeggiamenti, che anche i suoi elettori hanno visto Report

venerdì 19 aprile 2013

Ernst Jünger, Adriano Olivetti e la Città del sole




Giovanni Tarantino

C’erano una volta le utopie, o forse, dopo tutto, ci sono ancora oggi. «C’è un mondo reale che diventa favola», diceva Nietzsche. Spesso l’utopia coincide con un’idea di polis, di città. Utopia, per Tommaso Moro, era d’altronde una città. Tommaso Campanella, nel 1602, immaginò La città del Sole: «Sorge nell’alta campagna un colle, sopra il quale sta la maggior parte della città; ma arrivano i suoi giri molto spazio fuor delle radici del monte dentro vi sono tutte l’arti, e l’inventori loro, e li diversi modi, come s’usano in diverse regioni del mondo».
La “città del sole” ha stimolato anche l’interesse di Ernst Jünger, nato a Heidelberg nel 1895, morto nel 1998, che ha attraversato un secolo, il Novecento, tempo di ideologie e di utopie. Jünger è stato nichilista, poi spiritualista libertario (dirigendo per anni con Mircea Eliade la rivista Antaios) ma è morto cattolico, a seguito di una conversione profond maturata nel 1996, a 101 anni. Il progressivo ripudio della tecnica e della globalizzazione, predominanti nella società occidentale, porta Jünger ad assumere la posizione dell’“anarca, e del Waldganger, che alla lettera sta per l’“uomo che si dà alla macchia”, impropriamente presentato nelle traduzioni italiane come il “ribelle” («è il singolo, l’uomo concreto che agisce nel caso concreto. Per sapere che cosa sia giusto, non gli servono teorie, né leggi escogitate da qualche giurista di partito. Il ribelle attinge alle fonti della moralità non ancora disperse nei canali delle istituzioni. Qui, purché in lui sopravviva qualche purezza, tutto diventa semplice». In Jünger il singolo libero è colui che passa al bosco, che migra e che almeno metaforicamente si allontana consapevolmente e spiritualmente dalla tecnica e dal potere. Eppure lungo tutto il suo corso e la sua vasta produzione bibliografica,  Jünger ha inventato città, in una trilogia inauguratasi nel 1939 da Sulle scogliere di marmo, proseguita dieci anni dopo con Heliopolis, conclusasi nel 1977 con Eumeswil.


Se perfino questo grande intellettuale e testimone del Novecento ha reso la città un luogo immaginario, immateriale, dove la “città del sole” corrisponde a una dimensione dell’anima, è stato invece l’italiano Adriano Olivetti che, partendo da presupposti ontologicamente diversi, ha provato a dare struttura concreta e reale a quella che ha definito “città dell’uomo”. Unico caso, tra quelli menzionati, di utopia realizzabile.
Michele Mornese, nel suo L’eresia politica di Adriano Olivetti, ha spiegato: «A differenza della Repubblica di Platone, dell’Utopia di Moro e della Città del Sole di Campanella, l’utopia di Adriano Olivetti si è dimostrata, almeno parzialmente, possibile. L’azienda Olivetti apportò contributi di modernità nel territorio, nei limiti della propria potenza economica, dando vita ad un capitalismo sociale, dal volto umano. Il concetto di utopia assume, alla luce di queste realizzazioni, segno positivo di intervento concreto che può aiutare a collocare nel giusto orizzonte culturale la sintesi di mondo materiale e mondo spirituale tentata da Olivetti. Ovvero la convinzione che il primo celi in sé forze latenti di autosuperamento, le quali ispirano un pensiero e un’etica dell’azione definibili come “forza vitale”». Ivrea, la fabbrica a dimensione di operaio, con biblioteche, con vetri a giorno, luogo ideale per lavorare e vivere. Esempio tangibile di come dovrebbe agire un imprenditore illuminato, quale Olivetti è stato.
Scrive Laura Olivetti, figlia di Adriano, nella presentazione al volume Costruire la città dell’uomo. Adriano Olivetti e l’urbanistica: «Sembrerebbe quasi che la parola utopista venga adoperata per storicizzare la sua figura con una modalità che tende a rimuovere e cancellare molto di quello che è stato fatto. È strano perché, tranne rarissimi casi, quando viene spiegato perché fosse un utopista si elencano automaticamente molte cose invece portate a termine e la parola utopia si dissolve».


Scomparso nel 1960, quando ne vengono rievocate le gesta in dibattiti, tavole rotonde, c’è sempre un pizzico di rimpianto. Olivetti è stato magistralmente raccontato in una storia a fumetti (edita da Becco Giallo) scritta da Marco Peroni (che è originario di Ivrea proprio come Olivetti) e disegnata da Riccardo Cecchetti. Un secolo troppo presto è il sottotitolo non casuale del libro: «Adriano credeva in una società di tipo nuovo, al di là del capitalismo e del socialismo. Attorno alla sua Ivrea, “l’Atene degli anni Cinquanta”, costruì il prototipo di un nuovo ordine, una comunità concreta in cui industria e cultura, profitto e solidarietà, produzione e bellezza si tenevano per mano». Basta poco per capire che fu un vero precursore, uno che aveva anticipato di gran lunga i tempi. Che, forse, per i suoi di tempi era troppo avanti: ai giovani del Movimento Comunità,  da lui fondato nel 1948, che gli rimasero attorno dopo le lacerazioni provocate dall’esito infruttuoso delle elezioni politiche del 1958, egli diceva, senza rimpianti e senza crucci per le sconfitte subite, che occorrevano ancora dieci anni di lavoro in “solitudine”. Poi la Comunità avrebbe proseguito il lavoro con le proprie forze.
Questa utopia andata comunque al potere è oggi raccontata, nuovamente, con grande merito dalle Edizioni di Comunità: il marchio della casa editrice, fondata dall’imprenditore nel ’46, è tornato a vivere. Grazie alla cura del direttore editoriale Beniamino de’ Liguori Carino, tornano in libreria le più importanti opere di Olivetti, non più disponibili da anni. Un modo concreto per riscontrare l’attualità del pensiero olivettiano, a partire da Ai lavoratori, primo di cinque scritti della collana Humana Civitas.   



Tony Augello: il mio combact film


Nella ricorrenza della morte di Tony Augello, scomparso il 19 aprile di tredici anni fa, Segnavia propone un interessante articolo a sua firma, sul tema della memoria e dell’identità, scritto nel 1994 a ridosso del 25 aprile, la prima volta che la ricorrenza venne celebrata sotto un governo di centrodestra. L’articolo è tratto dal libro “Una vita da ribelle. Scritti e discorsi in camicia nera” (Settimo Sigillo, 2001)




Tony Augello

1970. L’Italia arriva seconda ai mondiali di calcio messicani. Nelle feste – più in casa che in discoteca – si balla al ritmo lento di una canzone malinconica, “Monia”: molte fanciulle si ritroveranno battezzate Monia da genitori d’epoca ignorando il perché. Da sei mesi, ginnasiale quattordicenne, ho aderito alla Giovane Italia, l’organizzazione giovanile del Msi, e dichiaro a chiunque mi capiti a tiro i miei granitici convincimenti neofascisti.
Alle 8,30 della mattina del 25 aprile sono, con inusitata puntualità, sotto il liceo Orazio Flacco di Bari che frequento e sino alle 12,30 insceno il mio sit in di personalissima protesta contro l’ignobile festività.La ragazzina che mi è accanto finge di condividere con dolce ipocrisia il profluvio di argomentazioni che le riverso addosso: il fascismo terza via tra comunismo e capitalismo, la guerra del sangue contro l’oro, il tradimento del re, il legittimo governo della Repubblica Sociale, i pochi banditi comunisti al soldo degli invasori angloamericani, l’assassinio di Mussollini.
La mia cultura politica è di estrema approssimazione, ho cominciato a leggere Evola dal “Cammino del Cinabro”, la sua ultima opera riepilogativa di un complesso percorso, che è un po’ come infilarsi le scarpe prima delle calze, ma l’esposizione è appassionata e soprattutto la mia compagna di classe sta con me e beve le mie parole come passi del Vangelo. Passa un motorino con due “sovversivi” del mio liceo che mi salutano astiosi con pugno chiuso. Rispondo dalla mia gradinata con un impeccabile saluto romano. Ci odiamo con l’accanimento con cui si riescono a odiare solo gli adolescenti…
1994. E’ trascorso – me ne accorgo con inquietudine – quasi un quarto di secolo. Alla passione politica che è rimasta intatta e bruciante come allora, si sommano la compassione per quanto è avvenuto tra i ragazzi di quel tempo e la comprensione delle altrui ragioni. Mentre mi faccio la barba scopro stupito come il mio profilo non abbia acquisito nulla di governativo nelle ultime settimane ma rimanga identico a quello del bastian contrario che sono sempre stato. Certo capisco i motivi della stizza della sinistra sconfitta. Capisco anche la strumentalizzazione un po’ grossolana di questo 25 aprile, vigilia del primo governo a partecipazione missina della storia patria. Non potrei non capire dopo una vita di sconfitte. Non mi scandalizza affatto il tentativo di enfatizzare la data, le manifestazioni, la stanca liturgia.
Ho un'unica preoccupazione che è quella del riaccendersi dell’odio tra i giovani, di quell’odio superato con tanta fatica dopo la tragica caricatura di guerra civile strisciante che ho vissuto, cimentandomi anch’io in giochi di mani e di villani, per tutti gli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, di quell’odio che ha insanguinato le strade, spezzato esistenze di ragazzi singolarmente simili, da un versante e dall’altro, per entusiasmo e purezza d’intenti, di quell’odio che è servito a cementare sul sangue di quei ragazzi il sistema di potere democristiano e la sua consociazione con il Pci-Pds.
Non voglio sfuggire il tema, la domanda che mi proponeva in un dibattito quel simpatico provocatore del collega Carmine Fotia: sei ancora fascista? Ma quanto sei fascista? Credo che il processo di revisione storica del fascismo intrapreso da Renzo De Felice non possa essere cancellato dalla miseria della cronaca politica. Credo che la seconda guerra mondiale sia stata l’ultimo e più sanguinoso capitolo di quella interminabile guerra civile europea iniziato con le guerre di religione, temperato dai conflitti dinastici, esasperato negli ultimi due secoli dall’esplodere dei nazionalismi.
Credo che gli antifascisti veri – una sparuta minoranza durante il Ventennio – meritino particolare rispetto a cominciare da quella lucida intelligenza che corrisponde al nome di Antonio Gramsci. Come rispetto meritano quelle due più consistenti minoranze che combatterono la guerra civile italiana tra il ’43 e il ’45 mentre la maggioranza furba e un po’ cialtrona del nostro popolo stava alla finestra, in attesa di correre in soccorso del vincitore.
Credo all’attualità e alla giustezza profonda di alcune spinte politiche e culturali che hanno animato il fascismo: la ricerca del ruolo centrale del nostro Paese nella vita del Mediterraneo; la spinta alla modernizzazione dello Stato; il sostegno alla nazionalizzazione delle masse o meglio alla difesa dei soggetti più deboli, alla giustizia sociale, a raffrenare gli eccessi spietati del liberalcapitalismo in tutte le sue forme. Non condivido e condanno nel fascismo i limiti posti alla libertà d’espressione, al pluralismo, al dissenso, più vastamente alle libertà individuali. E ritengo un grave errore le leggi razziali del 1938.
Quanto sono fascista? Mi pare difficile individuare l’apparecchio per misurarlo. So per certo che oggi credo fermamente nel diritto di manifestare l’esatto contrario delle mie opinioni, di divulgare ogni tipo di pensiero e cultura politici e sono pronto a battermi per tutelare questi diritti di quelli che reputo miei avversari non nemici. Spero solo che nessuno intenda riaprire la stagione dell’odio.

giovedì 18 aprile 2013

Il filosofo e "il Gatto": quando Tullio De Mauro era fascista e Mario Gionfrida comunista


Luciano Lanna

Qualche anno fa Pierluigi Battista ha saputo squarciare quel velo di censura e rimozione che per troppi anni ha impedito agli italiani di raccontarsi la loro più vera e profonda storia personale, familiare e generazionale. Una storia che, nella sua complessità, si pone oggettivamente al di là di tutte le narrazioni ideologiche e strutturali che hanno egemonizzato per decenni il nostro racconto collettivo. E veniamo al punto: Battista annotava il fatto che, finalmente, i figli dei fascisti non si vergognavano più e potevano tirare fuori senza più reticenze la propria vera vicenda familiare. “Da qualche tempo – scriveva Battista – i figli dei fascisti hanno imparato a dire di essere figli di fascisti, senza i penosi balbettii dell’imbarazzo e le remore psicologiche del passato”. Il giornalista citava, tra i tanti, oltre al suo caso personale, quelli di Vincenzo Cerami, Paolo Rossi, Giampiero Mughini e Darwin Pastorin. E tanti altri, guardando ai padri o ai nonni o agli zii, se ne potevano aggiungere: da Antonio Padellaro a Dario Franceschini, da Nicola Emiliano a Marco Lodoli, da Enrico Vaime a Massimo Cacciari, da Giacomo Marramao a Lorenzo Pavolini… Riuscire a fare i conti – e far la pace – con il fascismo in casa o in famiglia, ha coinciso quindi con una nuova memorialistica che scalzando le vecchie letture astratte e ideologiche ha cominciato a pacificarci con la nostra più autentica memoria collettiva. E così, tanto per dire, abbiamo iniziato a far riaffiorare molti rimossi e a reintrodurre l’imprescindibile (e spesso sorprendente) “fattore umano” nella ricomprensione del nostro passato. Una aspetto che vale, ad esempio, per il nucleo centrale del bel libro Parole di giorni un po’ meno lontani (il Mulino, pp. 190, euro, 15,00), scritto dal filosofo del linguaggio ed ex ministro Tullio De Mauro.



“Mio fratello – si legge a un certo punto – non aveva più dubbi: aveva deciso di aderire alla Rsi e di ripresentarsi in armi. Anche i miei genitori condivisero la scelta e, per quel che era possibile a un ragazzo di undici anni, la condivisi anche io…”. E De Mauro definisce infatti il sé stesso di quegli anni proprio come un “ragazzo fascista”: lo stesso Mauro che, nel dopoguerra, si avvicinerà agli ambienti radicali che gravitavano attorno alla rivista Il Mondo, che negli anni Settanta sarà consigliere regionale e assessore alla Cultura alla Regione Lazio in quota Pci e che, tra l’aprile del 2000 e il giugno 2001, sarà ministro dell’Istruzione di un governo di centrosinistra. Eppure, suo fratello Franco, aviatore volontario e fascista, era morto eroicamente in volo il 3 marzo del 1943. L’altro suo fratello, il giornalista Mauro (di cui si parlerà nel 1970 per la tragica scomparsa dopo alcune sue inchieste sul caso Mattei), si era arruolato volontario nella Decima Mas, fera stato fatto prigioniero a Coltano e fu anche latitante fino all’assoluzione nel 1948… E per finirla, anche il maestro di studi linguistici di De Mauro, il grande glottologo Antonino Pagliaro, era stato fascista ed epurato.
Ma l’episodio secondo noi più sintomatico dello scoperchiamento di complessità da cui siamo partiti è quello sul tema che Tullio De Mauro scrive in quarta ginnasio. Siamo al liceo “Giulio Cesare che l'attuale filosofo del linguaggio frequentò da adolescente a Roma, e dove ebbe per compagno di classe Mario Gionfrida. “In quell’autunno del 1945 – racconta De Mauro – tra i nostri compagni, chi aveva opinioni o appartenenze politiche precise non le manifestava. Con due sole eccezioni: io e il ragazzo seduto al primo banco, il mingherlino, allora, minuto, capelli a spazzola e occhialini tondi, Mario Gionfrida. Io ero il fascista della classe. Mario ereditava invece dalla famiglia la convinzione opposta, era il comunista della classe…”. Un giorno il professore di lettere dà un tema non banale, e non così frequente all’epoca: come vedete l’Italia contemporanea. “La guerra era finita – scrive oggi De Mauro – da pochi mesi, la sconfitta del fascismo archiviata, la scelta di combattere insieme ai tedeschi ‘per l’onore d’Italia’ si era conclusa con la dissoluzione della Rsi. Nel mio tema ripercorrevo le ragioni di quella scelta e la difendevo con passione…”. Quando il professore riporta i temi, disse che quello di De Mauro era controcorrente e non condivisibile, sosteneva una tesi “sbagliata”, ma era ben argomentato e davvero ben scritto.



Passarono alcuni anni, e tanta acqua sotto i ponti. “Il mio guscio fascista si era incrinato e poi rotto”, spiega De Mauro: “Nel 1951, sedotti da Marco Pannella, Gabriele Giannantoni e io c’eravamo frettolosamente iscritti al Partito liberale per sostenere la sinistra liberale vicina a quelli del Mondo…”. Poi, la sua militanza nella laica Unione Goliardica che si contrapponeva ai neofascisti del Fuan, l’organizzazione universitaria missina: “Fu in quel contesto – leggiamo – che incontrai di nuovo, dopo anni, Mario Gionfrida. Di nuovo tuttavia simpatizzammo, e ironizzammo sul fatto che ci eravamo mossi in direzioni opposte senza però incontrarci, ma per ritrovarci di nuovo su fronti avversi”. E lì Gionfrida – noto anche col soprannome de “il Gatto” – si lasciò andare a due confidenze: “La prima, di cui gli fui grato era – ricorda De Mauro – che quando si organizzava qualche squadra per una spedizione punitiva contro qualcuno di noi laici di sinistra, se veniva fatto il mio nome, lui interveniva per dirottare altrove l’impresa. E la seconda era che faceva questo perché si sentiva in debito con me”. Perché? “Mi spiegò Mario – conclude la sua confessione il linguista – che ero stato io, col mio tema, a colpirlo, a commuoverlo, a spingerlo sulla via della rivalutazione del fascismo e, quindi, dell’avvicinamento alle organizzazioni giovanili neofasciste…”. Gionfrida d’altronde si impegnerà a tempo pieno in politica, scalando il Msi a Roma, e avendo un momento di notorietà quando, guidando con Vittorio Sbardella e altri, un corteo di giovani missini, arrivato presso la sede del Pci in via delle Botteghe Oscure si avvicinò alla libreria Rinascita per lanciare una bomba carta che, però, gli esplose mentre la teneva ancora in mano. La mano gli venne dilaniata senza possibilità di recupero e Gionfrida visse sempre con una protesi ricoperta da un guanto nero montato sul moncherino. Fu fino al 1993, consigliere comunale a Roma, e nel partito era vicino alla componente di Pino Ronualdi. Di lui parla anche il suo coetaneo milanese Tomaso Staiti nel recente libro “on line” Il suicidio della destra. Non una schianto ma una lagna: “Erano anni di ragazze, osterie, libri mal capiti ma letti, famiglie preoccupate, spesso politicamente divise, come quella di Mario Gionfrida, ‘il Gatto’ il quale ci aveva rimesso un braccio nell’assalto con bomba carta a via Botteghe Oscure e la cui sorella era una decorata della Resistenza”. Una vera e complessa scelta di campo, insomma, quella che Gionfrida, forse, tenne segreta sino alla sua scomparsa nel 2001. E che oggi il “comunista” (?) Tullio De Mauro ricorda con affetto e nostalgia. Aiutandoci, tutti, a fare i conti (e a pacificarci) con l’eredità del Novecento.


Se in Grecia si torna a evocare i giorni dell’occupazione militare tedesca




Francesco De Palo


Berlino da quell’orecchio non ci sente, ma Schaeuble farebbe bene per una volta a scendere sulla terra e dare uno sguardo a numeri e tabelle. La Grecia chiede alla Germania i danni per l’occupazione militare della seconda guerra mondiale. Da Atene è giunto sulla scrivania di Frau Cancelliera il dossier composto da un pool di esperti tra cui dirigenti del ministero delle Finanze e dell’archivio generale di Stato. Che hanno scansionato più di centonovantamila pagine e settecento volumi di materiale riguardante i danni provocati alla Grecia durante l’occupazione tedesca, ritrovati nei sottoscala dei ministeri in vari quartieri ateniesi. Assieme alle richieste degli eredi dei trecentomila greci uccisi e alle perizie dei danni ad aziende e città, si è giunti a quantificarli in 160 miliardi di euro, ovvero quasi il 70 per cento del debito ellenico nei confronti dei creditori internazionali. Un allarme rosso che si è acceso a Berlino, insomma. Dove lo stesso Schaeuble dice di non fare troppo affidamento, ma ottenendo la risposta del ministro degli esteri greco Dimitris Avramopulos (“abbiamo diritto ad avanzare pretese, vedremo in seguito come e quando”). I numeri del maxi risarcimento sono stati pubblicati dal quotidiano ellenico To Vima e ripresi anche dalla stampa tedesca, che successivamente ha provveduto ad effettuare un “contrattacco” con lo Spiegel che oggi punta l'indice sui patrimoni nascosti di Italia, Grecia e Spagna. Ma senza dire una sola parola, ad esempio, su quanti interessi la Bundesbank stia maturando per i prestiti fino ad ora concessi.
Un punto fisso sta nella difficoltà del premier greco Samaras a issare il dossier come un vessillo su cui far valere i propri diritti, in quanto non intende compromettere i suoi rapporti con la cancellieea Merkel. Come se questi fossero la priorità e non le condizioni del paese sempre più schiacciato da tre memorandum, dove il governo ha appena deciso di inserire l'Imu all'interno della bolletta elettrica. E tagliando la luce ai morosi. E' buio pesto sull'Europa.
(twitter@FDepalo)